Coltivatrice diretta di un fondo assoggettato a procedura espropriativa per la costruzione di strutture interportuali chiede il pagamento dell’indennità aggiuntiva L. n. 865 del 1971, ex art. 17 oltre svalutazione ed interessi come per legge. Rigetto (Corte di Cassazione civile sez. I, sentenza 1 luglio 2015, n. 13518).

sentenza

sul ricorso 18193-2009 proposto da:

P.V. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL SEMINARIO 113/116, presso l’avvocato
LODOVICO VISIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati TOZZI SILVANO, ALESSANDRO PAGANO, giusta procura a margine del ricorso (+ depositato altro ricorso il 25.11.2009);
– ricorrente –

contro

INTERPORTO SUD EUROPA S.P.A., in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA Lima 7, presso l’avvocato IANNUCCILLI PASQUALE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARIO PILADE CHITI, giusta procura in calce al controricorso (+ depositato altro controricorso il 14.1.2010);
– controricorrente –

contro

NAOS S.P.A.;
– intimata –

avverso la sentenza n. 1967/2009 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 12/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/06/2015 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato P. IANNUCCILLI che ha chiesto l’accoglimento del proprio ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 6.07.2002, P.V. – premesso di essere coltivatrice diretta e fin dal 1985 affittuaria e conduttrice oltre ad altri, di un fondo in (OMISSIS), località “(OMISSIS)”, esteso 45.800 mq. circa, di proprietà e/o in ditta Migliore Pio, assoggettato per circa 30.000 mq., a procedura espropriativa per la costruzione di strutture interportuali, conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. Distaccata di Marcianise, l’Interporto Sud Europa S.p.a. e la sua mandataria NAOS S.p.a., al fine di sentirle condannare, in solido tra loro o comunque ciascuna per quanto di ragione, al pagamento in proprio favore: 1) dell’indennità aggiuntiva L. n. 865 del 1971, ex art. 17 oltre svalutazione ed interessi come per legge: 2) del risarcimento dei danni prodotti dalla mancata corresponsione della predetta indennità nei termini di cui alla L. n. 1 del 1978, art. 23, ed alla L.R.C. n. 51 del 1978, art. 38; 3) della maggiorazione del 50% sulla somma da corrispondersi quale indennità colonica e dovuta all’attrice ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 50, commi 1 e 4 per il rilascio coattivo dei fondi necessari per la realizzazione dell’opera interportuale, oltre interessi e rivalutazione; infine, in via sussidiaria, chiedeva la condanna delle società convenute al pagamento di un indennizzo determinato ai sensi dell’art. 2041 c.c. e ss.. Si costituivano le convenute deducendo anche nel merito l’infondatezza della domanda, atteso che in data 15/2/2000, era stato redatto il verbale di immissione in possesso e consistenza, senza che comparisse alcuno e solo in data 19.03.2002, la P. si era dichiarata colona di dette aree, circostanza quest’ultima negata dal proprietario del fondo M.P..

Con sentenza n 106/05 del 2-6.05.2005 l’adito Tribunale, disattesa l’eccezione d’incompetenza funzionale, ritenuto che l’accertamento “incidentale” relativo alla sussistenza del rapporto agrario non involgesse alcuna competenza della Sezione Specializzata Agraria;

ritenuto altresì che le prove testimoniali erano del tutto deficitarie sia in relazione all’identificazione del suolo coltivato dalla P. che al titolo della coltivazione stessa, nonchè generiche in ordine alle colture praticate ed inidonee a far evincere il nesso causale fra l’abbandono del fondo e la procedura espropriativa; considerato, inoltre, che l’attrice avrebbe dovuto comprovare di avere coltivato il fondo in virtù del rapporto contrattuale di affitto dedotto in citazione, con prevalenza del lavoro proprio o di persone della propria famiglia, almeno da un anno prima della data di deposito della relazione di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 10 e di essere stata costretta ad abbandonare il fondo con conseguente privazione dell’attività lavorativa, che i documenti prodotti non consentivano di provare le circostanze suindicate, trattandosi di atti di parte e di altri atti che non facevano luce sul titolo che avesse legittimato l’attrice alla coltivazione;

ritenuto, infine, che la domanda ex art. 2041 c.c. andasse disattesa per difetto del requisito della sussidiarietà, rigettava ogni attorea domanda, compensando integralmente tra le parti le spese di lite. Con sentenza del 20.05-12.06.2009 la Corte di appello di Napoli, nel contraddittorio delle parti, respingeva il gravame proposto dalla P., compensando tra le parti anche le spese del secondo grado di giudizio.

