Danno non patrimoniale da immissioni intollerabili: ok, ma serve la prova (Corte di Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 20.08.2015, n. 17013)

L’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili non costituisce di per sè prova dell’esistenza di danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata all’accertamento dell’effettiva esistenza di una lesione fisica o psichica.

Cassazione civile, sezione terza, sentenza del 20.08.2015, n. 17013

…omissis…

2.1 Con il secondo motivo di ricorso xxxxxxxxxxxxxxlamentano – ex art. 360 c.p.c. , comma 1, nn. 3) e 5) – l’erroneo rigetto da parte della corte di appello, in riforma della prima decisione, della loro domanda di risarcimento del danno; posto che ancorchè si ritenesse insussistente la prova di una lesione psicofisica ( danno biologico alla salute) per effetto delle immissioni acustiche, la sussistenza di un danno morale o esistenziale doveva invece ritenersi insita nell’accertata lesione dei diritti costituzionali alla libertà di spostamento; al tranquillo godimento del domicilio; alla serena fruizione del tempo libero. Sicchè la prova della intollerabilità delle immissioni (così come ritenuta anche dal giudice di appello) implicava di per sè la prova del danno risarcibile.

2.2 La doglianza non può trovare accoglimento, nè sotto il profilo della violazione normativa, nè sotto quello della carenza motivazionale.

Partendo da quest’ultimo aspetto, il giudice di appello ha escluso che gli attori avessero fornito la prova, su di essi gravante, non solo di un danno alla loro integrità psicofisica, ma anche di un danno non patrimoniale di natura esistenziale da inquinamento acustico e da limitazione del movimento. Riformando, sul punto, la prima decisione, il tribunale ha infatti osservato che i testi sentiti avevano confermato la sussistenza ed intollerabilità delle immissioni sonore provenienti dal gregge al pascolo in prossimità dell’abitazione degli attori, senza che da ciò si deducessero tuttavia elementi utili alla dimostrazione di un danno risarcibile;

sicchè gli appellati non avevano, in definitiva, “offerto alcuna prova (nè articolato richieste in tal senso) idonea a documentare la verificazione di un pregiudizio, derivante dalle lamentate immissioni, alla loro vita quotidiana, con conseguente impedimento o difficoltà nello svolgimento di attività che ne costituivano parte integrante (in cui si sostanzia propriamente il danno esistenziale) (…)” (sent. pag. 6). Si tratta di un convincimento di merito qui non sindacabile, risultando del resto ben chiaro dalla motivazione censurata come il difetto di prova del danno non patrimoniale abbia riguardato non tanto (o soltanto) il quantum riconoscibile, bensì l’esistenza stessa (an debeatur) del pregiudizio.

Parimenti destituita di fondamento è la censura di violazione normativa, dal momento che i principi di diritto richiamati dal giudice di appello trovano riscontro nella ormai assodata giurisprudenza di legittimità. Quanto, in particolare, al fatto che il danno ex art. 2059 c.c. – pur quando sia astrattamente riconoscibile – si atteggia in ogni caso quale danno-conseguenza (v.note decisioni di cui alle SSUU nn. 26972/3/4/5 del 2008); così da non potersi ritenere in re ipsa, e richiedere invece la comprovata sussistenza dei caratteri generali della gravità della lesione e della apprezzabile serietà, comunque valutata sul metro dei diritti costituzionali inviolabili, del pregiudizio di cui si chieda il risarcimento (tra le altre, da ultimo, Cass. n. 15240 del 3 luglio 2014; Cass. n. 17974 del 14 agosto 2014).

Alla luce di tali parametri – costituenti il punto di equilibrio costituzionale tra il dovere di protezione e solidarietà verso la vittima dell’illecito ed il generale dovere di tolleranza nei rapporti sociali – il risarcimento del danno non patrimoniale richiede, in definitiva, la prova di una violazione che abbia determinato in concreto una lesione la quale, andando oltre 1 suddetta soglia di tollerabilità, ne renda significativamente apprezzabile la portata e costituzionalmente meritevole il ristoro.

Di tale orientamento non mancano applicazioni proprio in tema di danno non patrimoniale da immissioni intollerabili; essendosi in proposito affermato che l’accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili non costituisce di per sè prova dell’esistenza di danno alla salute, la cui risarcibilità è subordinata all’accertamento dell’effettiva esistenza di una lesione fisica o psichica (Cass. n. 25820 del 10/12/2009); e che il danno non patrimoniale consistente nella modifica delle abitudini di vita del danneggiato (alla quale si ricollega la nozione di danno esistenziale) in conseguenza delle immissioni non può essere risarcito in difetto di specifica prospettazione e dimostrazione di un danno attuale e concreto (Cass. n. 4394 del 20/03/2012).

Ora, nel caso in esame, il giudice di merito ha correttamente escluso che la prova delle immissioni, ancorchè illegittime, concretasse la prova di un danno risarcibile, non potendo quest’ultimo considerarsi in re ipsa; nè gli attori avevano allegato ed offerto di provare (anche a mezzo di presunzioni) che, per effetto delle immissioni sonore, essi avevano subito un significativo mutamento delle loro condizioni ed abitudini di vita, concretante un pregiudizio risarcibile.

