Falsità in atto pubblico commesso da un pubblico ufficiale (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 6 febbraio 2018, n. 5452).

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. MICHELI Paolo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.L., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 17/05/2016 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ROBERTO AMATORE;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. MIGNOLO Olga;

Il Proc. Gen. conclude per l’inammissibilità Udito il difensore.

Svolgimento del processo

 

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza di condanna della predetta imputata emessa dal Tribunale di Milano in data 25.6.2014 per i reati di falso (artt. 476 e 482 c.p.) e di truffa aggravata.

Avverso la predetta sentenza ricorre l’imputata, per mezzo del suo difensore, affidando la sua impugnativa a due motivi di doglianza.

1.1 Denunzia la ricorrente, con il primo motivo, vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 476 e 482 c.p., nonchè vizio di omessa motivazione in relazione alla mancata pronuncia sul motivo di gravame afferente al falso grossolano.

1.1.1 Sotto il primo profilo, osserva la difesa che, nonostante la sentenza impugnata avesse richiamato nella sua motivazione un principio di diritto corretto, non ne aveva fatto poi corretta applicazione pratica al caso di specie. Ed invero, la Corte di legittimità aveva affermato, in alcuni suoi arresti, che per la sussistenza del reato di cui all’art. 476 c.p., non è indispensabile un intervento falsificatorio su un atto pubblico, ma risulta sufficiente far apparire l’atto pubblico come realmente esistente anche mediante la falsa rappresentazione della realtà creata attraverso la fotocopia giacchè in tal caso verrebbe comunque lesa la pubblica fede. Tuttavia – osserva ancora la difesa della ricorrente – la giurisprudenza di legittimità aveva avuto modo di precisare che la fotocopia di un atto inesistente è suscettibile di integrare la falsità penalmente rilevante solo quando, per concrete circostanze concrete e per le persone da cui viene utilizzata, sia idonea ad attestare l’esistenza di un atto originale conforme, con i connessi effetti probatori.

Sul punto la difesa dell’imputato aveva sollevato specifica doglianza, sostenendo che invero le copie fotostatiche oggetto della odierna contestazione penale non si presentavano idonee ad attestare che, a monte delle fotocopie stesse, vi fossero effettivamente atti pubblici realmente esistenti, e senza che tuttavia vi fosse stata una risposta argomentativa da parte della Corte di appello.

Si evidenzia, cioè, che tutti i documenti di cui si era contestata la falsificazione erano sempre stati presentati come semplici fotocopie senza alcun timbro ovvero dichiarazione attestante la conformità ad un atto pubblico originale, in modo tale da dimostrare che detti documenti provenivano da un soggetto riconducibile ad una pubblica amministrazione. Si evidenzia, altresì, che i predetti documenti non erano stati neanche visionati dalle parti civili ovvero dalle imputate M. e P..

1.1.2 Si era sempre osservato in grado di appello che tutti i documenti di cui al capo di imputazione si presentavano come grossolanamente falsi giacchè presentavano la data di redazione degli atti successiva alla data di protocollazione in uscita, circostanza dunque fattualmente impossibile e integrante il falso grossolano perchè facilmente evincibile. Si era altresì evidenziato che, in un documento, la firma falsificata dal L. era quella della persona che aveva ricevuto l’atto stesso, e cioè la B., così da rendere la falsificazione facilmente riconoscibile.

Su tutte queste circostanze allegate nei motivi di gravame la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi, cadendo dunque nel vizio di omessa motivazione.

Peraltro i documenti a e b di cui al capo di imputazione 1 ed il documento di cui al capo di imputazione 6 non avevano il medesimo contenuto dei documenti comunali genuini, di talchè il principio di diritto richiamato dalla Corte di merito per affermare la penale responsabilità degli imputati non era applicabile al caso di specie.

1.1.3 Denunzia inoltre come illogica la motivazione resa dal giudice di appello nella parte in cui aveva ritenuto non influente ai fini dell’applicazione del richiamato principio pretorio la circostanza che i documenti oggetto di falsificazione fossero stati esaminati personalmente dalle parti ovvero dal notaio rogante, atteso che, trattandosi di una scrittura privata autenticata, il Notaio non aveva l’obbligo di attestare alcunchè in relazione alla presenza ed autenticità dei documenti allegati al contratto di cessione di ramo d’azienda.

Ne conseguiva – sempre secondo la linea difensiva della imputata – che, non essendo emersa la prova che gli atti predetti fossero stati esaminati da alcuno al di fuori dell’autore della falsificazione, e cioè il L., e che gli stessi non erano comunque idonei ad ingannare, non emergeva neanche la lesione della pubblica fede e dunque la consumazione del reato di cui agli artt. 476 e 482 c.p..

