Basta una telefona perchè si configuri il reato di molestie (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 8 febbraio 2018, n. 6064).

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TARDIO Angela – Presidente –

Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere –

Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –

Dott. TALERICO Palma – Consigliere –

Dott. CENTOFANTI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.C., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 04/07/2016 del TRIBUNALE di TREVISO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere MONICA BONI;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ZACCO Franca;

Il Procuratore Generale conclude per l’annullamento senza rinvio limitatamente ai benefici di legge concessi e rigetto nel resto il ricorso;

Il difensore presente chiede il rigetto del ricorso e la conferma della sentenza con condanna alle spese e deposita conclusioni e nota spese.

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza in data 4 luglio 2016 il Tribunale di Treviso condannava l’imputato G.C. alla pena di giustizia in quanto ritenuto responsabile del reato di molestie per avere, per petulanza o biasimevole motivo, effettuato chiamate telefoniche mute o caratterizzate da riferimenti a persone conosciute dal denunciante ed avere inviato sms diretti all’utenza intestata ad Gr.An.; lo condannava altresì al risarcimento dei danni in favore del predetto Gr., costituito parte civile, ed alla rifusione in suo favore delle spese di costituzione.

2. Avverso la sentenza ha proposto appello, in seguito riqualificato come ricorso, l’imputato a mezzo del difensore, il quale ha dedotto:

a) l’illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non prevede che l’imputato condannato a pena pecuniaria dell’ammenda possa proporre appello. L’art. 574 c.p.p., consente all’imputato di impugnare la sentenza di condanna senza operare alcuna distinzione sulla tipologia di sentenza appellata, prevedendo, quindi, la necessaria impugnazione delle statuizioni penali al fine di far valere le successive questioni civili ad essa legate, non essendo prevista forma autonoma d’impugnazione per le sole statuizioni civili. Il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 37, che introduce la disciplina del processo avanti al Giudice di Pace, statuisce che l’imputato “può proporre appello avverso la sentenza che applica una pena diversa da quella pecuniaria; può proporre appello anche contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno”.

Le diverse previsioni normative legate alla tipologia del Giudice adito confliggono col principio di ragionevolezza perchè di fatto consentono di appellare sentenze per reati che il legislatore ha ritenuto meno lievi e la escludono per reati ben più gravi e di competenza di un giudice superiore. Inoltre, attribuiscono al Giudice di primo grado la possibilità di escludere l’imputato dalla garanzia Costituzionale del doppio grado di giudizio di merito senza che tale discrezionalità possa essere censurata se non avanti al Giudice di legittimità. Tanto viola l’art. 3 Cost., ove consente il doppio grado di giurisdizione di merito a seconda che la condanna sia pronunciata dal Tribunale, oppure dal Giudice di Pace.

b) Mancanza di motivazione in ordine al giudizio di responsabilità. La ricostruzione degli elementi di fatto della vicenda non è condivisibile perché imprecisa per non avere riscontrato le contraddizioni che presentano le prove a carico dell’imputato ed ispirata a chiaro pregiudizio nei confronti dell’imputato, i cui argomenti difensivi non sono stati presi nemmeno in considerazione. E’ stata ritenuta coerente la versione della persona offesa, ma con motivazione solo apparente che non supera il, ragionevole dubbio dell’innocenza del G..

Sotto un profilo oggettivo non è integrato il reato contestato poichè l’istruttoria dibattimentale, ha chiarito e confermato che si è trattato di sole tre telefonate, come risulta dai tabulati acquisiti e prodotti, sicchè manca il requisito della petulanza e/o altro biasimevole motivo.

Se per “petulanza”, ai fini della configurabilità del reato di molestie di cui all’art. 660 c.p., deve intendersi un atteggiamento di insistenza eccessiva e perciò fastidiosa, di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera, deve escludersi che l’effettuazione di due sole telefonate mute possa costituire espressione di petulanza nel senso anzidetto.