La Corte territoriale osservava e riteneva che:

col primo motivo di impugnazione l’appellante aveva sostenuto la sussistenza della prova del rapporto di coltivazione, erroneamente negata dal Tribunale. L’articolata censura imponeva talune puntualizzazioni. Ai fini dell’accertamento della qualità di affittuario coltivatore diretto di un fondo espropriato o ceduto bonariamente (nel caso di specie non era stata fatta luce sull’esito della procedura ablativa) e, quindi, del diritto all’attribuzione dell’indennità aggiuntiva agraria di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17 dovevasi fare riferimento alla situazione giuridica esistente alla data di occupazione del fondo.

L’indennità in questione non spettava a qualsiasi coltivatore (anche di fatto) del fondo espropriato (o ceduto) ma a chi lo coltivava, almeno da un armo prima del deposito della relazione esplicativa dell’opera e dell’intervento da realizzare, sulla base di uno dei rapporti giuridici espressamente elencati dalla L. n. 865 del 1971, art. 17 e, per quanto interessava nella presente sede, spettava all’affittuario coltivatore diretto che fosse stato costretto ad abbandonare il terreno con conseguente perdita della propria attività lavorativa.

L’indennità non spettava, pertanto, all’affittuario che avesse la qualità di “imprenditore agricolo” ossia allorquando esercitasse l’attività di coltivazione e produzione agricola con prevalenza del fattore capitale su quello lavoro, e con impegno prevalente di mano d’opera subordinata o addirittura quando l’affittuario fosse una società commerciale.

La prova della qualità di “coltivatore diretto” dell’affittuario andava fornita in concreto ed in relazione alle necessità colturali del fondo, potendo essere dedotta anche presuntivamente dalla sufficienza della capacità lavorativa dell’affittuario e della sua famiglia.

La prova della sussistenza delle condizioni per usufruire dell’indennità in questione incombeva ovviamente su chi invocava detta corresponsione, trattandosi di dimostrazione dei fatti costituitivi del diritto fatto valere in giudizio. Ma andava subito detto che, in relazione alla qualità di affittuario coltivatore diretto, la L. 3 gennaio 1978, n. 1, art. 23 (come integrato dalla L. 29 luglio 1980 n. 385, art. 7), che prevedeva il pagamento dell’ indennità stessa a seguito di dichiarazione resa dall’avente diritto con le formalità della L. 4 gennaio 1968, n. 15, non introduceva un sistema di “prova legale”, vincolante per l’espropriante, sicchè detta dichiarazione, in caso di contestazione giudiziale da parte dell’ espropriante, assumeva (tutt’al più) valore di mero “elemento indiziario”, liberamente valutabile dal giudice del merito.

Chiarito, dunque, che la “dichiarazione” di cui alla L. n. 1 del 1978, art. 23 non derogava al sistema delle prove all’interno del processo civile di cognizione, restava da chiedersi quale valenza dimostrativa potesse riconoscersi, su un piano generale, alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà. Il punto di partenza era, ovviamente, costituito dal fatto che il contratto di affittanza agraria non necessitava, ai fini della sua validità o della sua prova, della forma scritta, vieppiù ove si fosse considerato che, ai sensi della L. n. 3 del 1987, art. 41 anche i contratti agrari ultraventennali erano validi allorchè stipulati verbalmente e non trascritti ed avevano effetto anche riguardo ai terzi.

Orbene, la riflessione giurisprudenziale era ormai dell’avviso che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, resa ai sensi della L. n. 15 del 1968, art. 4 aveva attitudine certificativa e probatoria, fino a contraria risultanza, unicamente nei confronti della P.A. ed in determinate attività e procedure amministrative ma in difetto di diversa e specifica previsione legislativa, nessun valore probatorio, neanche indiziario, poteva essere attribuito nel giudizio civile caratterizzato dal principio dell’onere della prova, atteso che la parte non poteva trarre elementi a proprio favore, ai fini dell’assolvimento dell’onere di cui all’art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni.

Ovviamente su piani diversi si collocava la valutabilità delle ammissioni, sfavorevoli alla parte, contenute nella dichiarazione dalla stessa resa o il portato di dichiarazioni rese da terzi. E questo denotava la valenza di “argomento di prova” dell’attestazione del funzionario della Polizia Municipale dei Comune di (OMISSIS), relativo al fatto che la P. fosse “persona che dedica manualmente e abitualmente la propria attività lavorativa alla coltivazione del fondo di proprietà del sig. M.P.” in (OMISSIS), “in qualità di affittuario”, pur dovendosi evidenziare che l’attestato in questione non conteneva riferimenti temporali a tale attività agraria, nè veniva chiarita la fonte gnoseologica del funzionario, risultando riportata la dicitura “assunte le debite informazioni”, costituente dato generico e come tale del tutto incontrollabile.

