Costituisce reato la condotta di chi pone in vendita consolle modificate per poter leggere anche videogames “masterizzati” in violazione delle regole sul diritto d’autore. I videogiochi non costituiscono meri programmi per elaboratore, essendo piuttosto opere complesse e multimediali (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 15 aprile – 25 maggio 2015, n. 21621)

1. La Corte di Appello di Bari, pronunciando nei confronti dell’odierno ricor­rente F.A. , con sentenza del 5.3.2014, confermava la sentenza con cui il Tribunale di Lucera in composizione monocratica il 17.10.2010 lo aveva condannato – in concorso di circostanze attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata recidiva – alla pena di mesi quattro di reclusione ed Euro 2000 di mul­ta, oltre alla pena accessoria della interdizione dall’esercizio dell’attività commer­ciale per la durata di quattro mesi, avendolo riconosciuto colpevole del reato:

– p. e p. dall’art. art. 171 ter, comma f bis, L. 22-4-1941 n. 633, modificato dal D.L.vo 9-4-2003 n. 68 “perché distribuiva e vendeva o comunque deteneva per scopi commerciali n. 25 consolle aventi la prevalente finalità e l’uso di elude­re efficaci misure tecnologiche di cui all’art. 102 quater, ovvero principalmente prodotti, adattati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare delusione di predette misure: i militari della Tenenza G. di F. di Lucera, controllando gli stands della fiera commerciale sita in via Ferrovia e verificando nel settore gestito dalla ditta individuale “AF MEDIA” di F.A. la vendita di per­sonal computer assemblati, supporti magnetici, consolle di gioco Play Station 2 marca SONY ed altri accessori elettronici, dalla verifica dei finanzieri risultando violati e tagliati tutti i sigilli di chiusura delle scatole delle 19 consolle poste in esposizione per la vendita, inoltre, accertandosi la funzionalità delle 19 consolle anche con supporti magnetici (DVD-ROM) contenenti video giochi masterizzati, con violazione dei congegni di immodificabilità della SONY mediante applicazione di piccole memorie denominate microchip, altresì rinvenendo i militari ulteriori n. 6 consolle Play Station 2 marca SONY, tutte modificate ovvero alterate, nel corso di perquisizione locale nell’esercizio commerciale della ditta “AF MEDIA” sita in via (…)”; in Lucera, accertato il 02.11.2007; recidiva specifica infraquinquennale;

2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, F.A. , deducendo i motivi di se­guito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come dispo­sto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:

a. Motivazione carente e/o apparente, ovvero contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 lett. e cod. proc. pen.).

Il ricorrente lamenta che la Corte di Appello di Bari avrebbe aggirato le questioni propostegli, assumendo la verità di quanto cercava di dimostrare, nel ten­tativo di dimostrarlo.

I giudici del gravame del merito non avrebbero contrastato in motivazione nessuna delle affermazioni giuridiche contenute nell’atto di appello, e soprattutto non avrebbe vagliato con motivazione logica e rispettosa delle risultanze proces­suali i giudizi espressi dal giudice di primo grado. Si sarebbero, invece, limitati a non escludere l’ipotesi contraria a quelle formulate dalla difesa, con un evidente e totale appiattimento delle motivazioni rispetto a quelle del giudice di primo grado.

Entrambe le sentenze di merito – ci si duole – non avrebbero ravvisato la ulte­riore necessità di un ulteriore approfondimento peritale circa l’uso lecito del mod-chip oggetto di censura.

Sia il primo sia il secondo giudizio si sarebbero fondati sull’inequivocabile prova d’accusa costituita dalle risultanze della indagine peritale svolta in primo grado, che, invece, secondo il ricorrente, sarebbe tutt’altro che esaustiva rispetto al caso in esame.

Si lamenta, in particolar modo, che il tecnico nominato dal giudice avrebbe limitato la propria indagine sull’accertamento del tipo di microchip impiantato sulla PlayStation2, ma non avrebbe approfondito se lo stesso fosse capace o me­no di leggere i cosiddetti prodotti rimasterizzati.

