Cosparge la moglie di benzina, la insegue e le dà fuoco. E’ omicidio premeditato (Corte di Cassazione, Sez. I Penale, sentenza 23 novembre 2017, n. 53323).

…, omissis …

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di assise di appello di Napoli, in parziale riforma di quella del G.U.P. del Tribunale di Napoli appellata da C.V., escludeva l’aggravante del mezzo insidioso di cui all’art. 577, comma 1, n. 2 cod. pen. e rideterminava la pena nei confronti dell’imputato in anni trenta di reclusione.
C. è imputato dell’omicidio premeditato ed aggravato della moglie D.F.G..

Secondo l’imputazione, egli aveva seguito la moglie con la propria autovettura, l’aveva investita facendola cadere al suolo, l’aveva fatta salire a bordo, cosparsa di benzina e, mentre ella si dava alla fuga, l’aveva inseguita e le aveva dato fuoco con un accendino e della carta; C. è imputato anche del delitto di maltrattamenti in danno della moglie che quotidianamente percuoteva, umiliava e ingiuriava anche di fronte alla figlia minore.

Poiché i motivi di ricorso hanno per oggetto esclusivamente il mancato riconoscimento dell’incapacità di intendere e di volere e la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, l’esposizione si limita ai dati rilevanti.

La Corte aveva disposto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale conferendo incarico per una perizia psichiatrica sull’imputato, anche se il Giudice di primo grado aveva già disposto C.T.U. al fine di accertarne la capacità di intendere e di volere al momento del fatto e la capacità di partecipare al processo.

La sentenza impugnata dava atto che il C.T.U. nominato dal Giudice dell’udienza preliminare aveva concluso per la sussistenza della piena capacità di intendere e di volere dell’imputato; anche i risultati della nuova perizia non si discostavano dalla precedente, avendo il perito concluso per la capacità di intendere e di volere al momento della commissione del fatto.

C. è risultato affetto soltanto da un disturbo dell’adattamento, condizione insufficiente per negare la capacità di intendere e di volere; inoltre, in passato, non aveva manifestato sintomi psicopatologici della sfera psicotica.

I medicinali somministrati all’imputato in carcere non erano in stretta correlazione con una patologia psichiatrica, avendo azione esclusivamente sintomatologica. Non emergeva alcuna compromissione della capacità di intendere e di volere.

La Corte ricordava che le stesse parole dell’imputato dimostravano la premeditazione del delitto: egli aveva riferito che, in conseguenza del peggioramento dei rapporti con la moglie, nel corso del tempo era cresciuta la sua rabbia e da alcuni giorni egli aveva deciso il suo gesto.

Risultava palese la presenza di una perdurante determinazione criminosa nell’agente senza soluzione di continuità e senza ripensamenti dal momento del concepimento dell’azione antigiuridica fino alla sua realizzazione.

Per di più, emergeva un’accurata predisposizione dei mezzi usati per eseguire il delitto. In definitiva, l’azione non era frutto di un impulso momentaneo, ma il punto di arrivo del crescendo della determinazione omicidiaria che covava e si rafforzava da tempo nell’animo dell’imputato.

Due settimane prima la figlia aveva visto il padre nel gesto di mettere le mani al collo alla madre, quasi a strangolarla e solo le urla della donna l’avevano dissuaso a proseguire; inoltre – come confidato dalla vittima alla figlia – già in precedenza C. l’aveva seguita con l’autovettura.

La figlia aveva affermato che il padre mostrava odio e cattiveria nei confronti della moglie e la minacciava di morte, seppure in maniera strana, con frasi del tipo: “devo trovare il modo di farti fuori”.

2. Ricorre per cassazione il difensore di C.V. , deducendo in un primo motivo, violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento del vizio parziale di mente incidente sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento del fatto.

La Corte territoriale, pur partendo dal presupposto che l’imputato è affetto da disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansioso-depressiva reattiva di grado medio – grave in soggetto con tratti di personalità mista, non l’aveva considerata una vera e propria malattia mentale e si era adagiata sull’assenza di pregressi contatti dell’uomo con strutture deputate alla cura di tale patologia, senza tenere conto della condizione socio – economica del soggetto e dell’anamnesi carceraria.

La direzione del carcere di (OMISSIS) aveva sottoposto C. a molti controlli psichiatrici, somministrando continuativamente farmaci psicoterapici.

La Corte si era appiattita sulle conclusioni del perito, senza tenere conto della storia pregressa di C. che fin dalla giovane età aveva manifestato fenomeni antisociali.

Gli accertamenti sulla persona dell’imputato, comunque, erano stati effettuati quando egli era ormai in stato di sedazione farmacologica conseguente alla somministrazione di farmaci.

Nel recepire i risultati della perizia, la Corte non aveva tenuto conto del comportamento di C. successivo al delitto, il quale dimostrava di non avere compreso il significato e il disvalore della propria azione, nonché delle informazioni rese dai vicini di casa.