Sennonchè il dato documentale (attestazione proveniente da terzi) avrebbe dovuto essere valutato unitamente al dato testimoniale e tenendo presenti rilievi logici (risalenza temporale e reiterazione delle dichiarazioni di parte che avrebbero reso difficile supporre una preordinazione di tali asserti per conseguire un’indennità relativa ad un intervento espropriativo che all’epoca non si prevedeva). E da questo sinergismo dimostrativo avrebbe dovuto scaturire la “prova” dell’affittanza agraria. La questione, com’era dato vedere, postulava che venisse esaminato anche il secondo motivo di gravame con il quale veniva lamentato l’erroneo scrutinio delle risultanze dell’inchiesta testimoniale.

In particolare veniva dedotto che il primo Giudice, anzichè apprezzare il tenore saliente delle rese deposizioni, aveva valorizzato aspetti marginali ed ininfluenti quali l’indicazione della località in “(OMISSIS)” anzichè semplicemente “(OMISSIS)” ed il mancato riferimento dei dati identificativi catastali del fondo. Ora gli elementi predetti piuttosto che militare per l’inattendibilità del dictum testimoniale, risultavano espressione di genuinità dello stesso, dimostrando come i testi avessero riferito quanto era effettivamente nelle loro conoscenze, senza aggiungere particolari, quali i dettagli tecnico-catastali, che sarebbero risultati essi sì sospetti. Il problema, semmai, atteneva alla “autosufficienza” o meno della raccolta prova orale, ma in tal caso occorreva stabilire se il sinergismo degli elementi documentali e logici consentisse di superare la non autonoma valenza dimostrativa del resoconto testimoniale. In dettaglio: i testi, nelle loro scarne deposizioni, avevano riferito di “coltivazione” del fondo e non di “affitto” e per la verità non avevano nemmeno riferito di una coltivazione forzatamente dismessa dopo l’ablazione del fondo, pur risultando escussi all’udienza del 3/12/03, ossia notevolmente dopo l’asserito abbandono del predio. Il “titolo” della riferita “coltivazione” non poteva, dunque, che essere ricavato dagli elementi documentali e logici. Ma come si era anticipato, le dichiarazioni rese dalle parti stesse andavano debitamente valutate anche nei loro aspetti “ammissivi” di circostanze sfavorevoli, se non addirittura “confessori”.

Ebbene nella dichiarazione resa il 17.01.1996 e non resistita da ulteriori elementi istruttori, la P. aveva affermato di coltivare h. 39.22 ripartiti su un territorio di quattro Comuni ((OMISSIS)) e di tale complesso fondiario soltanto h. 4,50 risultavano “condotti in fitto”, essendo la prevalente consistenza in “proprietà”.

Ora a parte la non coincidenza dell’ estensione e delle particelle del fondo affittato, indicate nelle varie “dichiarazioni” (nella “Segnalazione” alla Regione dell’ 8/8/88 il fondo viene indicato in ettari sette; nella “Distinta di coltivazione” annata agraria 89, 90 e 91 ettari cinque; nella “Dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà” del 30/12/93 ettari 5.76.18; nella “Dichiarazione del 17/1/96 ettari 4,50: nella Dichiarazione del 20/1/98 ettari 5.00; nella Dichiarazione del 9/1/02 ettari 4.58.00; discrasie sussistono anche in ordine alle particelle indicate), sta di fatto che negli atti provenienti dalla P. si faceva riferimento a coltivazioni ortive ed in specie, a patate e pomodoro.