Ciò non avrebbe consentito di rispondere a quesiti quali quello riguardante la possibilità che le apparecchiature sequestrate all’odierno ricorrente potessero essere parificate a dei veri e propri personal computer.

O, ancora, di verificare se l’inserimento della scheda di espansione aveva consentito l’avvio di una modalità operativa alternativa all’originale, tale da poter consentire la lettura di tutti i software e non solo di quelli prodotti dalla Sony.

E, poi, di appurare se il microchip rinvenuto all’interno delle consolle sequestrate permettesse la lettura della coppia di backup, vale a dire la copia di sicurezza del software che la legge italiana consente di procurarsi.

Nemmeno vi sarebbe alcuna risposta da parte del perito all’obiezione difen­siva secondo cui con quelle modifiche si potevano leggere anche software legal­mente prodotti, visto che la stessa Sony vende e distribuisce software denominato Linux PlayStation2 volto a modificare e maggiorare le prestazioni dell’apparecchio.

La tesi sostenuta in ricorso, dunque, è che andasse fornita la prova che la modifica operata fosse finalizzata prevalentemente a consentire l’uso di copie contraffatte dei giochi e non a di sfruttare al meglio tutte le potenzialità della consolle.

b. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale – ulteriore carenza motivazionale della sentenza.

Ci si duole che entrambi i giudici del merito abbiano errato nel ritenere ap­plicabile alla fattispecie in esame la lettera f-bis dell’articolo 171 ter della legge 633 del 1941, laddove ci si sarebbe dovuti soffermare su una più accorta lettura della lettera d della medesima norma, mai contestata all’imputato.

c. Carenza di prova in ordine alla messa in vendita del materiale oggetto di sequestro – ulteriore carenza e/o assenza motivazionale.

Si lamenta che non possa dirsi dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio, alla luce della deposizione dell’unico teste d’accusa, che il ricorrente avesse effettivamente esposte per la vendita le consolle sequestrategli.

In particolar modo, nulla si leggerebbe nei verbali di fonoregistrazione in re­lazione al luogo in cui furono rinvenute le consolle oggetto di contestazione (su un banco? sopra al tavolo? imballate in un cartone?).

d. Inosservanza dei principi di diritto dettati dalla Cassazione in materia di processo indiziario.

Si ricorda la giurisprudenza di questa Corte di legittimità riguardante le af­fermazioni di responsabilità fondate sulla sola prova indiziaria e ci si duole che la Corte territoriale non abbia fatto corretto governo delle stesse nella motivazione del provvedimento impugnato.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, con o senza rinvio.

Considerato in diritto

1. I motivi sopra illustrati appaiono infondati e, pertanto, il proposto ricorso va rigettato.

2. Non appare esservi dubbio, attesa la data del sequestro delle consolle, che le condotte poste in essere dall’imputato siano state realizzate sotto la vi­genza della disciplina dell’art. 171 ter lett. f) bis L. n. 633 del 1941, introdot­ta dall’art. 26 D.Lgs. n. 68 del 2003.

La norma in questione prevede che è punito, se il fatto è commesso per uso non personale, con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da Euro 2.582 a Euro 15.493 chiunque a fini di lucro: fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, pubblicizza per la vendita o il noleggio, o detiene per scopi commerciali, attrezzature, prodotti o componenti ovvero presta servizi che abbiano la prevalente finalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater ovvero siano principalmente pro­gettati, prodotti, adattati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione di predette misure. Fra le misure tecnologiche sono comprese quelle applicate, o che residuano, a seguito della rimozione delle misure medesime conseguentemente a iniziativa volontaria dei titolari dei diritti o ad accordi tra questi ultimi e i beneficiari di eccezioni, ovvero a seguito di esecuzione di prov­vedimenti dell’autorità amministrativa o giurisdizionale.

