FORZE ARMATE: procedimento e provvedimento disciplinari (T.A.R. Campania Napoli, Sezione VI, Ordinanza di remissione 5 novembre 2015, n. 78).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA CAMPANIA

(Sezione Sesta)

Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 1830 del 2015, proposto da T.M., rappresentato e dall’avv. Francesco Castiello e dall’avv. Raffello Capunzo ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo difensore in Napoli, alla via Tommaso Caravita n. 10;

Contro Ministero della difesa, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, presso i cui uffici – alla via A. Diaz n. 11 – e’ ope legis domiciliato;

Per l’annullamento:

del provvedimento del Ministero della Difesa – Direzione Generale PERSOMIL – Direttore III Divisione del 6 novembre 2014, prot. n. (…), notificato in data 24.11.2014, con il quale e’ stata disposta, nei confronti del ricorrente, la misura della perdita del grado per rimozione;

nonche’ degli atti connessi, ivi incluso il decreto dirigenziale del direttore generale PERSOMIL 24.6.2014, richiamato nelle premesse del provvedimento suindicato.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 ottobre 2015 il dott. Umberto Maiello e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con il gravame in epigrafe, proposto in riassunzione a seguito della declaratoria di incompetenza pronunciata dal tribunale amministrativo regionale del Lazio, Sezione Prima bis, con decisione n. 3785 del 5.3.2015, il ricorrente, gia’ Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, impugna il provvedimento indicato in epigrafe a seguito e per effetto del quale e’ stata applicata, nei suoi confronti, la misura della perdita del grado per rimozione.

Tale sanzione ha fatto seguito alla definizione, con condanna, del procedimento penale promosso nei suoi confronti per i seguenti addebiti “… in qualita’ di pubblico ufficiale, nello svolgimento delle funzioni, perche’ in servizio di pattuglia nell’espletamento del controllo alla circolazione stradale, in violazione dell’art. 172 comma 1 e 10 del codice della strada – che prevede una contravvenzione per il conducente di autoveicolo che non indossa la cintura di sicurezza – intenzionalmente procurava un vantaggio patrimoniale a ..Omissis.., consistito nella mancata elevazione del verbale di contravvenzione al codice della strada atteso che la stessa non indossava la cintura di sicurezza. In Castello di Cisterna l’11.5.2008”.

All’esito del giudizio di prime cure il G.U.P. di Nola, in sede di rito abbreviato, con sentenza n. 7/09 del 15.1.2009, condannava, il ricorrente per i reati a lui ascritti ( articoli 110, 323 c.p.) ritenendo al contempo configurabile l’ipotesi attenuata di cui all’art. 323-bis codice penale e, per l’effetto, applicava nei suoi confronti la pena finale di mesi 2 e gg 20 di reclusione, nonche’, ai sensi degli articoli 28, 31 e 37 c.p. , quella accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di mesi 2 e gg. 20, disponendo la sospensione della pena inflitta a termine e condizioni di legge.

In sede di gravame, la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 1354 del 14.5.2012, riformando la decisione di primo grado, sostituiva la pena detentiva di mesi due e giorni 20 di reclusione con la corrispondente pena pecuniaria di Euro 3.040,00 di multa.

Tanto per la “…modestia del fatto e l’incensuratezza dell’appellante”. Il giudice d’appello, inoltre, revocava il beneficio della sospensione condizionale della pena (..come da richiesta difensiva accompagnata dal parere favorevole del P.G.) e confermava, per il resto, l’impugnata sentenza.

Tale statuizione giurisdizionale, una volta respinto dalla Suprema Corte di Cassazione il relativo ricorso, acquisiva, in data 27.5.2014, l’incontrovertibilita’ propria del giudicato.

Di qui, dunque, ed a decorrere proprio dal 27.5.2014, la misura amministrativa applicata con il provvedimento oggi impugnato, consistente nella perdita del grado ai sensi degli articoli 866, comma primo, e 867, comma terzo, del D.Lgs. n. 66 del 2010 (di seguito anche C.O.M.) nonche’ nell’iscrizione d’ufficio del ricorrente nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito Italiano senza alcun grado, ai sensi dell’art. 861 comma quarto del richiamato testo normativo, e nella definitiva cessazione del rapporto ex art. 923 C.O.M.

1.1. Il suddetto provvedimento, assunto nella forma del decreto ministeriale, ed adottato dal direttore della III divisione in ragione di espressa delega, rilasciata in base al disposto degli articoli 16 e 17 del D.Lgs. n. 165 del 2001, e’ stato attratto nel fuoco della contestazione attorea in ragione dei seguenti motivi di gravame:

1.a) incompetenza dell’organo che ha adottato l’atto non essendo, a dire del ricorrente, delegabili i poteri qui in rilievo in ragione del disposto di cui all’art. 867 comma 1 del c.o.m. che affida la relativa statuizione ad un “decreto ministeriale”.

