Comandante di Stazione dei Carabinieri condannato per truffa militare: segnava lavoro straordinario e indennità accessorie per servizi mai svolti.

(Corte di Cassazione penale sez. I, sentenza 16.07.2015, n. 30723)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefani – Presidente –
Dott. CASSANO Margherita – Consigliere –
Dott. SANDRINI Enrico – rel. Consigliere –
Dott. LA POSTA Lucia – Consigliere –
Dott. CASA Filippo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.G. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 8/2014 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del 15/04/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 03/03/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ENRICO GIUSEPPE SANDRINI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FLAMINI Luigi Maria che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv. Vadalà Domenico che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 15.04.2014 la Corte Militare di Appello, in accoglimento dell’appello del procuratore militare della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e in riforma della sentenza pronunciata il 17.07.2013 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale Militare di Napoli che all’esito di giudizio abbreviato aveva assolto l’imputato perchè il fatto non costituisce reato, ha condannato P.G. alla pena (sospesa) di mesi 2 giorni 20 di reclusione militare, oltre pene e statuizioni accessorie, previa concessione delle attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 48 c.p.m.p., u.c., prevalenti sull’aggravante del grado rivestito, per il reato di truffa militare a lui ascritto. La condotta addebitata all’imputato era quella di aver percepito, nel periodo compreso tra i mesi di gennaio 2010 e marzo 2011, la somma complessiva non dovuta di 3.116,27 Euro, a titolo di retribuzione di ore di lavoro straordinario non prestate e di indennità accessorie relative a servizi non svolti, in qualità di maresciallo capo dei carabinieri comandante la stazione di Pa.Ma.. La Corte territoriale, premesso che la sussistenza dei fatti materiali ascritti all’imputato, anche con riguardo all’importo delle somme percepite senza titolo, non era contestata ed era stata accertata già dalla sentenza di primo grado, sulla scorta delle oggettive discrepanze riscontrate tra i memoriali di servizio quotidianamente compilati in ordine alle ore di attività e ai servizi effettivamente prestati dai militari della caserma e i modelli riepilogativi mensili “SUP 2”, contenenti i dati maggiorati non rispondenti al vero, redatti e trasmessi mensilmente dal M.llo P. agli organi amministrativi competenti per la liquidazione, ha esaminato e disatteso i singoli argomenti in base ai quali il GUP aveva escluso la sussistenza in capo al prevenuto dell’elemento psicologico del reato, rilevando:

– che il numero e l’entità degli errori in favore dell’amministrazione militare contenuti nelle tabelle riepilogative delle prestazioni effettuate e dei compensi liquidati nel periodo interessato dall’imputazione era assolutamente sproporzionato rispetto alle discrepanze riscontrate a favore del P., così da rendere implausibile l’ipotesi di una contabilità tenuta in modo colposamente impreciso e disordinato, e da avvalorare la tesi accusatoria di un consapevole “gonfiamento” dei dati contabili;

– che non era ipotizzabile alcuna difficoltà interpretativa della normativa di settore con riguardo all’obbligo del P. di riportare fedelmente, in modo veritiero, nei modelli mensili “SUP 2” i dati contabili (corretti) contenuti nei memoriali di servizio giornaliero, che l’imputato doveva semplicemente limitarsi a trascrivere in modo esatto, tanto più che era stato espressamente richiamato a una scrupolosa osservanza dei relativi obblighi nella lettera indirizzatagli il, 4.09.2010 dal comandante di compagnia;

– che la ricorrenza del dolo non poteva essere esclusa dal solo fatto che la fraudolenta indicazione di dati non veritieri avrebbe potuto essere rilevata dagli organi di controllo preposti alla liquidazione delle somme dovute in base ai riepiloghi mensili, posto che l’imputato aveva fatto evidente affidamento sull’assenza di controlli scrupolosi sui moduli da lui compilati;

– che l’omessa corrispondente alterazione, da parte dell’imputato, dei memoriali di servizio giornaliero contenenti l’indicazione corretta delle ore e dei servizi prestati si spiegava con l’agevole rilevabilità delle relative falsificazione da parte dei militari presenti in caserma, a differenza dei modelli mensili “SUP 2” compilati dal solo comandante della stazione.

