Capitano dell’Arma accusato di appropriazione della corrente elettrica della caserma di cui è comandante. Abuso di ufficio o peculato militare? Il Gup decide per il non luogo a procedere, ma per la Cassazione processo da rifare.

(Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, sentenza 31 maggio 2017, n. 27364)

…, omissis …

SENTENZA

sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di F. avverso la sentenza pronunciata dal G.u.p. del Tribunale di F. il 19/5/2016 nei confronti di Z.P. A., nato a (OMISSIS) il …….., visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Mogini;

udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Pietro Gaeta, che ha concluso per l’annullamento dell’impugnata sentenza;

udito in difesa del ricorrente l’Avv. (OMISSIS), che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Ritenuto in fatto

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di F. ricorre avverso la sentenza in epigrafe, con la quale il G.u.p. del Tribunale di F. ha dichiarato ai sensi dell’art. 425 cod. proc. pen. non esservi luogo a procedere nei confronti di Z. P. A. per insussistenza del fatto in ordine al delitto di abuso d’ufficio, a lui ascritto perché, in qualità di pubblico ufficiale quale Capitano dell’Arma dei Carabinieri e Comandante pro tempore della Compagnia Carabinieri di F. nello svolgimento delle sue funzioni e in violazione l’art. 367 del D. Igs. n. 66/2010 del T.U. delle disposizioni regolamentari in materia di Ordinamento Militare, avendo ottenuto dal Comando Legione Carabinieri M. la concessione di alloggio di servizio a titolo gratuito connesso all’incarico ricoperto con obbligo di corrispondere gli oneri per il consumo di energia elettrica, ometteva di scollegare il proprio alloggio di servizio dal contatore Enel in uso alla Caserma e di collegarlo al contatore a lui intestato, procurandosi in tal modo un ingiusto vantaggio patrimoniale, corrispondente ai consumi elettrici non pagati.

La sentenza impugnata ha affermato che nel caso di specie non è configurabile il contestato delitto di cui all’art. 323 cod. pen. poiché: a) il pubblico ufficiale ha realizzato la condotta abusiva al di fuori dello svolgimento delle funzioni o del servizio a lui propri; b) l’art. 367 D.Igs. 66/2010 non regola l’attività dei militari dell’Arma dei Carabinieri, né attribuisce loro il potere di compiere le funzioni d’ufficio, ma riguarda l’efficienza degli usi finali dei servizi energetici, sicché non è immaginabile che la condotta addebitata al prevenuto possa aver violato le norme che disciplinano l’esercizio dei poteri collegati alla pubblica funzione attribuita all’imputato, né che ne abbia comportato lo sviamento.

2. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di F. censura la sentenza impugnata deducendo inosservanza ed erronea applicazione degli artt.323 cod. pen., 419 e 425 cod. proc. pen., in quanto per la configurabilità del delitto di cui all’art. 323 cod. pen. è necessario che l’atto o il comportamento rientrino nelle competenze dell’ufficio al quale il soggetto appartiene e in relazione al quale egli eserciti o possa esercitare una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto, essendo quindi allo scopo sufficiente che la condotta contestata sia espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione da lui esercitata. Inoltre, la condotta in esame integrerebbe comunque la fattispecie di peculato militare (art. 215 cod. pen. mil .) dell’energia elettrica, appartenente all’Arma dei Carabinieri, di cui lo Z. si è appropriato.

3. Il difensore di fiducia di Z. P. A. ha depositato in data 16/2/2017 una memoria adesiva alle ragioni con le quali il G.u.p. ha giustificato la decisione impugnata e ha segnalato che in ordine all’ipotesi di danneggiamento di edifici militari aggravata contestata a Z. per i fatti oggetto del presente giudizio dalla Procura Militare della Repubblica presso il Tribunale Militare di R. è intervenuto decreto di archiviazione in relazione agli artt. 131 bis cod. pen. e 168 c.p.m.p., sicché opererebbe nel caso di specie la preclusione di cui all’art. 649 cod. proc. pen.

Considerato in diritto

4. Il ricorso proposto dal pubblico ministero è fondato.

4.1. Rileva in primo luogo il Collegio che la sentenza di non luogo a procedere è una sentenza di merito su di un aspetto processuale, in cui il giudice dell’udienza preliminare è chiamato a valutare non la fondatezza dell’accusa, bensì la capacità degli elementi posti a sostegno della richiesta di cui all’art. 416 cod. proc. pen., eventualmente integrati ai sensi degli artt. 421 bis e 422 cod. proc. pen., di dimostrare la sussistenza di una “minima probabilità” che, all’esito del dibattimento, possa essere affermata la colpevolezza dell’imputato (Sez. 6, n. 17385 del 24/02/2016, Tali, Rv. 267074; Sez. 6, n. 3726 del 29/09/2015, Digaetano, Rv. 266132).