La norma citata, in ragione del suo valore semantico, consentirebbe soltanto per gli appuntati ed i carabinieri che la rimozione dal grado venga assunta tramite “determinazione ministeriale”.

Secondo la prospettazione attorea, in considerazione del grado di Maresciallo rivestito dal ricorrente, l’adozione del provvedimento destitutorio, nelle forme del decreto ministeriale, avrebbe dovuto intendersi riservata al Direttore Generale PERSOMIL;

2) illegittimita’ costituzionale dell’art. 866 comma primo del c.o.m. nella parte in cui prevede l’automatica applicazione della misura della perdita del grado per contrasto con gli articoli 3, 97, 52 e 117 della Costituzione. Segnatamente, verrebbero in rilievo i seguiti profili di contrasto:

sub artt. 3 e 97 della Costituzione in quanto verrebbero trattate in modo uguale situazioni diseguali (chi ha subito condanna all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e chi ha subito quella temporanea) con conseguente violazione dei principi di imparzialita’ ed equita’ che costituiscono valori immanenti che trovano fondamento nell’art. 3 della cost. e nel principio di ragionevolezza;

sub art. 52 della Costituzione nella parte in cui prevede che l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della repubblica, con necessita’ di salvaguardare, dunque, anche in tale ambito, le garanzie difensive. L’ordinamento militare non sarebbe separato da quello militare con conseguente applicazione dei medesimi principi e delle medesime garanzie (C. Cost. n. 287 del 23.7.1987 – Corte costituzionale n. 126 del 29.4.1985 – Corte costituzionale 19.3.1993 n. 103) con la conseguenza che il cittadino – militare non puo’ essere privato del diritto alla valutazione, caso per caso, della congruita’ dei sacrifici a lui imposti in relazione alle finalita’ di interesse pubblico da perseguire;

sub art. 117 per violazione del principio di proporzionalita’ sanzionatoria, oggi consacrato anche nell’art. 5 della convenzione Europea del 26.5.1997 ratificata con L. n. 300 del 29 settembre 2000.

Peraltro, verrebbe compresso il principio di equita’ ex art. 41 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea codificato dal trattato di Lisbona.

Resiste in giudizio l’Amministrazione intimata che ha concluso per il rigetto del ricorso, anche in ragione del fatto che la Corte costituzionale, pronunciandosi su casi di analogo contenuto, avrebbe gia’ respinto, anche di recente, analoghe questioni di costituzionalita’.

Con ordinanza n. 965 del 14.5.2015 il Collegio, pronunciandosi sulla domanda cautelare spiegata dal ricorrente, ha fissato, ai sensi dell’art. 55 comma 10 del c.p.a., l’udienza di discussione per la trattazione di merito del ricorso in epigrafe.

All’odierna udienza il ricorso veniva trattenuto in decisione.

2. Il giudizio va sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale per lo scrutinio di costituzionalita’ degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 comma 1 del D.Lgs. n. 66 del 2010 .

Ed, invero, il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata, in relazione articoli 3, 97, 24, 4 e 35 della Costituzione , la questione di legittimita’ costituzionale, anzitutto, dell’art. 866 comma primo del c.o.m. nella parte in cui prevede che “La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’art. 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale”.

Parimenti il suddetto scrutinio s’impone anche rispetto alle ulteriori disposizioni sopra richiamate siccome alla prima strettamente collegate nell’ambito di un’unica complessa fattispecie normativa e, dunque, concorrenti a delineare, secondo una vincolante sequenza scandita da rigidi automatismi, il risultato di recidere il rapporto del militare con l’Amministrazione di appartenenza senza la mediazione costitutiva di un procedimento amministrativo che consenta di apprezzare, nel rispetto delle garanzie difensive, la congruita’ di siffatta misura punitiva in relazione alle finalita’ di interesse pubblico da perseguire.

Ed, invero, il sindacato in argomento s’impone rispetto anche alla previsione di cui al comma 3 dell’art. 867 del C.O.M. nella parte in cui prevede (in riferimento alle casistica cui va ricondotta la fattispecie qui in esame) che “Se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza”.

Allo stesso modo, va attratto nel fuoco del medesimo sindacato l’art. 923 del C.O.M., rubricato “Cause che determinano la cessazione del rapporto di impiego” ed inserito nella sezione V riferita alla “Cessazione dal servizio permanente”, nella parte in cui, al comma I, annovera tra le cause suddette anche la perdita del grado (lettera i) ancorche’ pronunciata in assenza di un previo procedimento amministrativo.

3. Sotto il profilo della rilevanza, vale premettere che, a giudizio del Collegio, non hanno pregio le osservazioni censoree articolate dal ricorrente ed incentrate sulla pretesa incompetenza dell’organo che ha adottato l’atto impugnato.

