Capitano di corvetta costringe dei marinai, tutte ragazze, a subire palpeggiamenti in diversi parti del corpo e ad essere baciate in bocca. Condannato.

(Corte di Cassazione penale, sez. III, sentenza 18.04.2016, n. 15892)

Sentenza;

sul ricorso proposto da: D.S.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 07-03-2014 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DI NICOLA Vito;

udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Dott. BALDI Fulvio che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avv. BRUNO Pierfrancesco che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito per le parti civili l’Avv. AGATI Ottorino che conclude per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente alla refusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile.

RITENUTO IN FATTO

1. D.S.G. ricorre per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal tribunale in data 16 luglio 2012, ha ridotto la pena inflittagli ad anni due di reclusione, concedendogli i doppi benefici di legge.

Al ricorrente si addebita il reato previsto dall’art. 609-bis c.p. perchè costringeva C.B., Ci.So. e F. V., tutti marinai della Marina Militare di cui era il capufficio in qualità di capitano di corvetta, abusando dell’autorità che conseguentemente aveva sulle medesime, a subire carezze e palpeggiamenti in varie parti del corpo comprese quelle intime nonchè a subire, per la C. e la Ci., di essere baciate sulla bocca. In (OMISSIS).

2. Per la cassazione dell’impugnata sentenza il ricorrente, tramite il difensore, articola i tre seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza ed erronea applicazione della legge penale nonchè la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta procedibilità d’ufficio ai sensi dell’art. 609-septies c.p., comma 2, n. 3 (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e)).

Sostiene che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che i fatti siano stati commessi da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni. Sotto tale profilo, la Corte d’appello avrebbe, nella prospettiva del ricorrente, sovrapposto i concetti di “servizio” e/o di “rapporto gerarchico” e quello normativamente richiesto ai fini della procedibilità d’ufficio di “esercizio delle funzioni” mentre invece avrebbe dovuto distinguere nettamente la condotta posta in essere nel contesto o in occasione dello svolgimento di un servizio da quella di colui il quale consuma la condotta delittuosa esercitando effettivamente le funzioni ad esso connesse.

Peraltro, ai fini di consentire l’esercizio del controllo sulla congruità della motivazione, il ricorrente osserva come le descrizioni fornite dalle persone offese indulgano su comportamenti caratterizzati da modalità furtive ed insidiose – e, in quanto tali, totalmente indipendenti dall’abuso della posizione connessa al servizio – in relazione alla cui perpetrazione le funzioni svolte e la stessa supremazia gerarchica del ricorrente rispetto alle querelanti, non possono che risultare, secondo la sua prospettiva enunciata con il ricorso, ininfluenti, se non addirittura inconciliabili.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza e/o l’erronea applicazione di norme processuali previste a pena di procedibilità, con riferimento alla improcedibilità ex officio in assenza delle condizioni richieste dall’art. 609-septies c.p., comma 2, n. 3 nonchè la mancanza e/o la manifesta illogicità della motivazione per mancata replica a specifiche deduzioni difensive contenute nell’atto di gravame.

Assume che, dai rilievi formulati con il primo motivo, deriva come naturale corollario anche la violazione delle norme processuali, in punto di tempestiva proposizione dell’atto di querela, almeno con riferimento a tutti quegli episodi che, in ragione della loro incerta datazione, non siano cronologicamente collocabili, con certezza, nel semestre antecedente la proposizione dell’istanza di punizione.

Inoltre, nei motivi di appello, il ricorrente aveva specificamente stigmatizzato la ricostruzione sommaria e soprattutto la mancata specificazione del dato cronologico concernente gran parte degli episodi di molestia sessuale confusamente descritti dalle parti civili, dando particolare rilievo a quelli riconducibili alla prima parte del periodo annuale del servizio da esse prestato come volontarie in ferma prefissata, episodi in riferimento ai quali la querela sporta non avrebbe potuto che ritenersi, di conseguenza, intempestiva. L’apodittica ed, in quanto tale, inadeguata replica fornita in parte qua dalla Corte d’appello renderebbe configurabile, secondo la prospettazione del ricorrente, il denunciato vizio di motivazione.

2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia l’inosservanza e/o l’erronea applicazione della legge penale nonchè la mancanza e/o la manifesta illogicità della motivazione nonchè l’inosservanza e/o l’erronea applicazione di norme processuali previste a pena di nullità (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e)).

Rileva che la Corte di appello sarebbe incorsa in una erronea applicazione della norma incriminatrice in relazione all’effettivo valore delle condotte a sfondo sessuale che si assumono poste in essere dal ricorrente e che sono state interpretate come tali con esclusivo riguardo alle percezioni soggettive individualmente maturate dalle persone offese, senza neppure domandarsi se le stesse abbiano avuto una loro reale ed effettiva componente oggettiva e se fossero realmente riconducibili alla soddisfazione di un impulso sessuale da parte dell’agente.