Da ultimo la Cassazione precisa ancora che per la configurabilità del reato rileva anche l’atteggiamento del soggetto che interferisce, infatti, “ai fini della sussistenza del reato di molestie deve considerarsi petulante l’atteggiamento di chi insiste nell’interferire nella altrui sfera di libertà anche dopo essersi accorto che la sua condotta non è gradita”.

Manca altresì il requisito dell’elemento soggettivo del reato per avere agito il ricorrente perchè preoccupato per la situazione in cui era coinvolta la propria amica, moglie del Gr., autore di violenze in danno della moglie, oggetto anche di sentenza di condanna a carico dello stesso, dal Tribunale di Treviso.

c) Mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità del fatto di particolare tenuità. L’istruttoria ha fatto emergere tutti i presupposti di cui all’art. 131 bis c.p., per le modalità della condotta posta in essere dallo stesso imputato, l’esiguità del danno o pericolo e la mancanza di abitualità del comportamento dell’offensore.

d) Determinazione della pena in entità sproporzionata rispetto al fatto contestato e mancata applicazione dei benefici di legge. La pena doveva essere contenuta anche per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; anche sul punto vi è difetto assoluto di motivazione.

e) Mancanza di motivazione in ordine all’entità del risarcimento del danno riconosciuto in favore della parte civile, liquidato senza esporre i criteri di commisurazione, mentre non risulta in alcun modo chiarito che tipo di danno avrebbe sofferto la parte lesa per avere ricevuto tre telefonate dal ricorrente.

f) Mancanza di motivazione in ordine alla condanna alla refusione delle spese in favore della parte civile.

La recente sentenza Cass., sez. 5^, 27 maggio – 8 luglio 2014, n. 29934, ha stabilito che vi è l’obbligo per il giudice nella determinazione del compenso a far riferimento, con adeguata e specifica motivazione, ai parametri previsti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140, artt. 1, 12, 13 e 14, concernenti l’impegno profuso nelle diverse fasi processuali, la natura, la complessità e la gravità del procedimento e delle contestazioni, il pregio dell’opera prestata, il numero e l’importanza delle questioni trattate, l’eventuale urgenza della prestazione, nonchè i risultati e i vantaggi conseguiti dal cliente.

Una determinazione globale, senza distinzione tra onorari, competenze e spese, non consente alle parti di verificare il rispetto dei parametri normativi di riferimento e di controllare l’eventuale onerosità, necessaria per consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l’accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed ai criteri di determinazione fissati dalla normativa di riferimento (cfr. Cass., Sez. Un., 30 aprile 1997, Dessimone, n. 6402).

Se il giudice non è più vincolato, come per il passato, ai limiti minimi e massimi fissati, nel determinare ciò che deve essere rifuso a titolo di compenso per le prestazioni del patrono di parte civile, egli deve ora comunque fare riferimento ai parametri stabiliti nel D.M. n. 55 del 2014, e fornire adeguata e specifica motivazione sulla loro utilizzazione.

Motivi della decisione

 

Il ricorso è solo parzialmente fondato e va accolto nei limiti in seguito specificati.

1. La questione di incostituzionalità dell’art. 593 c.p.p., comma 3, viene sollevata dal ricorrente a ragione della previsione della limitazione introdotta alla esperibilità del mezzo d’impugnazione dell’appello a prescindere dai casi in cui alla condanna penale segua quella agli effetti civili e segnala come tale restrizione non sia stata mantenuta anche in riferimento alle sentenze di condanna a pena pecuniaria emesse dal Giudice di pace, appellabili da parte dell’imputato se contesti il capo relativo alla condanna anche generica al risarcimento del danno in favore della parte civile.

La differente disciplina dell’appello, ammesso per reati meno gravi giudicati dal giudice di pace, ed escluso per quelli di competenza del giudice superiore, sarebbe in contrasto col principio di ragionevolezza e consente al giudice di precludere all’imputato l’accesso alla garanzia costituzionale del doppio grado di giurisdizione di merito senza che tale discrezionalità sia sindacabile se non nel giudizio di cassazione.