Il richiamato art. 102 quater (introdotto anch’esso con il decreto legislativo del 2003) prevede in via generale che: 1. I titolari dei diritti d’autore e dei diritti connessi… possono apporre sulle opere o sui materiali protetti misure tecnologi­che di protezione efficaci che comprendano tutte le tecnologie, i dispositivi o i componenti che, nel normale corso del loro funzionamento, sono desinati a limi­tare atti non autorizzati dai titolari dei diritti. 2.

Le misure tecnologiche di prote­zione sono considerate efficaci nel caso in cui l’uso dell’opera o del materiale pro­tetto sia controllato dai titolari tramite l’applicazione di un dispositivo antiaccesso o di un procedimento di protezione, quale la cifratura, la distorsione o qualsiasi altra trasformazione dell’opera o del materiale protetto, ovvero sia limitato me­diante un meccanismo di controllo delle copie che realizzi l’obiettivo di protezione 3. Resta salva l’applicazione delle disposizioni relative ai programmi per elabora­tore di cui al capo 4, sezione 6, titolo 1.

Con riferimento alla disciplina dei cd. “videogiochi” è opportuno ricordare le disposizioni contenute nell’art. 71 sexies, della medesima legge sul diritto d’au­tore, n. 633 del 1941. Il comma 1, infatti, mentre autorizza l’acquirente di fono­gramma o videogramma a fare una copia dello stesso “per uso esclusivamente personale”, vieta in via generale la prestazione di servizi finalizzati alla riproduzione di tali prodotti se effettuata a scopo di lucro o per fini direttamente – indi­rettamente commerciali.

3. Questa Corte di legittimità, sin dagli albori della novella legislativa (cfr. questa sez. 3, n. 28912 del 7.4.2004, Campana, rv. 229417), ha chiarito che non vi è dubbio che lart. 171 ter, lett. f bis) punisca le alterazioni apportare agli apparati al fine di accedere alla fruibilità di prodotti protetti, precisando, in quel caso, che la fabbricazione e la detenzione per la distribuzione, a fini di lucro, dei dispositivi “sharer” e di “kit sharer” – apparati idonei a condividere abusivamente tra più utenti il messaggio decodificato per l’accesso ad un servizio televisivo criptato non integrasse il reato di cui alla L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 71 octies, e successive modificazioni (che incrimina condotte analoghe poste in essere in riferimento ad apparecchi atti alla decodificazione), ma quello previsto dalla stessa legge, art. 171 ter, lett. f) bis, introdotto con il D.Lgs. n. 68 del 2003.

Nell’occasione si specificò, condivisibilmente, che tale fattispecie penale assume carattere di specialità rispetto alla fattispecie di illecito amministrativo di cui al D.Lgs. n. 373 del 2000, artt. 1, 4 e 6, perché, essendo successiva a quella, manifesta la chiara “voluntas legis” di criminalizzare quelle condotte per il loro maggiore disvalore, rientrando nella discrezionalità del legislatore punire più se­veramente la condotta di aggiramento fraudolento dei sistemi di protezione dei servizi televisivi, caratterizzata dal dolo specifico di lucro, rispetto a quella di palese violazione dei sistemi di accesso condizionato predisposti dall’emittente televisiva.

Più specificamente rispetto ad un caso analogo a quello odierno, questa Corte regolatrice si è espressa qualche anno più tardi (sez. 3, n. 33768 del 25.5.2007, Dalvit., rv. 237516), affermando dei principi che il Collegio ritiene conservino appieno la loro validità e che vanno, pertanto, riaffermati.

In primo luogo si è evidenziato che i “videogiochi” utilizzati sui “personal computer” o sulle consolles non costituiscono meri “programmi per elaboratore”, ovvero un software in senso proprio, bensì, in quanto opere complesse e “multi­mediali”, un prodotto diverso riconducibile alla categoria dei supporti contenenti sequenze di immagini in movimento di cui all’art. 171 ter lett. a) L. n. 633 del 1941, sì che gli stessi non rientrano nella sfera applicativa dell’ art. 171 bis della medesima legge.