Peraltro, l’approdo del percorso logico seguito dai giudici del merito è apparso al ricorrente censurabile in sede di legittimità posto che la Corte territoriale avrebbe palesemente omesso di procedere al doveroso vaglio critico circa il fatto se le condotte fossero oggettivamente riferibili al novero degli atti sessuali invasivi penalmente rilevanti e non, invece, alla sfera di quelli che, seppure ineducati, volgari e inopportuni risultano oggettivamente e soggettivamente privi di tale specifica rilevanza.

Sul punto specifico, la sentenza impugnata si apprezzerebbe, secondo la prospettazione del ricorrente, per il vizio di motivazione che affligge la ratio decidendi in ragione dell’omessa replica ai motivi di gravame che avevano sollecitato un controllo al riguardo circa la motivazione del giudice di primo grado.

Infine l’impugnata decisione non appare in grado di superare i limiti imposti dall’art. 530 cpv. c.p.p. e art. 533 c.p.p., comma 1, a fronte dell’incertezza della prova in ordine agli elementi costitutivi del reato, nonchè del ragionevole dubbio, introdotto attraverso le argomentazioni difensive svolte in primo grado e specificamente riferite nell’atto di gravame, in relazione al fatto che le condotte descritte non fossero caratterizzate da obiettivi sessualmente orientati quanto, piuttosto, da atteggiamenti camerateschi che – per loro stessa natura e per il contesto di riferimento – ben potevano essere compatibili con la lettura alternativa prospettata dalla difesa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Il primo motivo, che assorbe il secondo, è infondato.

Ai fini della configurabilità della circostanza ex art. 609-septies c.p., comma 4, n. 3 che rende perseguibile d’ufficio i delitti previsti dagli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater c.p. non è richiesto che il fatto sia commesso con abuso della qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio ma esclusivamente che il fatto sia commesso nell’esercizio delle funzioni o del servizio da chi possiede la qualificazione giuridica soggettiva richiesta per la configurabilità della circostanza, che rende procedibile d’ufficio il delitto, essendo sufficiente l’esistenza di un mero collegamento tra le condotte illecite e le predette funzioni o il servizio (Sez. 3, n. 50299 del 18/09/2014, S., Rv. 261388).

In siffatti casi, la ratio della procedibilità d’ufficio dei delitti di violenza sessuale risiede nel fatto di ritenere prevalente l’interesse dello Stato alla punizione dei funzionari o dipendenti pubblici che, durante le funzioni o il servizio esercitato, compiano atti invasivi della sfera della libertà di autodeterminazione sessuale delle persone offese, essendo irrilevante che le condotte illecite siano collegate ad un abuso funzionale ma ritenendosi sufficiente la mera violazione dei doveri collegata alla posizione rivestita.

Nel caso di specie, peraltro, la Corte di appello, con logica ed adeguata motivazione, ha evidenziato come il ricorrente si sia avvalso della sudditanza psicologica delle persone offese verso il loro comandante (il ricorrente era capo ufficio delle vittime), tipica della loro giovane età e della peculiare condizione lavorativa i commettendo i fatti approfittando del rapporto instaurato dall’imputato con le persone offese all’interno dell’ufficio ed a bordo dell’autovettura di servizio, sempre in occasione ed in virtù dell’espletamento di incarichi di ufficio, con la conseguenza che deve ritenersi ampiamente integrata la circostanza di cui all’art. 609-septies c.p., comma 4, n. 3 e la relativa perseguibilità d’ufficio dei fatti contestati all’imputato.

3. Il secondo motivo di gravame è, all’evidenza, assorbito dal primo, posto che i fatti addebitati al ricorrente devono ritenersi tutti perseguibili d’ufficio.

4. Il terzo motivo è parimenti infondato.

Secondo il concorde accertamento dei Giudici del merito, tutte le persone offese hanno riferito di essere state vittime di molestie a sfondo sessuale da parte dell’imputato con le medesime modalità;

tutte hanno dato ampia, ragionevole e plausibile spiegazione delle ragioni alla base del timore di “mettersi a rapporto” presso i superiori dell’imputato per rappresentare loro quanto erano state costrette a subire a causa del comportamento del ricorrente; tutte hanno affermato che la decisione di presentare denuncia è maturata, per ciascuna delle persone offese, all’esito di un prolungato e contrastato processo di maturazione frutto di un sofferto conflitto interiore, trattandosi di ambiente militare dove simili iniziative erano, secondo il loro convincimento, reputate sgradite; alcune persone offese hanno mostrato un quadro di profondo turbamento emotivo e un senso di impotenza e di frustrazione di fronte all’incapacità a difendere la loro intimità.

Nella sentenza impugnata si legge, tra l’altro che C. ha riferito: “mi toccava le cosce, metteva le mani all’interno del camisaccio, mi toccava il collo, mi dava dei bacetti sul collo”; la F.: “mi ha dato una pacca sul sedere” e ancora “con la scusa di mettere in ordine il cordone della divisa palpeggiava il mio seno”.