La Corte d’appello rilevava altresì che il M.llo S., sentito in qualità di testimone, non aveva confermato ma semmai contraddetto la tesi dell’imputato secondo cui egli aveva completamente delegato al proprio subordinato la redazione della contabilità amministrativa e in particolare la compilazione dei modelli “SUP 2”, avendo il teste riferito che la contabilità del reparto era tenuta in via esclusiva e in modo minuzioso dal comandante della stazione, essendosi egli limitato soltanto a trascrivere i calcoli e i conteggi effettuati direttamente dall’imputato, con dichiarazioni che la Corte giudicava attendibili avendo il M.llo S. in altra parte della sua deposizione espresso giudizi positivi sull’operato del P., sulla sua abnegazione e disponibilità per qualsiasi servizio d’istituto, nonchè sul pagamento da parte sua delle fatture dell’acqua dell’intera caserma. Il giudice d’appello evidenziava inoltre che la notevole differenza esistente tra le ore di servizio straordinario effettivamente prestate e quelle indicate nei riepiloghi mensili, e il conseguente apprezzabile incremento delle somme liquidate a tale titolo nello statino dello stipendio in misura pari a circa 200 Euro in più al mese, era tale da escludere che l’imputato non fosse consapevole dell’illecita locupletazione patrimoniale, tanto più che egli aveva ridotto drasticamente l’indicazione del numero di ore di servizio notturno prestato nel periodo successivo alla nota di biasimo ricevuta nel settembre 2010 dal comandante di compagnia.

2. Ricorre per cassazione P.G., a mezzo del difensore, deducendo tre motivi di censura.

2.1. Col primo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge in relazione al difetto di giurisdizione del giudice militare in favore di quello ordinario, sul presupposto che il soggetto danneggiato dal reato non era l’amministrazione militare, e per essa il ministero della difesa, ma il ministero dell’interno, deputato all’erogazione delle somme indebitamente percepite dall’imputato; richiama i principi affermati dalla Consulta nella sentenza n. 429 del 1992 sulla natura eccezionale della giurisdizione militare e deduce la necessaria qualità militare non solo del soggetto attivo ma anche di quello passivo del reato di truffa, richiesta dall’art. 234 c.p.m.p., dovendo il danno patrimoniale integrante l’elemento costitutivo del reato prodursi in capo all’amministrazione militare, mentre nel caso di specie aveva inciso sul ministero dell’interno; invoca altresì, ai sensi dell’art. 13 cpv. c.p.p., la giurisdizione esclusiva, per connessione, del giudice ordinario derivante dalla maggiore gravità della pena edittale prevista per la truffa comune (contemplante anche la pena pecuniaria) rispetto alla truffa militare.

2.2. Col secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all’inosservanza del principio del ne bis in idem, avendo il giudice militare proceduto per il medesimo fatto pur in presenza dell’archiviazione della relativa informativa di reato, iscritta nel registro (mod. 45) degli atti non costituenti reato, disposta in data 29.07.2011 dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri.

2.3. Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge, penale e processuale, nonchè vizio di motivazione della sentenza impugnata, sotto diversi profili concernenti la sussistenza del reato, lamentando l’omessa valutazione degli argomenti difensivi esposti nella memoria depositata all’udienza del 15.04.2014; in particolare, il ricorrente censura l’omessa verifica di una serie di elementi che deponevano per la sussistenza di un atteggiamento soggettivo meramente colposo (con riguardo alla capacità dell’imputato di verificare l’eventuale erroneità del dato contabile, alla maggiore o minore capacità di controllo dell’organo amministrativo sovraordinato, alla prospettabilità di un’ipotesi di dolo eventuale, alla delega conferita al M.llo S. in ordine alla compilazione dei prospetti contabili, all’esclusione di una volontà fraudolenta da parte dei superiori gerarchici, all’ascrivibilità a un terzo soggetto degli errori di calcolo, alle difficoltà interpretative della normativa di settore, all’ipotizzata consapevolezza dell’assenza di controlli da parte del P., all’omessa falsificazione dei memoriali di servizio e alla conseguente valenza sintomatica dell’assenza di dolo); deduce l’erroneità della veste testimoniale in cui era stato assunto il M.llo S., in realtà autore di una chiamata in reità che imponeva di dichiarare inutilizzabili le sue dichiarazioni o comunque di valutarle in termini più rigorosi alla stregua della deresponsabilizzazione discendente dall’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., comma 1.