In un secondo motivo, il ricorrente deduce violazione di legge penale per la mancata esclusione della premeditazione, oggetto di specifico motivo di appello.

L’azione – cosciente o meno – era stata compiuta dall’imputato in conseguenza di una estemporanea risoluzione criminosa determinata da pensieri deliranti ed ossessivi di una persona malata o grandemente disturbata nelle sue capacità psichiche cognitive, del tutto incompatibili con la premeditazione.

La sentenza non aveva individuato il momento dell’insorgenza del proposito criminoso e, quindi, era mancante di motivazione sul tema della premeditazione.

2.1. Il ricorrente conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. In effetti, il ricorrente non fa che avanzare considerazioni in fatto riproponendo quelle già esposte ai giudici di merito – senza affatto dimostrare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, motivazione che viene, in sostanza, ignorata.

2. Quanto alla asserita parziale incapacità di intendere e di volere dell’imputato, oggetto del primo motivo di ricorso, la Corte territoriale aveva come punto di riferimento ben due perizie d’ufficio – la prima disposta dal giudice di primo grado, la seconda dalla stessa Corte territoriale in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale – che concludevano per la piena capacità dell’imputato.

Ciò nonostante, la motivazione sul punto è ampia (mentre quella della sentenza di primo grado era scarna) e ha toccato tutti i punti rilevanti della valutazione: l’assenza di qualsiasi precedente anamnestico indicativo di una malattia psichiatrica, l’esistenza di un mero disturbo dell’adattamento con sintomatologia ansioso-depressiva, l’irrilevanza dei sintomi percepiti dall’imputato (fenomeni parestesici, comuni negli stati d’ansia e in quelli depressivi), il distacco emotivo mostrato, la non significatività dei medicinali somministrati al soggetto per dimostrare l’esistenza di una patologia psichiatrica, l’inesistenza di una schizofrenia paranoidea, che si sarebbe manifestata nella giovane età, l’esito dei test psicologici, la mancanza di valenza dimostrativa di dichiarazioni di testi non esperti nel campo psichiatrico.

3. Il ricorrente definisce erroneamente il disturbo dell’adattamento come “vera e propria malattia mentale”, mentre si tratta di condizione psicologica.

Il punto di riferimento è la sentenza delle Sezioni Unite Raso, secondo cui, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi della personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale i fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale.

4. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 23031701).

4.1. Il ricorrente, partendo da tale erronea classificazione del disturbo di adattamento, ravvisa un’insussistente contraddizione nel passaggio della motivazione in cui si dà atto dell’inesistenza di precedenti psichiatrici: al contrario, l’inesistenza di tali precedenti è del tutto coerente con l’assenza di una malattia psichiatrica.

In realtà, il tentativo è di convincere questa Corte che la mancanza di contatti con strutture psichiatriche nel passato era attribuibile alle condizioni economiche precarie di C. – argomentazione del tutto generica – e che la condotta antisociale, di cui la sentenza dà atto, era sintomo di una patologia psichiatrica nascosta; viene riproposto il tema dei medicinali somministrati in carcere all’imputato e richiamate – del tutto genericamente e senza relativa allegazione – le dichiarazioni di terze persone ritenute ininfluenti dalla sentenza.

5. In definitiva, il motivo di ricorso non rientra affatto nella denuncia del vizio di motivazione contemplato dall’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen..

Analoga considerazione deve essere fatta con riferimento al secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’aggravante della premeditazione.

In effetti, il ricorrente tralascia del tutto la motivazione della sentenza impugnata, in base alla quale la premeditazione del delitto poteva essere facilmente dedotta dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dalle condotte precedenti tenute nei confronti della moglie, riferite dalla figlia della coppia, sostenendo che dalla sua lettura non emergerebbe l’individuazione del momento di insorgenza del proposito criminoso: ma, appunto, la sentenza dimostra ampiamente che esso risaliva ad epoca assai precedente e che la risoluzione era rimasta ferma nel tempo, fino a giungere alla lucida realizzazione dell’orribile delitto.

6. Alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione consegue ex lege, in forza del disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al versamento della somma, tale ritenuta congrua, di Euro 2.000 (duemila) in favore delle Cassa delle Ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso palesemente infondato (v. sentenza Corte Cost. n. 186 del 2000); consegue, altresì, la condanna al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel presente giudizio.

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 alla Cassa delle Ammende;

condanna, altresì, il ricorrente alla rifusione delle spese sopportate nel grado dalle parti civile costituite D.F.E. e C.F. nonché Di.Fr.El. , che liquida in favore dell’avv. (OMISSIS) in Euro 4.000 ed in favore dell’avv. (OMISSIS) in Euro 3.500 oltre, per entrambi i difensori, spese generali, IVA e CAP come per legge, con distrazione in favore dei difensori antistatari.