Lo stesso imputato non è stato in grado di fornire una plausibile spiegazione alternativa delle convergenti dichiarazioni accusatorie rese da tutte le persone offese se non trincerandosi dietro la presunta natura “goliardica” delle condotte tenute e l’assenza di “malizia”, benchè le stesse fossero sovente associate all’uso di un linguaggio ricco di allusioni, apprezzamenti e velate proposte a sfondo sessuale (secondo la deposizione Ci.: “mi chiedeva:

hai trombato?” (…) La frase che mi ha sconvolto è stato quando mi ha chiesto se avevo avuto rapporti anali e io gli avevo risposto:

assolutamente no e comunque lui, quando è sceso dalla macchina mi disse: prima che vai via ti farò provare nuove sensazioni (…)”, ed ancora: “con la scusa che voleva sentire il mio profumo, mi faceva avvicinare a lui e mi ha baciato sul collo”.

Sulla base di tali (e di altre riportate in sentenza) convergenti dichiarazioni, la Corte distrettuale ha correttamente osservato come fosse del tutto infondata e strumentale la tesi circa la presunta assenza di una finalità di appagamento sessuale in siffatte condotte, avuto riguardo alle modalità, alla sistematicità e al contesto, anche verbale, degli enunciati toccamenti e baci, cosicchè le stesse sono state inequivocabilmente avulse da isolati gesti frutto di estemporanei “momenti di effusione, legati a festose occasioni o contesti ludici” e ricondotte esattamente all’ipotesi delittuosa contestata.

Nel pervenire a tale conclusione la Corte d’appello (richiamando Sez. 3, n. 36758 del 02/07/2003, Del Bravo, Rv. 226072) ha ritenuto di qualificare come atto sessuale penalmente rilevante il toccamento e il palpeggiamento del gluteo e del seno della vittima, sul condivisibile rilievo che trattasi di atti invasivi della sfera sessuale e motivati, nella specie, da finalità di libidine, e quindi idonei a suscitare la concupiscenza sessuale del suo autore.

Si tratta di un approdo pienamente aderente al caso in esame e, dunque, corretto, pur dovendosi precisare che, secondo l’orientamento della Corte che il Collegio condivide, la condotta vietata dall’art. 609-bis c.p. comprende qualsiasi atto idoneo, secondo canoni scientifici e culturali, a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dalle intenzioni dell’agente, purchè questi sia consapevole della natura oggettivamente “sessuale” dell’atto posto in essere con la propria condotta cosciente e volontaria (Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 2015, C., Rv. 263738), con la conseguenza che la fattispecie incriminatrice è integrata, oltre che da ogni forma di congiunzione carnale, da qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorchè fugace ed estemporaneo (rientrandovi perciò anche i toccamenti e i palpeggiamenti in zone erogene), tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, non avendo rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Sez. 3, n. 33464 del 15/06/2006, Beretta, Rv. 234786), perchè non è richiesto che l’atto sessuale sia finalizzato al soddisfacimento del piacere erotico, essendo necessario e sufficiente, a fronte del dolo generico del reato, che l’agente abbia la coscienza e volontà di realizzare gli elementi costitutivi del medesimo (Sez. 3, n. 21336 del 15/04/2010, M., Rv. 247282).

Pertanto, a maggior ragione, è stata affermata la penale responsabilità del ricorrente le cui doglianze circa pretesi vizi della motivazione sul punto devono ritenersi del tutto infondate, avendo la Corte territoriale, con adeguato e logico accertamento di fatto, non censurabile in sede di legittimità, affermato che le condotte posto in essere dal ricorrente avessero persino finalità erotica.

Nè alcun dubbio può nutrirsi circa l’integrazione della condotta costrittiva del reato, avendo la Corte d’appello esattamente ritenuto che, alla luce delle precedenti considerazioni, la violenza necessaria per la realizzazione del reato di cui all’art. 609-bis c.p. non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell’impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, ma anche quella che si manifesta nel compimento, insidiosamente rapido, dell’azione criminosa, tanto da superare la volontà contraria del soggetto passivo (Sez. 3, n. 6340 del 01/02/2006, Giuliani, Rv. 233315), cosicchè correttamente è stata affermata la responsabilità penale dell’imputato.

5. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle sostenute nel grado dalla parte civile e liquidate come da pedissequo dispositivo.

Va infine disposto che copia del presente dispositivo sia trasmessa all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, D. S.G., a norma del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 70.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese, sostenute nel grado, dalla parte civile Ci.So., che liquida in complessivi Euro 3.000,00 oltre accessori di legge.

Dispone inoltre che copia del presente dispositivo sia trasmessa all’Amministrazione di appartenenza del dipendente pubblico, a norma del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 70.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2016