3. Con successiva memoria contenente motivi aggiunti, depositata il 20.10.2014, il ricorrente ribadisce le censure riguardanti il vizio di motivazione in ordine alle questioni concernenti la sussistenza dell’elemento soggettivo della truffa, il cui esame era stato sollecitato nel giudizio d’appello, anche in relazione all’ottima condotta di servizio dell’imputato, nonchè all’errata veste processuale attribuita al M.llo S., alternativamente individuabile o come concorrente nel reato di truffa insieme al P., avendo inserito i dati non veritieri nei modelli “Sup 2” su richiesta dell’imputato, o come autore di una calunnia in danno del superiore gerarchico, avendo inserito i dati falsi all’insaputa di quest’ultimo.

4. Con ulteriore memoria depositata il 23.02.2015, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in data 5.07.2011 nel caso Dan c. Moldavia, nonchè dell’obbligo di motivazione rafforzata che deve caratterizzare la riforma della decisione assolutoria di primo grado da parte del giudice d’appello.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato in ogni sua deduzione e deve essere rigettato.

2. E’ anzitutto infondata la questione preliminare di difetto di giurisdizione del giudice militare, in favore di quello ordinario, proposta nel primo motivo di ricorso.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato, con orientamento risalente e costante, che l’amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture occorrenti per l’organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa armata dello Stato, e i beni in dotazione della stessa si identificano in quelli che, a norma delle leggi sulla contabilità generale dello Stato, sono amministrati dal Ministero della difesa o dai corpi militari, mentre non possono essere compresi tra quelli appartenenti all’amministrazione militare i beni assegnati ad altri Ministeri, per l’uso degli stessi o dei servizi da essi dipendenti o da essi amministrati, ovvero quelli che rappresentano oggetto di gestione sotto un profilo esclusivamente privatistico (Sez. 1, n. 1410 del 19/01/2000, Rv. 215224; Sez. 1 n. 3491 del 31/01/2000, Rv. 215514; e altre successive conformi).

In applicazione di tali principi, questa Corte ha affermato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria militare, e non di quella ordinaria, in tema di truffe consumate da militari appartenenti al corpo della guardia di finanza o all’arma dei carabinieri, nel caso – speculare a quello qui esaminato – di conseguimento di indebite prestazioni economiche (costituite dal rimborso di spese di missione non dovute, perchè eccedenti quelle effettivamente sostenute), in quanto il danno prodotto incide anche sul corpo di appartenenza del soggetto attivo del reato, che ha natura di ente militare perchè sia il corpo della guardia di finanza che l’arma dei carabinieri fanno parte integrante delle forze armate dello Stato (Sez. 1, n. 1410 e 3491 del 2000, citate, nonchè, con specifico riguardo all’arma dei carabinieri, Sez. 1 n. 8952 del 5/02/2008, Rv. 239135). Le somme indebitamente riscosse dal militare in servizio, nei casi che sono stati esaminati dalla Corte di legittimità nei suddetti precedenti giurisprudenziali, così come nel caso oggetto del presente giudizio, sono state percepite, infatti, in connessione all’espletamento di attività rientranti nei compiti d’istituto propri del corpo di appartenenza (a titolo di retribuzione di ore di lavoro straordinario non prestate e di indennità per servizi non svolti dall’imputato P.G., nella sua qualità di comandante della stazione di Pa.Ma.), e dunque non possono ritenersi estranee all’attività di difesa dello Stato istituzionalmente svolta dall’Arma dei Carabinieri, che in tale veste di amministrazione militare risulta perciò essere il soggetto passivo ingannato dalla condotta fraudolenta dell’imputato e inciso dal danno economico dalla medesima prodotto: non rileva, a tale proposito, che la provvista materiale delle somme utilizzate dalla amministrazione militare per il pagamento degli straordinari provenisse da altro comparto della pubblica amministrazione, giacchè il dato decisivo è, al contrario, che una volta devolute all’amministrazione militare dette somme devono considerarsi, a prescindere dal loro inquadramento contabile, da questa acquisite e destinate al soddisfacimento dei propri fini istituzionali.