Ora la notevole estensione dei vari fondi coltivati per complessivi ettari 39.22, distribuiti su un consistente territorio (quattro Comuni e all’interno di taluni di essi in varie “località”), il tipo di coltivazione praticata nel fondo condotto in fitto, l’età dell’affittuaria (nata il (OMISSIS)), dimostravano come la coltivazione di un così articolato patrimonio terriero non potesse inscriversi nell’alveo dell’attività del “coltivatore diretto” non imprenditore agricolo, ove era richiesto pur sempre il rispetto dei requisito della “prevalenza” del lavoro proprio e degli eventuali appartenenti alla famiglia dell’operatore, in relazione al rapporto tra forza lavoratoria totale occorrente per la lavorazione del fondo e forza lavoro riferibile al titolare ed ai membri della sua famiglia. Vero era che la riflessione giurisprudenziale considerava la qualifica di “imprenditore agricolo” (come tale non avente diritto alla corresponsione dell’indennità aggiuntiva L. n. 865 del 1971, ex art. 17) quale oggetto di “eccezione” ai fini del riparto dell’onere probatorio, ma allorquando dalla stessa documentazione prodotta da parte attrice emergeva la sussistenza della connotazione “imprenditoriale” dell’attività agricola, la domanda indennitaria andava, comunque, disattesa, in quanto per il principio “di acquisizione della prova”, corollario del principio del libero convincimento del giudicante, un elemento probatorio, una volta acquisito al processo, andava valutato anche, eventualmente, in danno della parte che (incautamente) l’aveva dedotto.

In definitiva la domanda indennitaria, anche se sulla scorta di un percorso argomentativo parzialmente difforme da quello seguito in primo grado, andava disattesa;

neanche il terzo (ed ultimo) motivo d’impugnazione, col quale era stata dedotta la sussistenza dei presupposti per l’accoglimento dell’actio de in rem verso, invece disattesa, poteva essere accolto, giacchè l’impossibilità di esperire altra azione cd. “causale” non poteva essere integrata dalla non ricorrenza dei requisiti previsti dalla legge per il riconoscimento del diritto.

Avverso questa sentenza la P. ha proposto un primo ricorso per cassazione notificato il 29.07.2009 all’Interporto Sud Europa S.p.A. ed alla Naos S.p.A., depositato il 3.08.2009 e resistito soltanto dalla società Interporto, e successivamente un secondo ricorso per cassazione, notificato il 12.11.2009, fondato sui medesimi tre motivi corredati però da quesiti di diritto, assenti, invece, nel primo, ed anch’esso avversato dalla sola società Interporto.

MOTIVI DELLA DECISIONE

A sostegno del ricorso la P. denunzia:

1. “L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2; artt. 112, 115 e 229 c.p.c.; artt. 2697 e 2729 c.c. – violazione e falsa applicazione – art. 360 c.p.c., n. 5.- Insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

Formula il seguente quesito di diritto “affinchè in capo al coltivatore che fa istanza di riconoscimento della indennità aggiuntiva di coltivazione, di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17 sia attribuita la qualità di imprenditore agricolo, tale da escludere, per costante giurisprudenza, la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento delle indennità in argomento, è necessaria la contestuale individuazione di entrambi gli elementi che la giurisprudenza ha ritenuto sintomatici ai fini della sussistenza di tale qualità, ossia la prevalenza, nel processo di produzione agricola, del fattore capitale su quello del lavoro e la sussistenza di un’organizzazione lavorativa con prevalente impiego di manodopera subordinata; ove pertanto tale ultimo elemento sia del tutto insussistente (nel senso che non sia rilevabile la presenza o l’impiego di alcuna unità di lavoro dipendente) la qualità di imprenditore agricolo non potrà essere desunta dalla sola circostanza che il coltivatore ha a disposizione per l’attività colturale una superficie di rilevante estensione, ivi compresa la porzione di fondo (eventualmente anche di sua proprietà) non interessata dal procedimento ablativo”.

2. “La L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2; artt. 112 e 116 c.p.c.;

art. 2729 c.c. – violazione e falsa applicazione – art. 360 c.p.c., n. 5 – insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

Formula il seguente quesito di diritto “ai fini dell’accertamento delle qualità richieste dalla L. n. 865 del 1971, art. 17 per il riconoscimento della indennità aggiuntiva di coltivazione, il coltivatore può fornire la prova dello status richiesto, oltre che della sussistenza del rapporto di fitto, anche e tipicamente invocando il contenuto di testimonianze attendibili, scrupolosamente vagliate dal Giudice, che abbiano assecondato le risultanze documentali – non esclusivamente di provenienza unilaterale – (oneri previdenziali, conferimenti ad associazioni di categoria, adempimenti fiscali) tali nel complesso da suffragare la sussistenza delle qualità richieste dal precetto normativo così ovviando alla informalità ed oralità cui sono spesso improntati, nel settore, i rapporti contrattuali, in special modo i più risalenti”.

3. “art. 2041 c.c.; art. 112 c.p.c.; – violazione di legge – art. 360 c.p.c., n. 5 – insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, con riguardo alla confermata inammissibilità dell’azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c..