Si contesta inoltre la logicità della motivazione anche nella parte in cui quest’ultima aveva fatto discendere la conoscenza e l’esame dei documenti da parte del notaio rogante dalla mera consegna da parte del L. degli stessi alla segretaria del notaio ed anche nella parte in cui si era affermato che la consegna dei documenti stessi fosse di per sè dimostrativa della esistenza di atti corrispondenti.

1.2 Con un secondo motivo si denunzia vizio di violazione di legge processuale in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 2, e art. 533 c.p.p., e ciò in ordine alla valutazione indiziaria della compartecipazione della P. nella truffa consumata di cui al capo 4 della imputazione.

Sul punto si evidenzia, per un verso, la mancata dimostrazione che la ricorrente svolgesse il ruolo di amministratore di fatto della società BDS che aveva alienato in modo truffaldino il ramo d’azienda alla società acquirente Piper’s.

Del pari indimostrata – afferma ancora la difesa – sarebbe la circostanza della conoscenza da parte della P. che il locale oggetto di cessione fosse privo delle necessarie autorizzazioni amministrative.

Non provata sarebbe inoltre la circostanza che l’inoltro della domanda al Comune di Milano per ottenere l’autorizzazione alla somministrazione di cibi e bevande (avvenuta quattro giorni dopo la stipulazione del contratto di cessione) fosse avvenuto per mano della odierna imputata, giacchè dalla istruttoria dibattimentale era solo emerso che la predetta istanza recava la sottoscrizione falsa della M..

Motivi della decisione

2. Il ricorso è infondato.

2.1 Il primo motivo di ricorso, declinato in primis come violazione di legge, involge invero la corretta esegesi degli artt. 476 e 482 c.p..

Sul punto, occorre ricordare come la giurisprudenza di questa Corte abbia affermato che integra il reato di cui all’art. 476 c.p., la formazione di un documento presentato come la riproduzione fotostatica di un atto pubblico invero inesistente in originale (Sez. 5, Sentenza n. 40415 del 17/05/2012 (dep. 15/10/2012) Rv. 254632).

Pur essendo questo collegio consapevole dell’esistenza di precedenti contrari (Sez. 2, n. 42065 del 03/11/2010, Russo; Sez. 5, n. 7385 del 14/12/2007, Favia), tuttavia ritiene di dover aderire a quella giurisprudenza, maggioritaria, secondo cui integra il reato di cui all’art. 476 c.p., la formazione di un atto presentato come la riproduzione fotostatica di un documento originale, in realtà inesistente, del quale si intenda artificiosamente attestare l’esistenza e i connessi effetti probatori, perchè l’atto è idoneo a trarre in inganno la pubblica fede (Sez. 6, Sentenza n. 6572 del 10/12/2007, Capodicasa; conf. sez. 5, n. 7566 del 15/04/1999, Domenici; v. anche Sez. 5, n. 24012 del 12/05/2010, Pezone; Sez. 5, n. 14308 del 19.03.2008, Maresta).

Invero, tale orientamento sembra preferibile in quanto l’esistenza di una fotocopia avente il contenuto apparente di un atto pubblico dimostra che tale atto presupposto è stato contraffatto, per poterne trarre una copia fotostatica, ovvero che è stato alterato un documento pubblico esistente. In ogni caso, affinchè sussista il reato in esame non è affatto necessario che vi sia un intervento materiale su un atto pubblico, essendo sufficiente che attraverso la falsa rappresentazione della realtà operata dalla fotocopia tale atto appaia esistente, con lesione della pubblica fede.

Per tale motivo deve ritenersi integrare il reato di cui all’art. 476 c.p., anche l’alterazione compiuta sulla fotocopia di un atto pubblico esistente, ovvero il fotomontaggio di più pezzi di atti veri, ovvero ancora la creazione artificiosa di una fotocopia di un atto inesistente.

A tal fine è del tutto indifferente che la copia sia autentica (nel qual caso vi sarebbe piuttosto un falso ideologico del soggetto certificante), tanto più quando la provenienza dell’atto e le circostanze del suo utilizzo ne facciano presumere la conformità all’originale e dunque inducano il privato a ritenere che tale atto pubblico originale sia esistente (così, Sez. 5, Sentenza n. 40415 del 17/05/2012, cit. supra).

La falsità, invero, è integrata non tanto e non solo dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente (che nel caso di specie non c’è), ma anche dalla mendace e attuale rappresentazione di una siffatta realtà probatoria, creata appunto attraverso un simulacro o una immagine cartolare di essa (fotocopia o anche fotomontaggio), che è intrinsecamente idonea a ledere (e lede) il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto, qualunque esso sia, proveniente dalla pubblica amministrazione.

Sicchè, in definitiva, ben può una fotocopia – fatta passare come prova di un atto originale che non esiste, del quale intenda artificiosamente attestare l’esistenza e i connessi effetti probatori – integrare una falsità penalmente rilevante ai sensi dell’art. 476 c.p. (Sez. 6, Sentenza n. 6572 del 10/12/2007, Capodicasa).