Al contempo si è condivisibilmente rilevato che l’art. 171 ter, lett. f bis), ha intesto introdurre un elemento di chiarezza rispetto ad una formulazione che poteva prestarsi ad una lettura non più al passo con l’evoluzione tec­nologica e dei diritti “digitali”, ma non ha affatto introdotto una fattispecie incri­minatrice del tutto nuova.

Con la conseguenza che non può affatto ritenersi che prima della sua introduzione non sussistesse alcuna fattispecie incriminatrice del­le condotte di elusione o violazione delle misure tecnologiche di protezione poste a tutela dei prodotti dell’ingegno contenuti e commercializzati su supporto infor­matico.

La norma di riferimento era il previgente art. 171 ter, lett. d), in vigore al momento dei fatti, che puniva “chiunque produce, utilizza, importa, detiene per la vendita, pone in commercio, vende, noleggia o cede a qualsiasi titolo si­stemi atti ad eludere, decodificare o rimuovere le misure di protezione del diritto d’autore o dei diritti connessi”.

Con la sentenza 33768/07 si è puntualizzato, tra l’altro, che le “misure tecnologiche di protezione” (o MTP) si sono, infatti, aggiornate ed evolute se­guendo le possibilità, ed i rischi, conseguenti allo sviluppo della tecnologia di co­municazione, ed in particolare della tecnologia che opera sulla rete.

Una parte significativa degli strumenti di difesa del diritto d’autore sono stati orientati ad operare in modo coordinato sulla copia del prodotto d’autore e sull’apparato de­stinato ad utilizzare quel supporto, tanto che qualche commentatore si è chiesto se, ormai, le forme di tutela facciano de “la macchina la risposta alla macchina”.

Le disposizioni sulle misure tecnologiche di protezione – viene ricordato an­cora nella sentenza citata – trovano un primo fondamento nei trattati “WIPO” adottati il 20 dicembre 1996 e nel rinvio da essi operato ai contenuti della Convenzione di Berna secondo quanto convenuto nei lavori conclusisi a Parigi il 24 luglio 1971.

A quelle disposizioni fanno richiamo sia la Direttiva 1991/250/CE del Consiglio datata 14 maggio 1991 (relativa alla tutela dei programmi per elaboratore) sia la Direttiva 2001/29/CE del Parlamento e del Consiglio (in tema di ar­monizzazione dei diritti d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informa­zione). Ed è su questa base che il legislatore italiano ha introdotto nella legge n. 633 del 1941 sul diritto d’autore l’art. 102 – quater che consente l’adozione di misure di protezione e vieta le condotte che ne eliminano o eludono l’efficacia e permettono un utilizzo abusivo delle opere da esse tutelate.

Nell’occasione la Corte, rilevato, condivisibilmente, che non è quella giurisdizionale la sede per affrontare la questione dei “diritti digitali” (o DRMs, dall’e­spressione anglosassone “Digital Rights Management”), ritenne di non poter esimersi dal sottolineare la delicatezza dei temi coinvolti dall’esigenza di assicu­rare tutela alle opere dell’ingegno in un contesto in cui i titolari dell’opera e dei suoi diritti possono sommare la qualità di titolari esclusivi anche degli strumenti tecnologici indispensabili all’utente per fruire del prodotto, con il rischio, a tutti evidente, della creazione di limitazione dei diritti dell’individuo e del consumatore potenzialmente sproporzionata. Da questo punto di vista, ad esempio, non furo­no taciute – e ritiene il Collegio che vadano ribadite – le perplessità che sorgono a se­guito delle pratiche, adottate da alcune multinazionali, tra cui la stessa Sony, di frazionamento del mercato, così come la necessità di prestare attenzione ai rischi di posizione dominante o di compressione della concorrenza derivanti dall’obbligo di acquistare unicamente specifici apparati (di costo rilevante) che viene imposto al consumatore che intenda utilizzare un’opera di ingegno contenuta in un sup­porto che necessita di quel tipo di apparato per poter essere fruita e “consuma­ta”.