Formula il seguente quesito di diritto “In base a quale titolo giuridico l’affittuario coltivatore diretto, privato della propria fonte di reddito in conseguenza di una procedura ablativa non legittimamente espletata (perchè ad esempio sconfinata nell’illecita occupazione appropriativi) può rivendicare la tutela, prevista, per il caso di espropriazione legittima dalla L. n. 865 del 1971, art. 17?” affinchè si affermi che “il riconoscimento della indennità aggiuntiva di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17, presuppone che la perdita del fondo, su cui l’affittuario esercitava la propria attività di coltivazione, sia stata cagionata da una procedura espropriativa legittimamente espletata e, pertanto, tempestivamente esitata nella adozione del decreto di esproprio ovvero nella stipula dell’atto di cessione volontaria; qualora ciò non sia avvenuto (come nel caso in cui sia ravvisabile una fattispecie di occupazione appropriativa ed il correlato operare della cosiddetta accessione invertita) non è formalmente concepibile il riconoscimento di alcuna indennità in favore dei soggetti presi in considerazione dalla detta norma. Soccorre, in tal caso, l’art. 2041 cod. civ., che consente, al coltivatore diretto che abbia perso il fondo da cui traeva fonte di reddito, di invocare, in via residuale, una tutela di contenuto economico equivalente a quella prevista dall’art. 17, liquidata in base agli stessi criteri e riconoscibile in presenza dei medesimi presupposti di quella”. I tre motivi di ricorso sono inammissibili.

Anche se si ritenesse l’ammissibilità (in aderenza al principio affermato in Cass. n. 8306 del 2011; 18604 del 2014) del secondo ricorso, che è stato proposto dalla P. al fine di emendare il precedente, tempestivamente notificato e depositato in data antecedente alla declaratoria di inammissibilità del primo, in ogni caso i dedotti motivi non sarebbero scrutinabili. Se da un canto, infatti, le censure incentrate sulla motivazione dell’impugnata sentenza non risultano in entrambi gli atti introduttivi compendiate in sintesi dei dedotti rilievi, quale prescritta dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, dall’altro i quesiti di diritto, che, come noto, anche delimitano l’ambito delle censure delibabili, risultano relativamente ai primi due motivi del ricorso generici, in parte apodittici ed entrambi muti in ordine alle specificità del caso e non aderenti al decisum. Il primo interrogativo risulta appuntarsi esclusivamente sulla qualifica di imprenditore agricolo della P.; sennonchè, anche a non tener conto di tale passo della motivazione, restano le articolate considerazioni dei giudici di merito sulla mancanza di prova della sua qualifica di coltivatore diretto; sulla non sufficienza ai fini di detta prova della autocertificazione nonchè dell’attestazione del funzionario municipale; e sulle risultanze non favorevoli della prova testimoniale, sufficienti a comportare la conferma della sentenza impugnata. Senza poi considerare che nulla viene dedotto e richiamato in merito alla durata temporale del contratto di affitto e della coltivazione del fondo, e che il secondo quesito al riguardo si rivela astratto, assertivo ed inconducente, proprio perchè la Corte di appello aveva escluso che ricorressero gli elementi probatori ivi indicati.

Irrituale si rivela anche il quesito di diritto formulato in relazione al terzo motivo di ricorso, di non consentita indole esplorativa e, comunque, involgente un’erronea individuazione della tutela esercitatile nei confronti della P.A., che si sia resa autrice d’illecita occupazione definitiva di fondo detenuto in affitto dal coltivatore diretto, tutela che in tale caso, stante l’assenza del decreto di espropriazione, si sostanzia nelle forme proprie dell’azione risarcitoria, la cui esperibilità in effetti osta all’ammissibilità dell’azione sussidiaria di cui agli artt. 2041 e ss c.c.. Infatti, come irreprensibilmente anche sottolineato dai giudici di merito, l’azione generale di ingiustificato arricchimento non trova ingresso quando un’altra azione sia prevista dalla legge a tutela di chi lamenti il depauperamento e, a fortiori, quando altra azione sia stata, come nella specie, esercitata, ma la domanda sia stata respinta perchè la fattispecie concreta, pur congrua, in astratto, alla previsione di legge, sia poi risultata difettosa di qualche requisito.

Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della soccombente P. al pagamento, in favore della società controricorrente Interporto Sud Europa S.p.A., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la P. al pagamento, in favore dell’Interporto Sud Europa S.p.A., delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 6.000,00 per compenso ed in Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2015.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2015