1.1 Va premesso che sotto il profilo da ultimo dedotto la questione è priva di fondamento per due ordini di ragioni.

1.1.1 In primo luogo, la pretesa dell’imputato che ogni processo si possa svolgere in due distinti gradi di merito non è garantita da una norma costituzionale, come riconosciuto dalla stessa Consulta (C. cost., sentenze n. 62 del 2/4/1981; n. 585 del 2000; n. 84/2003; ordinanze n. 26 del 24/1/2007; n. 107 del 21/2/2007; n. 410 del 7/11/2007), secondo la quale l’esclusione di tale garanzia, riconosciuta dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza di legittimità, si basa sull’assenza nel testo costituzionale di una proposizione analoga a quella contenuta nell’art. 111 Cost., comma 2, per il ricorso per cassazione, determinazione voluta, secondo i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, per il modesto allarme sociale prodotto dai reati di lieve entità (Ass. Cost., 27 novembre 1947, pag. 2593).

Inoltre, è stato escluso che soluzione diversa nel senso indicato dal ricorrente possa basarsi sul disposto dell’art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione quale diretta espressione del diritto di difesa, perché tale precetto assicura la tutela di siffatto diritto in ogni stato e grado del procedimento, ma non garantisce di poter fruire di due gradi di merito, e nemmeno sull’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificato nell’ordinamento dalla L. 25 ottobre 1977, n. 881, dal momento che il sistema vigente assicura comunque un riesame nel merito del giudizio di condanna per delitti quando si denuncino vizi nello svolgimento del processo e nella formazione del convincimento del giudice.

Del pari, anche sotto il diverso profilo della violazione dell’art. 3 Cost., comma 1, o del combinato disposto degli artt. 3 e 24 Cost., si è affermato che il diverso regime dell’impugnazione è giustificato dalla differente natura dei reati da giudicare.

1.1.2 Sotto diverso profilo va rilevato che l’assenza del grado di appello non dipende da una scelta discrezionale del decidente, ma dalla previsione esplicita dell’art. 593 c.p.p., il cui testo è stato già esaminato dalla giurisprudenza costituzionale in raffronto con il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 37, che più volte ha superato lo scrutinio di costituzionalità (sentenze n. 426 del 19/12/2008 e n. 32 del 4/2/2010).

La Consulta ha osservato che l’individuazione della condanna al risarcimento del danno quale elemento discriminante del regime di impugnazione delle sentenze che hanno inflitto pena pecuniaria è coerente con il complessivo impianto del processo penale che si celebra davanti al giudice di pace, come delineato dalla legge di delegazione e, in sua attuazione, dal decreto delegato, nel quale è previsto che le condotte riparatorie post delictum determinino l’estinzione del reato (L. n. 468 del 1999, art. 17, comma 1, lett. h); D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 35), ove “idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione (…) e di prevenzione”, assolvendo, per certi versi, ad una funzione sostitutiva della pena.

Quel che più rileva è l’esclusione della violazione del principio di eguaglianza per il diverso trattamento che sarebbe riservato a fattispecie identiche o similari, avuto riguardo alla regola dell’inappellabilità sancita dall’art. 593 c.p.p., comma 3, come sostituito dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 13, (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), per le sentenze di condanna alla pena dell’ammenda pronunciate dal tribunale.