Tuttavia, condivisibilmente, si ritenne che l’attualità dei rischi ricordati (che permane e che non hanno ancora trovato, come auspicato ormai otto anni or so­no, in altre sedi istituzionali le eventuali opportune risposte) non potesse avere influenza sul giudizio circa le condotte che comportano violazione delle misure poste a protezione del diritto d’autore nel settore dei prodotti digitali.

In tal senso, l’art. 171 ter, comma f-bis, della legge 633/1941 si palesa di chiara interpretazione. Rientrano, infatti, nell’ambito della previsione penale indi­stintamente tutti i congegni principalmente finalizzati a rendere possibile l’elusione delle misure di protezione di cui all’art. 102 quater.

Va ricordato, peraltro, che la norma in questione – introdotta dal D.Lgs. n. 68 del 2003 proprio per venire incontro alle convenzioni internazionali ed alla normativa comunitaria – rispose ad una chiara scelta legislativa da parte del legi­slatore di chiarire la sanzionabilità in sede penale di condotte, qual è quella di cui all’odierno decidere, in cui si rinvenivano delle consolle per videogiochi destinate alla vendita dopo essere state sottoposte a delle modifiche (per lo più operate mediante l’introduzione di un microchip all’interno) atte a consentire di leggere anche dei supporti contenenti giochi “copiati” dagli originali con violazione del di­ritto d’autore.

4. Questa Corte di legittimità, peraltro, in una successiva pronuncia ope­rata nel solco della precedente appena citata (sez. 3, n. 23765 dell’11.5.2010, Campa, rv. 247793) ha ribadito che rientrano nella fattispecie penale prevista dall’art. 171-ter, comma primo, lett. f-bis), L. 22 aprile 1941, n. 633, tutti i con­gegni principalmente finalizzati a rendere possibile l’elusione delle misure tecno­logiche di protezione apposte su materiali od opere protette dal diritto d’autore, precisando ulteriormente che la norma incriminatrice non richiede la loro diretta apposizione sulle opere o sui materiali tutelati (si trattava di un caso in cui erano stati sequestrati dei dispositivi che consentivano l’utilizzazione, su “consolle” videoludiche di differenti marche, di videogiochi illecitamente duplicati o scaricati abusivamente da internet).

In quello, come in tutti i casi analoghi a quello per cui si procede, non era contestato che la consolle, pur essendo una mera componente hardware, costi­tuisse il supporto necessario per far “girare” software originali e che il meccani­smo di protezione operasse in via intercambiabile, nel senso che la indicazione apposta direttamente sul software dialogasse con l’altra misura apposta sull’’hardware e le due, agendo in modo complementare tra loro, accertavano la conformità dell’originale, consentendone la lettura.

Con espressione plastica ed indubbiamente efficace venne evocato in quel caso il meccanismo “chiave – serratura”, a spiegare che una parte della protezio­ne sta nelle informazioni inserite nel supporto – videogioco originale, mentre l’altra parte è inglobata nella consolle.

E’ innegabile, pertanto, che in quel caso (che si riferiva a consolle quali la Nitendo Wii, la Nintendo DS, la Xbox Microsoft, ma anche alla stessa PlayStation), come in quello che ci occupa, l’introduzione di sistemi che superano l’osta­colo al dialogo tra consolle e software non originale, ottengono il risultato oggettivo di aggirare i meccanismi di protezione apposti sull’opera protetta.

Alle modifiche in questione – nel solco delle pronunce ricordate – deve essere riconosciuta necessariamente la prevalente finalità di eludere le misure di prote­zione indicate dall’art. 102 quater in considerazione di una serie di elementi ri­correnti quali il modo in cui le consolle sono importate, vendute e presentate al pubblico, la maniera in cui le stesse sono configurate, la destinazione essenzialmente individuabile nell’esecuzione di videogiochi, come confermata dai docu­menti che accompagnano il prodotto e, non ultimo, il fatto che alcune unità, qua­li tastiera, mouse e video, non sono fornite originariamente e debbono even­tualmente essere acquistate a parte.