La valutazione dei dati probatori da parte del giudice è pertanto finalizzata a verificare l’esistenza di un livello “serio” di fondatezza delle accuse, ma restano escluse da tale sindacato quelle letture degli atti di indagine o delle prove connotate da un significato “aperto” o “alternativo”, suscettibile, dunque, di diversa interpretazione da parte del giudice del dibattimento, anche alla luce delle future acquisizioni probatorie (Sez. 2, n. 48831 del 14/11/2013, Maida, Rv. 257645), ovvero in conseguenza della maggiore affidabilità, derivante dal contraddittorio, di elementi già assunti unilateralmente (Sez. 5, n. 54957 del 14/09/2016, Fernandez, Rv. 268629). Il giudice dell’udienza preliminare, ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, deve esprimere una valutazione prognostica in ordine alla “completabilità degli atti di indagine” e alla “inutilità del dibattimento”, anche in presenza di elementi di prova contraddittori o insufficienti, dando conto del fatto che il materiale dimostrativo acquisito è insuscettibile di completamento e che il proprio apprezzamento in ordine alla prova positiva dell’innocenza o alla mancanza di prova della colpevolezza dell’imputato è in grado di resistere ad un approfondimento nel contraddittorio dibattimentale (Sez. 6, n. 36210 del 26/06/2014, C., Rv. 260248).

Egli è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio posto a fondamento dell’accusa, eventualmente avvalendosi dei suoi poteri di integrazione delle indagini, e, ove ritenga sussistere tale necessaria condizione minima, deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato, salvo che vi siano concrete ragioni per ritenere che il materiale individuato, o ragionevolmente acquisibile in dibattimento, non consenta in alcun modo di provare la sua colpevolezza (Sez. 6, n. 33763 del 30/04/2015, Quintavalle e altri, Rv. 264427).

Date queste regole di giudizio, il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere ha ad oggetto il corretto esercizio da parte del G.u.p. del potere di prognosi riguardo agli eventuali sviluppi della fase processuale (con riferimento ad elementi di prova ulteriori che potrebbe offrire il giudizio dibattimentale ovvero alla maggiore affidabilità, derivante dal contraddittorio, di elementi già assunti unilateralmente) e, nel caso di prognosi negativa sull’utilità della fase dibattimentale, deve incentrarsi sulla verifica della logicità della valutazione degli elementi disponibili in funzione della pronuncia di proscioglimento (Sez. 5, n. 54957 del 14/09/2016, Fernandez, Rv. 268629).

Il Collegio ritiene che la prognosi negativa circa l’utilità della fase dibattimentale formulata dal G.u.p. con la sentenza in esame sia affetta da vizi di violazione di legge penale sostanziale e conseguente illogicità di valutazione degli elementi di prova acquisiti che rendono evidente il mancato rispetto della regola di giudizio di cui all’art. 425 cod. proc. pen. come sopra ricostruita e descritta.

4.2. La sentenza impugnata evidenzia infatti l’erronea applicazione dell’art.323 cod. pen., laddove tale norma, con il richiamo alla locuzione “nello svolgimento della funzione o del servizio”, richiede che il funzionario realizzi la condotta illecita agendo nella sua veste di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che rimangono privi di rilievo penale quei comportamenti, che, quand’anche posti in violazione del dovere di correttezza e occasionati dallo svolgimento delle pubbliche funzioni (Sez. 6, n. 42836 del 02/10/2013, Rv. 256687), siano tenuti come soggetto privato senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta (Sez. 6, n. 6489 del 04/11/2008, Rv. 243051).

La decisione in esame, che pure aderisce pienamente alla ricostruzione dei fatti operata nell’editto accusatorio, esclude in modo ingiustificato e del tutto apodittico la riferibilità della contestata, illecita utilizzazione dell’energia elettrica proveniente dal contatore della Caserma alle funzioni del prevenuto, ritenendo al contrario che quelle funzioni rappresentassero al più l’occasione per l’assegnazione dell’alloggio di servizio.

Il G.u.p. omette al riguardo di considerare il dato pacifico che al momento del contestato utilizzo il prevenuto era il responsabile di quella Caserma in quanto Comandante pro tempore della Compagnia Carabinieri di F. sicché rientrava nelle sue funzioni d’ufficio, e nella sua corrispondente responsabilità, assicurare che delle dotazioni materiali a lui affidate per la realizzazione dei compiti d’istituto, ivi compresa l’energia elettrica à ciò necessaria (per questo misurata da apposito contatore individuale dei consumi afferenti all’attività d’ufficio svolta nella Caserma, i cui costi erano conseguentemente a carico dell’Amministrazione), fosse fatto corretto uso ai soli fini istituzionali.

In tale prospettiva, il fatto che il collegamento al contatore della Caserma – il cui carattere abusivo non è dal G.u.p. posto in discussione – sia stato mantenuto per la realizzazione di un interesse privato del pubblico ufficiale collidente con quello per il quale il potere sulle dotazioni materiali suddette era a lui attribuito, non smentisce, contrariamente a quanto affermato dal G.u.p., l’intenzionale strumentalizzazione di quel potere in contrasto con le norme che ne regolano l’esercizio.