Non dimentica questo Collegio come, più di recente, questa stessa Sezione della Corte sia di nuovo intervenuta nella subiecta materia, affermando, verbatim, che “Non integra il delitto di falsità materiale previsto dagli artt. 476 e 482 c.p., la condotta di colui che esibisca la falsa fotocopia di un provvedimento amministrativo inesistente, qualora si tratti di fotocopia esibita ed usata come tale dall’imputato e, pertanto, priva dei requisiti, di forma e di sostanza, capaci di farla sembrare un atto originale o la copia conforme di esso ovvero comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente” (Sez. 5, Sentenza n. 8870 del 09/10/2014 Ud. (dep. 27/02/2015) Rv. 263422: fattispecie in cui la Corte ha ritenuto penalmente irrilevante, da parte di un geometra, la trasmissione via telefax di una autorizzazione ambientale inesistente al committente dei lavori di ristrutturazione di un immobile).

Ma qui occorre ribadire, come anche già evidenziato nello stesso arresto giurisprudenziale da ultimo menzionato, che, a ben vedere, il contrasto è solo apparente, atteso che nella fattispecie concreta presa in esame dalla Corte nel caso citato da ultimo non era in alcun modo ipotizzabile, in verità, che le copie del fax, prive di qualsiasi attestazione di autenticità e, nella materialità, visibilmente riconoscibili come mere riproduzioni telematiche, potessero essere utilmente utilizzabili a qualsivoglia scopo di legge, tanto meno per l’avvio di una pratica di finanziamento od altro utile impiego.

Ne consegue che non era in alcun modo ipotizzabile una falsificazione materiale idonea ad ingannare la pubblica fede, diversamente invece da quanto avvenuto nel caso di specie ove la falsificazione ha sì riguardato atti pubblici inesistenti (come il provvedimento di accoglimento della domanda intesa ad ottenere l’autorizzazione all’attività di somministrazione di cibi e bevande; e come la dichiarazione di inizio di attività produttive, in sigla D.I.A.P.), ma comunque riprodotti artificiosamente in fotocopie in modo da creare un apparenza di esistenza degli stessi al fine di ingannare la pubblica fede e di consumare, tramite tale artificiosa apparenza, la truffa in danno della società acquirente l’azienda priva dei requisiti di legge e dei titoli abilitativi per l’esercizio dell’attività di ristorazione.

Ne consegue che, anche alla luce dei principi giurisprudenziali qui riaffermati, occorre rigettare la doglianza articolata nei termini della sopra prospettata violazione di legge.

2.1.1 Nè può ritenersi che si versi nel caso di specie in una ipotesi di falso grossolano essendo stata riprodotta un’apparenza di atto pubblico proprio tramite l’uso della copia fotostatica di altro atto pubblico evidentemente contraffatto.

Ed invero, la idoneità ad ingannare la pubblica fede da parte dei predetti atti così materialmente contraffatti è comprovata dalla loro utilizzazione a fini truffaldini proprio nei confronti degli acquirenti dell’azienda di ristorazione descritta nel capo di imputazione, e ciò attraverso la loro allegazione all’atto pubblico di cessione rogato dal Notaio.

Non può certo ritenersi, peraltro, che la datazione degli atti possa essere considerato un sicuro indice di grossolanità della falsificazione, atteso che invero gli stessi presentavano tutti gli indici fattuali e normativi per farli ritenere come riconducibili alla pubblica amministrazione di riferimento.

Ne consegue il rigetto del primo motivo di doglianza.

2.2 Il secondo motivo – anch’esso declinato formalmente come vizio di violazione di legge, ma in realtà integrante il diverso vizio argomentativo della motivazione impugnata (in punto di sussistenza della prova indiziaria della compartecipazione della P. nell’azione truffaldina del L.) – deve essere considerato anch’esso privo di fondamento.

La motivazione spesa sul punto dalla Corte meneghina deve considerarsi, oltre che giuridicamente ineccepibile, anche del tutto adeguata e scevra da vizi di illogicità manifesta.

Ed invero, il giudice di appello evidenzia che la prova indiziaria in ordine alla compartecipazione della ricorrente alla descritta azione truffaldina del L. ai danni degli acquirenti della azienda di ristorazione si evince con sicurezza dalla sottoscrizione da parte della P. stessa dei contratti preliminari di cessione d’azienda, dalle stesse ammissioni della ricorrente sulla conoscenza della inesistenza dei titoli abilitativi ed autorizzativi per l’esercizio dell’attività commerciale oggetto di cessione e dal sequestro dei documenti falsificati presso la P..

Ciò rende palese la conoscenza da parte della ricorrente della condotta raggirante posta in essere ai danni della società acquirente per ottenere la cessione dell’azienda priva dei necessari titoli amministrativi autorizzativi e per ottenerne il relativo lucro.

Ne consegue il rigetto del ricorso.

P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2018.