Le Playstation2, in altri termini, come consolle analoghe e di altre marche, di precedenti e successive generazioni, se hanno anche funzioni comuni ai personal computer (quali il collegamento on line l’ascolto di musica o la visione di film) conservano innegabilmente la loro funzione principale, se non esclusiva, di consolle per videogiochi.

L’individuazione della finalità prevalente delle modifiche consente, dunque, di poter affermare che rientrano nell’ambito della previsione penale in­distintamente tutti i congegni principalmente finalizzati – come i ricordati micro­chip – a rendere possibile l’elusione delle misure di protezione di cui all’art. 102 quater.

Non sussiste, dunque, da parte della Corte territoriale, che ha fatto buon governo dei principi di diritto affermati da questa Corte regolatrice in materia, la violazione di legge lamentata.

5. E non sussistono neanche i denunciati vizi motivazionali.

Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilet­tura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma ado­zione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).

Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciarle, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794).

Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non at­tiene né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due re­quisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542).

Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della de­cisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.

Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46.

Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattan­dosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito.

Il ricorrente non può, come nel caso che ci occupa limitarsi a fornire una versione alternativa del fatto (la detenzione non per la vendita, l’avere modifica­to le Playstation2 per trasformarle in una sorta di pc), senza indicare specifica­mente quale sia il punto della motivazione che appare viziato dalla supposta ma­nifesta illogicità e, in concreto, da cosa tale illogicità vada desunta.

Com’è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica “rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti proces­suali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motiva­zione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da “altri atti del processo”, purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche at­traverso gli “atti del processo” costituisce invero il riconoscimento normativo del­la possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto “travisamento della prova” che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal proce­dere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il rela­tivo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all’interno della decisione.

In altri termini, vi sarà stato “travisamento della prova” qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risulta­to di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è ri­sultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell’imputato). Oppure dovrà essere valutato se c’erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma – occorrerà ancora ri­badirlo – non spetta comunque a questa Corte Suprema “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giac­ché attraverso la verifica del travisamento della prova.

Per esserci stato “travisamento della prova” occorre che sia stata inserita nel processo un’informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.

In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della mo­tivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l’atto che contiene la prova travisata o omessa.

Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legitti­mità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfi­nerebbe nel merito.

6. Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Suprema Corte, le censure che il ricorrente rivolge al provvedimento impugnato si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione del­la sentenza della Corte d’Appello di Bari alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.

Il difensore del F. non contesta il travisamento di una specifica prova, ma sollecita a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa sede.

I giudici del gravame di merito con motivazione specifica, coerente e logi­ca hanno, infatti, dato conto, partendo dai risultati dell’indagine peritale, di come 21 delle 25 consolle sequestrate fossero divenute atte ad utilizzare videogiochi non originali o illecitamente scaricati da Internet (cfr. pag. 3 della motivazione).

Ciò trova peraltro conferma empirica nella circostanza – riferita in motiva­zione dal giudice di primo grado – che i finanzieri, come riferito dal teste, verificarono di fatto che ciò fosse possibile, inserendo all’interno delle consolle, dei supporti magnetici masterizzati.

E’ pur vero che la Corte territoriale non aggiunge gli ulteriori elementi ri­chiesti oggi circa la collocazione specifica delle consolle sequestrate, ma pare con tutta evidenza circostanza ininfluente, apparendo incontestato che le stesse sia­no state rinvenute dalla Guardia di Finanza nello stand di una fiera commerciale nelle circostanze di tempo e di luogo indicate nel capo d’imputazione.

Va ricordato, peraltro, che a fronte di una doppia conforme affermazione di responsabilità II giudice di secondo grado, infatti, nell’effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamen­te censurate.

In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell’appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai pas­saggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l’univoca giuri­sprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4. 2012, Valerio, rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).

Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo.

Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107).

Rispetto alla motivata, logica e coerente pronuncia della Corte territoriale il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione.

Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto.

7. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna della parte ricorren­te al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.