Solo apparente è la difformità da tale indirizzo della recente pronuncia di cui a Sez. 1 n. 7579 del 22/01/2014, Rv. 258605, che riguarda un’ipotesi specifica in cui la condotta truffaldina posta in essere da un militare appartenente all’arma dei carabinieri era destinata a trarre in inganno, e a danneggiare, un ente pubblico economico (nella specie la banca d’Italia) del tutto estraneo all’apparato militare, ente al cui servizio egli era addetto e che è tenuto in forza di espressa previsione legislativa (contenuta nel D.Lgs. n. 66 del 2010) a sopportarne i relativi oneri economici:

dalla lettura della motivazione di tale decisione emerge, infatti, la consapevolezza della specificità del caso esaminato e la riaffermazione del principio generale sopra enunciato, in tema di riparto di giurisdizione, con riferimento a tutti gli altri casi di condotte illecite realizzate nello svolgimento degli ordinari compiti di istituto attribuiti al corpo (militare) di inquadramento. Poichè nel caso in esame sia il soggetto attivo che quello passivo del reato sono qualificati dalla loro natura militare, il reato commesso dal P., in virtù del principio di specialità, è soltanto quello di truffa militare di cui all’art. 234 c.p.m.p. che radica la giurisdizione dell’autorità giudiziaria militare.

3. Manifestamente infondata è anche la doglianza relativa alla pretesa violazione del principio del ne bis in idem, dedotta nel secondo motivo di ricorso, con riguardo all’avvenuta archiviazione della notitia criminis da parte dell’autorità giudiziaria ordinaria (Procura della Repubblica presso il Tribunale di Locri), che non è certamente preclusiva dell’esercizio dell’azione penale da parte del Procuratore militare ed è anzi coerente alla ritenuta carenza di giurisdizione del, giudice ordinario per il reato di truffa militare.

4. La violazione dell’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla sentenza del 5 luglio 2011 della Corte Europea dei diritti dell’uomo nel caso Dan c/ Moldavia, prospettata dal ricorrente sotto il profilo della violazione dell’obbligo gravante sul giudice d’appello di procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante l’assunzione diretta, in contraddittorio con l’imputato, delle prove orali la cui (ri)valutazione sia destinata ad assumere rilevanza decisiva nella reformatio in peius della sentenza di assoluzione, è infondata per l’assorbente ragione giuridica, più volte affermata da questa Corte, che la scelta di definire il giudizio nelle forme del rito abbreviato (effettuata nel caso di specie dal P.) implica la rinuncia originaria dell’imputato alla garanzia dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio nella formazione della prova, anche dichiarativa, con la conseguenza che il principio discendente dalla succitata pronuncia della Corte EDU non può trovare – di regola – applicazione nel rito abbreviato, con la sola eccezione dell’ipotesi (che non ricorre nel caso di specie) in cui il diverso apprezzamento di attendibilità riguardi una prova orale che sia stata assunta direttamente dal giudice di primo grado in sede di integrazione istruttoria, da lui disposta a seguito di richiesta della parte che vi abbia subordinato la richiesta del rito alternativo o nell’esercizio dei poteri ufficiosi attribuiti dall’art. 441 c.p.p., comma 5, (Sez. 6 n. 14038 del 2/10/2014, Rv. 262949; Sez. 3 n. 45456 del 30/09/2014, Rv. 260868; Sez. 2 n. 33690 del 23/05/2014, Rv. 260147).

La sentenza impugnata si è peraltro confrontata con la questione sollevata dal ricorrente, risolvendola in modo congruo anche sotto il profilo della ritenuta ininfluenza, nel percorso logico-giuridico che ha (dichiaratamente) condotto la Corte territoriale a riformare la pronuncia assolutoria del GUP, di una diversa valutazione di attendibilità delle risultanze processuali di natura dichiarativa, dando atto della sussistenza pacifica, e riconosciuta dallo stesso giudice di primo grado, delle condotte materiali addebitate all’imputato consistite nella percezione indebita di somme oggettivamente non dovute, ed essendo le deduzioni difensive dirette esclusivamente a contestare la sussistenza del dolo necessario a integrare il reato.

5. Il terzo motivo di ricorso è in massima parte inammissibile, risolvendosi nella riproposizione di una serie di argomentazioni di fatto (riprese e ribadite anche nella memoria depositata il 20.10.2014), dirette a sollecitare un diverso apprezzamento della condotta dell’imputato e dell’elemento psicologico che l’avrebbe animata, secondo lo schema tipico di un gravame di merito che esula completamente dalle funzioni dello scrutinio di legittimità e che omette – nella sostanza – di confrontarsi con le puntuali argomentazioni in forza delle quali la sentenza impugnata ha ritenuto provata la colpevolezza del P., lamentando una carenza motivazionale sulle deduzioni difensive che non trova alcun riscontro nella lettura del provvedimento gravato.

