Espressioni offensive non sono permesse all’avvocato anche in situazioni di parte. Sanzionato dall’Ordine degli Avvocati (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civile, Sentenza 2 marzo 2018, n. 4994).

(Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, Sentenza 2 marzo 2018, n. 4994)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di sez. –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1654/2017 proposto da:

D.N.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 49, presso lo studio dell’avvocato CARLO ARNULFO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 192/2016 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 12/07/2016;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/06/2017 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. IACOVIELLO FRANCESCO MAURO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito l’Avvocato Carlo Arnulfo.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 12/7/2016 il C.N.F. ha respinto il gravame interposto dall’avv. D.N.N. in relazione alla pronunzia del C.O.A. di Roma di irrogazione della sanzione disciplinare della censura per violazione del (previgente) art. 5 Codice Deontologico, per avere in un atto giudiziale utilizzato espressioni offensive e denigratorie nei confronti della sig. M.A., con la quale il medesimo e sua moglie sig. Ma.Ro. sin dall’anno 2000 avevano un rapporto conflittuale (originato da uno sfratto per morosità), sfociato in precedenti anche penali.

Avverso la suindicata pronunzia del C.N.F. il D.N. propone ora ricorso per cassazione affidato ad unico motivo.

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con unico motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 111 Cost. “per vizio di motivazione, stante l’omessa valutazione su un punto della decisione dedotto dalla parte”.

Si duole non essersi considerato che la condotta censurata è stata posta in essere sull’errato presupposto che l’atto sia stato posto in essere in qualità di parte e non già di difensore di fiducia della (moglie e coimputata) sig. Ma.Ro., con conseguente omessa valutazione della scriminante ex art. 51 c.p., trattandosi di espressione formulata nell’esercizio del diritto di difesa e di critica del comportamento processuale mantenuto dalla M..

E’ rimasto nel caso accertato che, nell’ambito del “procedimento penale innanzi al G.I.P. rubricato al n. 11414/03”, l’odierno ricorrente ha “redatto una memoria datata 19.11.2007” recante – tra l’altro – la seguente espressione: “chi ha un male incurabile non sopravvive sette anni e non si presenta in tutti i giudizi così accesa e pimpante a perorare la sua causa, perchè non ne avrebbe le forzi, ma si prepara ad affidare l’anima a Dio, confidando nel suo generoso Perdono”.

A conclusione del procedimento disciplinare aperto a suo carico il C.O.A. di Roma ha al medesimo irrogato la sanzione disciplinare della censura, per violazione dell’art. 5 Codice deontologico all’epoca vigente.

Decisione successivamente confermata con l’impugnata sentenza ove, dopo aver osservato che “il Coa di Roma… ha correttamente ritenuto sussistere sia la conoscenza da parte dell’avv. D.N.” della circostanza che “la sig. M. fosse già affetta dal male incurabile” che l'”assenza di qualsiasi giustificazione per l’utilizzo di quella frase”, ritenuta pertanto “gratuitamente offensiva”, il C.N.F ha sottolineato che “l’art. 5 previgente Codice Deontologico imponeva all’avvocato di ispirare la propria condotta all’osservanza dei doveri di probità, dignità e decoro anche quando la stessa sia posta in essere in qualità diversa da quella professionale” (altresì sottolineando che il “nuovo Codice Deontologico, all’art. 2, individua l’ambito di applicazione soggettiva del professionista e stabilisce che esso si estende anche ai comportamenti della vita privata del professionista, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine dell’avvocatura; all’art. 9… fa riferimento all’osservanza da parte dell’avvocato dei doveri di probità, dignità e decoro nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense; l’art. 63…, al primo comma, prescrive che l’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi; al comma 2 la norma recita che “l’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto nell’esercizio della professione”).

Ed è pervenuto a correttamente concludere che la qualità di avvocato “lungi dall’essere una attenuante del comportamento posto in essere, costituisce una aggravante del comportamento deontologicamente scorretto”.

Orbene, a parte il rilievo che diversamente da quanto sostenuto dall’odierno ricorrente nella specie non verrebbe comunque in rilievo l’art. 51 c.p. ma eventualmente l’art. 598 c.p., vale osservare come decisivo si appalesi al riguardo il rilievo che l’illecito disciplinare in argomento rimane invero integrato in ogni ipotesi di violazione da parte dell’avvocato dell’obbligo deontologico di probità, dignità e decoro: sia quando agisca “in qualità diversa da quella professionale”, sia – ed a fortiori – nell’esercizio del suo ministero.

L’esplicazione della propria attività professionale certamente non legittima l’utilizzazione da parte dell’avvocato di espressioni insultanti o denigratorie, quale quella nella specie nella suindicata memoria dall’odierno ricorrente formulata.

All’infondatezza del motivo consegue il rigetto del ricorso.

Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2018.