Corretta, infine, deve ritenersi l’affermazione del tribunale secondo cui la prova della sussistenza di un danno risarcibile deve essere fornita dalla parte pur in presenza di domanda di liquidazione equitativa;

ciò perchè il potere giudiziale di liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 cod. civ. non esonera la parte dall’onere di provare il danno nella sua esistenza ontologica, intervenendo unicamente nella determinazione quantitativa del pregiudizio allorquando la prova diretta ed analitica di quest’ultima risulti, per la peculiarità della fattispecie, impossibile o particolarmente difficile.

3.1 Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 5), l’erroneo governo da parte della corte di appello delle spese di lite: – sia di quelle della fase cautelare, poste giustamente a carico per intero dell’ A. ma rideterminate dal giudice di appello in un quantum troppo basso in ragione della complessità del procedimento; – sia di quelle di primo e secondo grado, rideterminate in importo troppo basso, e senza motivazione circa i presupposti della ritenuta compensazione al 50%.

Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 c.p.c. , comma 1, n. 4), violazione dell’art. 112 c.p.c. , poichè la corte di appello aveva ridotto i diritti e gli onorari della fase cautelare di reclamo avanti al collegio, nonostante che tale riduzione non fosse stata richiesta dall’ xxxxxxxx

3.2 I due motivi in esame, suscettibili di trattazione unitaria, sono infondati.

Si osserva in proposito che il parametro normativo di regolazione delle spese di lite era nella specie costituito (trattandosi di procedimento instaurato prima dell’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 ) dai giusti motivi della previgente formulazione dell’art. 92 cod. proc. civ..

Giusti motivi di parziale compensazione ravvisati dal giudice di appello nelle peculiarità della controversia, e comunque corroborati – nella valutazione unitaria dell’esito della lite – dalla parziale soccombenza nella quale erano infine incorsi gli attori in ordine alla domanda risarcitoria.

Senonchè, in tema di spese processuali, il sindacato della corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa; pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (Cass. n. 15317 del 19/06/2013 ed altre).

Posto che nel caso di specie non è stato violato il divieto di porre le spese a carico della parte totalmente vittoriosa, non può darsi qui ingresso ad alcuna differente valutazione.

Analoghe considerazioni di non sindacabilità debbono essere svolte in ordine alla minor quantificazione delle spese del primo grado di giudizio, sulle quali si osserva che: – la riliquidazione di tali spese era stata richiesta in appello dall’appellante con riferimento alle varie fasi del giudizio di primo grado, compresa in esse (nella ricostruzione della volontà processuale della parte, come compiuta dal giudice di merito con valutazione qui non rivedibile) anche la fase del reclamo al collegio avvers il provvedimento ex art. 700 cod. proc. civ. ; – gli odierni ricorrenti non lamentano, nella liquidazione in oggetto, la specifica violazione delle voci di liquidazione tabellare, nè risulta contestabile il criterio di valore della causa (indeterminato basso) sul quale il giudice di appello ha conformato, secondo tariffa, la propria liquidazione.

5.1 Con il primo ed il secondo motivo di ricorso incidentale – tempestivamente introdotto, tenuto conto della data (12.12.11, ultimo giorno utile non festivo) di consegna dell’atto all’agente postale per la notificazione – l’ xxxxxxnta – ex art. 360 c.p.c. , comma 1, nn. 4) e 5) – l’erronea conferma da parte del giudice di appello della sentenza di primo grado con la quale era stato recepito il provvedimento cautelare di apposizione di una recinzione a 100 mt. di distanza dalla proprietà degli attori; nonostante che costoro si fossero limitati a chiedere, ad eliminazione delle immissioni, che i campani fossero ridotti ad uno/due per gregge, così come nella tradizione toscana.

5.2 Si tratta di censure destituite di fondamento.

Risulta infatti che gli attori, con l’atto introduttivo del giudizio, avevano chiesto espressamente la conferma del provvedimento cautelare del 21 agosto 2006; conferma che, trasposta nell’ambito del giudizio di cognizione, non poteva avere altro significato sostanziale che quello di condanna dei convenuti a tenere lo stesso comportamento già fatto oggetto de provvedimento cautelare in ordine all’adozione degli accorgimenti (tra cui la recinzione a distanza) atti al contenimento delle immissioni nei limiti della normale tollerabilità, in una con la delimitazione dello spazio d’azione dei cani pastore.

Va dunque considerato che, nel confermare la pronuncia di primo grado in ordine alla recinzione a 100 mt. di distanza dalla proprietà degli attori, il giudice di appello non è incorso nel lamentato vizio di ultrapetizione, atteso che la condanna dei convenuti all’apposizione di tale recinzione doveva ritenersi logicamente ricompresa già nella domanda introduttiva, con la quale gli attori avevano inteso far coincidere del tutto il petitum del giudizio di cognizione con il contenuto dispositivo del provvedimento cautelare;

al quale facevano espresso ed inequivoco riferimento. Sicchè il richiamo, nelle conclusioni degli attori, alla riduzione del numero dei campani (uno/due per gregge) non poteva ritenersi esaustiva della domanda dei medesimi; proprio perchè puramente conformativa, in sede di cognizione piena, a quanto da essi ottenuto in sede cautelare (dunque compresa la recinzione alla distanza indicata).

Ne segue il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale;

con conseguente compensazione delle spese tra le parti, in ragione di reciproca soccombenza.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 19 maggio 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2015