Per negare l’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina delle impugnazioni previste per il procedimento penale davanti al giudice di pace si è evidenziato che questo configura un modello di giustizia non comparabile a quello davanti al tribunale a ragione dei caratteri peculiari che presenta (ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005). In particolare, il D.Lgs. n. 274 del 2000, devolve alla competenza del giudice di pace “reati espressivi di conflitti a carattere interpersonale, rispetto ai quali, come già rilevato, in correlazione con la fondamentale finalità conciliativa, è contemplata l’estinzione conseguente a condotte riparatorie ed è definito un autonomo apparato sanzionatorio, in cui la previsione edittale concerne invariabilmente la pena pecuniaria, in alternativa alla quale possono essere discrezionalmente irrogate, in taluni casi, pene “paradetentive” (sentenza n. 2 del 2008). A tali peculiarità corrisponde non irragionevolmente una asimmetria nel regime di impugnazione delle sentenze” (C.cost. senetenza n. 426/2008 citata).

1.1.3 Per la soluzione della questione sollevata dalla difesa assume rilievo anche la sentenza n. 85 del 4/4/2008, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 1, (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 c.p.p., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.

Nella sua corposa motivazione la pronuncia in esame ha escluso di poter rimuovere, tramite lo strumento della declaratoria di incostituzionalità in via consequenziale, la previsione del comma 3 dell’art. 593 c.p.p., in modo tale da consentire all’imputato di appellare anche le sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda; ha rilevato che questa soluzione assumerebbe carattere marcatamente “creativo”, determinando l’eliminazione di ogni limite oggettivo alla proponibilità dell’appello avverso sentenza che abbiano affermato la responsabilità per reati di minore gravità, che resta priva di riscontro nell’assetto dell’istituto antecedente alla L. n. 46 del 2006, ed estraneo alla stessa finalità deflattiva.

Deve dunque rilevarsi l’inammissibilità per manifesta infondatezza dell’incidente d’incostituzionalità sollevato dal ricorrente.

2. Nel merito l’impugnazione si appunta sulla mancata integrazione del reato contestato, sostenendo l’insufficienza di tre soli contatti telefonici tra imputato e persona offesa.

In tal modo ignora però che le condotte moleste, secondo quanto esposto nella sentenza contestata, che ha valorizzato la deposizione della persona offesa in relazione ai dati emersi dai tabulati del traffico telefonico, erano consistite anche in sms provenienti dall’utenza in uso all’imputato, alcuni trascritti in atti e fotocopiati e che il contenuto dei messaggi alludeva ad un relazione sentimentale della ex moglie con l’imputato o con altri uomini, argomento sgradito e trattato al solo fine di infastidire e dileggiare il destinatario.

Correttamente nella condotta siffatta sono stati riconosciuti i tratti caratteristici della petulanza per l’insistente intromissione da parte dell’imputato nella sfera privata del denunciante, a nulla rilevando le pretese preoccupazioni per la situazione della moglie dello stesso, esposta ad imprecisate violenze, che non avrebbero potuto essere impedite o rimediate mediante i comportamenti intrusivi e molesti oggetto di imputazione.

2.1 La sentenza al riguardo offre corretta applicazione dei principi interpretativi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo i quali il reato di molestia o disturbo alle persone, secondo consolidato insegnamento giurisprudenziale, non ha natura di reato necessariamente abituale, sicché può essere realizzato anche con una sola azione (Cass., Sez. 1, n. 29933 dell’08/07/2010,Arena, rv. 257960), purché particolarmente sintomatica dei requisiti della fattispecie tipizzata.

L’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma dev’essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole, motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire sgradevolmente nella sfera privata di altri.

In particolare, si è affermato che, per integrare il delitto di molestie, commesso per petulanza, è richiesto “un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, con la conseguenza che la pluralità di azioni di disturbo integra l’elemento materiale costitutivo del reato” (Cass. sez. 1, n. 6908 del 24/11/2011, Zigrino, rv. 252063; sez. 1, n. 29933 del 08/07/2010, Arena, rv. 247960).

2.2 Piuttosto va rilevato che, in ossequio al principio sopra esposto, nel caso di specie non è configurabile l’ipotesi del reato continuato, perchè la pluralità di azioni disturbanti integra il carattere tipico dell’abitualità, il che comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e l’eliminazione dell’aumento di pena stabilito a tale titolo e pari ad Euro 100,00 di ammenda.