Sul punto, occorre ribadire l’orientamento costante secondo cui è precluso a questa Corte suprema di procedere a una rinnovata valutazione degli elementi di prova che il giudice di merito ha posto a fondamento della decisione, che la trasformerebbe nell’ennesimo giudice del fatto (da ultime, Sez. 2 n. 22362 del 19/04/2013, imputato Di Domenica, e Sez. 6 n. 5907 del 29/11/2011, imputato Borella, in motivazione; nonchè Sez. 5 n. 17905 del 23/03/2006, Rv.

234109 e Sez. Un. n. 47289 del 24/09/2003, Rv. 226074, imputato Petrella), in quanto la funzione dell’indagine di legittimità sulla motivazione della sentenza non è quella di sindacare l’intrinseca attendibilità dei risultati dell’interpretazione delle prove e di attingere il merito dell’analisi ricostruttiva dei fatti, ma soltanto quella di verificare che i dati probatori posti a base della decisione siano stati valutati seguendo le regole della logica e secondo linee argomentative adeguate, che rendano giustificate, sul piano della consequenzialità, le conclusioni tratte. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato conto in modo congruo ed esaustivo, con argomentazioni che hanno coerentemente confutato l’ossatura complessiva delle deduzioni difensive (Sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Rv. 256340), le ragioni che escludono la buona fede o la ricorrenza di un atteggiamento soggettivo soltanto colposo dell’imputato nell’inserimento di dati maggiorati e scientemente non corrispondenti al vero, sulle ore lavorative e sui servizi da lui prestati, nei modelli riepilogativi mensili (cd. SUP 2) trasmessi all’organo amministrativo competente per la liquidazione delle relative spettanze economiche, valorizzando, in particolare, il numero e la natura sistematica delle irregolarità riscontrate, l’assenza di difficoltà interpretative delle norme che imponevano una fedele compilazione dei relativi moduli mensili (nei quali bastava trascrivere, senza “gonfiarli”, i dati esatti risultanti dai memoriali di servizio giornaliero della caserma), l’affidamento riposto dal P. nella carenza di controlli scrupolosi sul suo operato da parte dell’organo preposto, la drastica riduzione delle infedeli annotazioni contabili soltanto dopo il ricevimento di una nota di biasimo da parte del superiore gerarchico; e ha così puntualmente assolto l’obbligo di motivazione “rinforzata” che deve connotare la riforma della decisione assolutoria di primo grado, onerando il giudice d’appello di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio, con riguardo ai fatti ritenuti decisivi, e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della sentenza riformata, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, senza limitarsi a imporre una propria, diversa, valutazione del compendio probatorio (Sez. 5 n. 8361 del 17/01/2013, Rv. 254638; Sez. 6 n. 10130 del 20/01/2015, Rv. 262907).

L’unica censura di diritto dedotta dal ricorrente nel motivo di gravame, relativa alla pretesa erroneità della natura testimoniale attribuita dai giudici di merito alle dichiarazioni del M.llo S. – che aveva riferito sulla natura meramente esecutiva delle mansioni delegategli dal comandante della stazione di provvedere alla trascrizione materiale nei modelli SUP 2 dei conteggi in precedenza effettuati direttamente dall’imputato, responsabile esclusivo della tenuta della contabilità della caserma – è a sua volta manifestamente infondata, in quanto l’ipotesi di un concorso del teste nel reato di truffa militare ascritto all’imputato (o addirittura di una condotta calunniosa consistita nella simulazione delle tracce del reato in danno del P., mediante il riempimento dei moduli con dati – a sua insaputa – scientemente falsi, prospettata nella memoria depositata il 20.10.2014) risulta frutto di una mera congettura, che tra l’altro si pone in aperta contraddizione con la scelta del ricorrente di farsi giudicare allo stato degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, comprensivi delle dichiarazioni del M.llo S., senza eccepirne alcuna inutilizzabilità ex art. 63 c.p.p..

Va in ogni caso richiamato, sul punto, l’indirizzo consolidato di questa Corte, per cui l’inutilizzabilità (anche erga alios) delle dichiarazioni rilasciate dal soggetto che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentito con le garanzie previste per la persona sottoposta ad indagini postula l’originaria esistenza di precisi indizi di reità a suo carico, che non può farsi derivare in via automatica dal solo fatto che il dichiarante risulti essere stato in qualche modo coinvolto in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione nei suoi confronti di addebiti penali (Sez. 2 n. 51732 del 19/11/2013, Rv. 258109), nella fattispecie mai prospettati a carico del teste.

6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2015

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