Ciò anche in riferimento all’art. 367 D. Lgs. n. 66/2010 (Codice dell’ordinamento militare) cui si riferisce l’imputazione, che riguarda appunto, come espressamente riferito nella sentenza impugnata, l’efficienza degli usi finali dell’energia e dei servizi energetici attinenti all’attività delle Forze Armate.

4.3. Merita altresì di essere sottolineato che se l’udienza preliminare resta connotata da una naturale fluidità dell’addebito, che si cristallizza solo con il decreto che dispone il giudizio, deve pure convenirsi – come affermato da S.U. n. 5307 del 20/12/2007, Battistella – che “l’intervento del giudice per assicurare la costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti costituisca un atto doveroso e un’esigenza insopprimibile, non solo a garanzia del diritto di difesa dell’imputato e dell’effettività del contraddittorio, ma anche al fine di consentire che il controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell’azione penale si svolga in piena autonomia e si concluda eventualmente con una decisione di rinvio a giudizio che, nel fissare il thema decidendum, abbia ad oggetto un’imputazione riscontrabile negli atti processuali e sia supportata da specifiche fonti di prova in ordine ai fatti storici contestati con chiarezza e precisione”.

4.4. In tal senso, risulta evidente il collegamento fra le novellate disposizioni dell’art. 421 bis c.p.p. e art. 422 c.p.p., che configurano i poteri di iniziativa probatoria del giudice per rendere effettivo il principio di completezza delle indagini ed evitare situazioni di stallo decisorio, e il successivo art. 423 c.p.p., atteso che l’integrazione della prova è funzionale alla precisazione dell’accusa, mentre l’insufficienza della contestazione condiziona a sua volta la verifica di completezza degli esiti d’indagine, insieme con le determinazioni negoziali per la celebrazione dei riti alternativi, scelti dall’imputato soprattutto in ragione della precedente opera di precisazione della contestazione e degli elementi che la fondano.

4.5. L’udienza preliminare si configura quindi come il luogo privilegiato di stabilizzazione dell’accusa, dovendo il progressivo consolidamento dell’imputazione essere realizzato, in primis, all’interno della fase, mediante il meccanismo d’integrazione e specificazione predisposto per la diversità del fatto dall’art. 423 c.p.p., comma 1, nella lettura estensiva che di tale disposizione normativa offre la giurisprudenza costituzionale (C. cost, n. 88 del 1994 e n. 131 del 1995; n. 265 del 1994 e n. 384 del 2006).

4.5.1. Pertanto, il giudice dell’udienza preliminare, dal momento della presentazione dell’atto introduttivo fino all’esito della discussione nel confronto dialettico fra le parti, ancor prima dell’adozione dei tipici provvedimenti conclusivi della fase ex art. 424 c.p.p., qualora ravvisi nell’atto di imputazione l’assenza del contenuto minimo indispensabile o la sua imperfezione e inadeguatezza per difetto di chiarezza e precisione dei fatti storici contestati, ha il “potere- dovere” di attivare i meccanismi correttivi nel corso dell’attività fisiologica della medesima udienza, rappresentando, con ordinanza motivata e interlocutoria, gli elementi di fatto e le ragioni giuridiche del vizio d’imputazione e richiedendo espressamente al pubblico ministero di provvedere, di conseguenza, alle opportune precisazioni e integrazioni, secondo il paradigma contestativo dettato dall’art. 423 c.p.p., comma 1.

4.5.2. Senza considerare, inoltre, che le stesse ragioni sopra indicate fondano il potere del giudice dell’udienza preliminare, nell’inerzia del Pubblico Ministero, di apportare direttamente al fatto, nel decreto che dispone il giudizio, le integrazioni e precisazioni (di tipo non strettamente contenutistico e che non attengano alla materiale consistenza dei fatti addebitati) che, nei limiti enunciati nella richiesta di rinvio a giudizio, si rendano necessarie per descrivere con completezza il fatto storico oggetto dell’imputazione, anche in sede di correlazione delle fonti di prova con i fatti cui esse si riferiscono, ai sensi dell’art. 6 429 c.p.p., comma 1, lett. d), (Cass., Sez. Un., 10/12/1997, Di Battista); nonché, quale espressione indefettibile del principio di legalità e della funzione di ius dicere, di dare al fatto contestato una diversa definizione o qualificazione giuridica, riconducendo così la fattispecie concreta allo schema legale che le è proprio, in forza della valenza generale della regola contenuta nell’art. 521 c.p.p., comma 1 (S.U., Battistella, cit.; C. Cost., n. 347 del 1991 e n. 112 del 1994; S.U., 19/6/1996, Di Francesco), ed eventualmente assumendo i conseguenti provvedimenti ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone la trasmissione degli atti al Tribunale di F., uffiicio G.I.P. per l’ulteriore corso.