Falso psicologo approfitta delle condizioni di vulnerabilità dei pazienti. Si applica l’aggravante della minorata difesa.

(Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 7 gennaio – 2 aprile 2015, n. 13933)

Ritenuto in fatto.

Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale del riesame di Bologna, adito ex art. 310 c.p.p., in parziale accoglimento dell’appello cautelare presentato dal P.M., ha disposto l’applicazione a N.C. , in atti generalizzato, della misura cautelare degli arresti domiciliari in ordine ai reati di cui agli artt. 348 e 640, comma 2-bis, c.p., per abusivo esercizio delle professioni di psicologo e psicoterapeuta, nonché di medico psichiatra, e truffa aggravata in danno dei pazienti.

Contro tale provvedimento, l’indagato (con l’ausilio di un avvocato iscritto all’apposito albo speciale) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. c.p.p.:

I – violazione dell’art. 61 n. 5 c.p. (la contestata aggravante dei fatti di truffa non sarebbe configurabile in presenza della mera vulnerabilità psicologica dei pazienti dell’indagato, afflitti unicamente da problemi di coppia, familiari o lavorativi, oppure affetti da tabagismo o disturbi alimentari);

II – inosservanza dell’art. 274 c.p.p. e palese illogicità della motivazione quanto alle ritenute esigenze cautelari (l’indagato, dal 27 gennaio 2014, data del sequestro dei locali dove esercitava la contestata attività professionale, al 22 luglio 2014, data nella quale egli ha appreso della richiesta di misura cautelare che lo riguardava, si sarebbe astenuto dal proseguire lo svolgimento dell’attività oggetto di cautela).

All’odierna udienza camerale, celebrata ai sensi dell’art. 127 c.p.p., si è proceduto al controllo della regolarità degli avvisi di rito; all’esito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, e questa Corte Suprema, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti.

Considerato in diritto

Il ricorso è, nel suo complesso, infondato, e va, pertanto rigettato.

1. Il primo motivo è infondato.

1.1. Questa Corte (Sez. II, sentenza n. 6608 del 14 novembre 2013, dep. 12 febbraio 2014, CED Cass. n. 258337) ha già chiarito che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma, 1, n. 5, c.p. è tradizionalmente ritenuta configurabile quando l’agente approfitti di circostanze a lui favorevoli, di tempo, di luogo o di persona (anche in relazione all’età), da lui conosciute e che abbiano, in relazione alla situazione fattuale in concreto esistente, ostacolato la reazione dell’Autorità pubblica, o dei privati parti lese, agevolando in concreto la commissione del reato, in quanto determinano uno stato di “minorata difesa” (di qui l’espressione con la quale la circostanza aggravante de qua è generalmente indicata) tale da facilitare l’impresa delittuosa (così per tutte Cass. pen., Sez. V, sentenza n. 33682 del 5 luglio 2010, CED Cass. n. 248175).

Le circostanze “di persona” (quelle in relazione alle quali sono state articolate le doglianze del ricorrente), riferite alla persona della vittima del reato, devono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica del soggetto passivo in cui questi si trovi per qualsiasi motivo (Cass. pen., Sez. I, sentenza n. 6848 del 12 marzo 1991, CED Cass. n. 187649; Sez. II, sentenza n. 29499 del 10 giugno 2009, CED Cass. n. 244969).

Non occorre che la difesa sia stata resa quasi, o del tutto, impossibile, ma è sufficiente che essa sia stata semplicemente ridotta o, comunque, ostacolata, cioè resa più difficile. Per “trarre profitto” dalle suddette circostanze, occorre che l’agente ne sia stato a conoscenza e se ne sia intenzionalmente avvantaggiato, pur se la situazione di fatto che ne abbia determinato il verificarsi sia insorta occasionalmente o, comunque, indipendentemente dalla sua volontà.

La valutazione della sussistenza delle circostanza aggravante de qua richiede generalmente una disamina caso per caso: “il numero 5^ dell’articolo 65 [ora 61] (…) considera come aggravante l’aver approfittato di circostanze di tempo, di luogo o di persona, tali da ostacolare la pubblica o provata difesa. Spetterà al giudice determinare quando le dette circostanze ricorrano.