2.3 I superiori rilievi circa l’abitualità della condotta danno conto anche dell’esclusione della possibilità di applicare la speciale causa di non punibilità, prevista dall’art. 131 bis c.p., il cui testo esclude espressamente dal suo ambito di applicazione il comportamento abituale.

2.4 Quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge, la sentenza impugnata si è limitata ad osservare che, stante l’entità della pena inflitta, era consigliabile non applicare la sospensione condizionale della pena al fine di consentire all’imputato di poterne fruire in futuro.

Trattasi però di statuizione manifestamente illogica e carente nella sua giustificazione che non tiene conto della richiesta esplicita della difesa, volta proprio a conseguire i benefici di legge; in tal modo il decidente ha inteso prescindere dalla volontà dell’imputato e sovrapporre una propria determinazione discrezionale dagli effetti concreti meno vantaggiosi per la parte sulla scorta di rilievi del tutto apodittici sul maggior favore del diniego della sospensione condizionale della pena ai fini di una futura applicazione in relazione a differenti eventuali futuri reati.

Non soltanto la decisione avrebbe richiesto una puntuale giustificazione che superasse le indicazioni provenienti dalla difesa, ma la stessa previsione di un possibile futuro accesso alla sospensione dell’esecuzione della pena postula la previsione già attuale della commissione di nuovi reati da parte dell’imputato, il che in sè contraddice la prognosi anticipata presupposto per la concessione del beneficio.

Nessun rilievo è stato esposto in ordine alla richiesta di applicazione delle circostanze attenuanti generiche, incorrendo la sentenza nel vizio di carenza di motivazione e, per tali ragioni, se ne impone l’annullamento con rinvio al Tribunale di Treviso in diversa composizione, che in piena libertà cognitiva dovrà procedere a nuovo giudizio sui punti riguardanti il trattamento sanzionatorio in relazione alle circostanze attenuanti generiche ed ai benefici di legge.

2.4 Va, invece, respinto il motivo che censura la liquidazione del danno in favore della parte civile, che però ha tenuto conto dei pregiudizi morali subiti dal Gr. in conseguenza delle condotte moleste subite, causa di ansia, preoccupazione e turbamento; in tal modo la sentenza ha già specificato anche la natura dei danni subiti in coerenza con le caratteristiche concrete della fattispecie, come probatoriamente ricostruita.

2.5 Anche l’ultima censura che investe la liquidazione delle spese di costituzione della parte civile non tiene conto e non si confronta con la sentenza, che ha esplicitato l’accoglimento della richiesta avanzata dalla parte civile sulla scorta del recepimento della relativa nota spese “ritenuta congrua”.

Pertanto, il tribunale ha espresso chiara adesione alla richiesta ed alle singole voci ivi esposte; per contro, il ricorso non aggredisce tale statuizione e non contesta l’eccessiva entità degli importi riconosciuti in riferimento alle attività processuali realmente svolte.

In tal modo l’impugnazione si presenta affetta da aspecificità perché non supera e non contesta in modo puntuale il giudizio di congruità ed adeguatezza della nota presentata dalla parte civile.

Per quanto esposto, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio quanto alla continuazione, che deve essere esclusa, con conseguente eliminazione dell’aumento di pena a tale titolo applicato e pari ad Euro 100,00 di ammenda; va altresì annullata con rinvio al Tribunale di Treviso, in composizione diversa, quanto al diniego delle attenuanti generiche e dei benefici di legge.

Nel resto il ricorso va respinto.

P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla continuazione, che esclude ed elimina l’aumento di pena di Euro 100,00 di ammenda.

Annulla la sentenza impugnata quanto al diniego delle attenuanti generiche ed ai benefici di legge e rinvia per nuovo giudizio sui punti al Tribunale di Treviso in diversa composizione.

Rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2018.