Il concetto non ha che due limiti: la specie della circostanza (tempo, luogo, persona), e la potenzialità di essa ad ostacolare, diminuire la difesa pubblica o privata.

Il tempo di notte, ad es., costituirà aggravante, solo se l’anzidetta aggravante difesa sia stata, o ne potesse essere ostacolata; così il furto commesso di notte, ma in luogo ove vi sia concorso di gente, ad es., in una festa da ballo, non sarà aggravato” (così il Guardasigilli nella Relazione al Re sul Codice penale del 1930, p. 12).

Sono stati ritenuti aggravati dall’approfittamento di circostanze (anche) di persona: – un rapina commessa di notte in danno di persona portatrice di handicap psichico (Sez. II, sentenza n. 29499 del 10 giugno 2009, CED Cass. n. 244969); – il furto di un orologio di valore sottratto da un infermiere a persona ricoverata in ospedale, nel corso di un intervento chirurgico (Sez. V, sentenza n. 33682 del 5 luglio 2010, CED Cass. n. 248175).

1.2. Va, pertanto, ribadito il seguente principio di diritto: “Le circostanze di persona che, ai sensi dell’art. 61, comma 1, n. 5, c.p., aggravano il reato quando l’agente ne approfitti, possono consistere in uno stato di debolezza fisica o psichica in cui la vittima del reato si trovi per qualsiasi motivo; esse devono risultare favorevoli all’agente, ovvero essere da lui conosciute, nonché tali da ostacolare, in relazione alla situazione fattuale concretamente esistente, la reazione dell’Autorità pubblica o dei privati parti lese, agevolando in concreto la commissione del reato, in quanto determinanti uno stato di minorata difesa della vittima tale da facilitare l’impresa delittuosa.

La relativa valutazione va operata dal giudice caso per caso, valorizzando situazioni che abbiano ridotto o, comunque, ostacolato, cioè reso più difficile, la difesa del soggetto passivo, pur senza renderla del tutto o quasi impossibile”.

1.3. A questo principio si è, nella sostanza, correttamente attenuto il Tribunale del riesame (f. 6 ss.), valorizzando, per configurare la circostanza aggravante de qua, le continuative modalità di svolgimento degli instaurati rapporti terapeutici e le generalizzate condizioni di grave debolezza psicologica (pur dovute a diversi fattori, puntualmente illustrati, caso per caso) dei pazienti. In tutti i casi si trattava di situazioni motivatamente ritenute dal Tribunale del riesame note all’indagato.

2. Il secondo motivo è generico (perché reitera doglianze già motivatamente disattese dal Tribunale del riesame) e comunque manifestamente infondato.

2.1. Il Tribunale del riesame, con rilievi giuridicamente corretti, nonché esaurienti, logici, non contraddittori, e pertanto incensurabili in questa sede, con i quali il ricorrente non si confronta con la necessaria specificità, in concreto riproponendo più o meno pedissequamente le analoghe doglianze già proposte in sede di riesame, ha compiutamente indicato gli elementi valorizzati per ritenere la sussistenza attuale di rilevanti esigenze cautelari e giustificare l’adeguatezza della misura impostagli (f. 10 s.: la protrazione della condotta “per un assai lungo periodo di tempo in modo abituale” in danno di “numerosissimi pazienti”, la cui incolumità psico-fisica era stata talora messa a repentaglio da prescrizioni controindicate “in rapporto alle patologie sofferte”; la “particolare spregiudicatezza” del comportamento dell’indagato, che aveva, in particolare, proseguito l’esercizio abusivo delle professioni – quanto meno fino al gennaio 2014 – anche dopo i controlli sfociati nella denuncia e nei sequestri del luglio 2013).

2.2. A tali rilievi il ricorrente non ha opposto alcunché di decisivo, se non generiche ed improponibili doglianze riguardanti la ricostruzione dei fatti accolta nel provvedimento impugnato, fondate su una personale e congetturale rivisitazione dei fatti di causa, risolventesi in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito, e senza documentare eventuali travisamenti nei modi di rito.

3. Il rigetto, nel suo complesso, del ricorso comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

3.1. La cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all’art. 28 reg. esec. c.p.p..

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si provveda a norma dell’art. 28 reg. esec. c.p.p..