Nel costrutto giuridico attoreo non sarebbero delegabili i poteri qui in rilievo in ragione del disposto di cui all’art. 867 comma 1 del c.o.m. che affida la relativa statuizione ad un “decreto ministeriale”, consentendo soltanto per gli appuntati ed i carabinieri che la rimozione dal grado venga assunta tramite “determinazione ministeriale”.

Di talche’, in considerazione del grado di Maresciallo rivestito dal ricorrente, l’adozione del provvedimento destitutorio, nelle forme del decreto ministeriale, avrebbe dovuto intendersi riservato al Direttore Generale PERSOMIL.

3.1. Vale, anzitutto, premettere, in ossequio ad autorevole giurisprudenza (cfr. CdS n. 2480 del 14.5.2014), che la competenza, anche in subiecta materia, si radica in capo all’organo burocratico apicale dell’Amministrazione della difesa.

La mera previsione legislativa sulla necessita’ di un decreto ministeriale, come nel caso in esame dove e’ l’art. 867 del codice dell’ordinamento militare a disporre che i provvedimenti di perdita del grado siano assunti in tal modo, non e’, infatti, da sola in grado di radicarne la competenza in capo alla persona del Ministro, atteso che, come esito del riparto di attribuzioni tra organi di direzione politica e organi di gestione amministrativa (come si evince dai contenuti del D.Lgs. n. 29 del 1993 , dalla L. n. 59 del 1997 , dalla L. n. 127 del 1997 , dalla L. n. 191 del 1998 e, infine, dal D.Lgs. n. 165 del 2001 ), e’ unicamente il contenuto dell’atto da emanare a determinare il livello di competenza necessario per la sua adozione.

Si e’, infatti, evidenziato che il Ministro della difesa nell’economia complessiva della disciplina normativa compendiata nel codice dell’ordinamento militare e’ assegnatario di una sua attribuzione propria, rinvenibile nei casi in cui puo’ ordinare direttamente l’inchiesta formale oppure discostarsi dalle risultanze della commissione di disciplina (articoli 1378 e 1389 dello stesso codice dell’ordinamento militare). Ne discende che, nelle altre fattispecie, riprendendo vigore il principio generale e ordinario di riparto tra politica e amministrazione, e’ compito del dirigente preposto alla struttura burocratica l’emanazione dell’atto conclusivo del procedimento per cui e’ responsabile.

Di poi, occorre soggiungere che non puo’ essere revocata in dubbio, contrariamente a quanto dedotto, la piena legittimazione a provvedere del Direttore della 3^ Divisione, cui mettono capo le “attivita’ connesse con i procedimenti penali e disciplinari a carico del personale militare” (cfr., sul punto, il D.M. del 16 gennaio 2013, in atti).

Tanto in ragione della delega conferita dal direttore generale per il personale militare, in qualita’ di dirigente generale, con decreto dirigenziale del 24.6.2014 (art. 8), richiamato nel preambolo dell’atto gravato ed allegato alla produzione difensiva dell’Amministrazione resistente.

Il suindicato provvedimento si dispiega, invero, in perfetta coerenza con i principi mutuabili dal D.Lgs. n. 165 del 2001 – sul punto non derogati dal codice dell’ordinamento militare – e da ritenersi pienamente applicabili in subiecta materia per le ragioni di seguito esposte.

Non ignora il Collegio che, a mente del comma 1 dell’art. 3), del D.Lgs. n. 165 del 2001 , il regime giuridico del rapporto di lavoro di talune categorie di pubblici dipendenti (tra cui quella cui appartiene il ricorrente) e’ stato sottratto al processo cd. di privatizzazione; cio’ nondimeno siffatta deroga, circoscritta giustappunto al (solo) regime del rapporto di impiego, non esclude la precettivita’ anche in siffatti ambiti ordinamentali dei principi generali ed organizzativi che, trascendendo il singolo rapporto di lavoro, involgono l’assetto piu’ prettamente organizzativo di qualsivoglia pubblico ufficio, quali ad esempio il principio di separazione tra l’attivita’ di indirizzo politico amministrativo e quella di gestione, ovvero la trama dei principi generali che definiscono le attribuzioni dirigenziali e le relative modalita’ di ripartizione, fatte salve le specifiche deroghe espressamente previste.

Il suddetto approdo ermeneutico trova, d’altro canto, indiretta conferma nella previsione di apposite disposizioni derogatorie espressamente introdotte nel corpo dei singoli articoli del D.Lgs. n. 165 del 2001 che altrimenti non avrebbero senso ove dovesse valere anche in siffatti ambiti la generale clausola di riserva di cui al mentovato comma 1 dell’art. 3).

Vengono ad esempio in rilievo il disposto di cui all’ art. 15 comma 1 del D.Lgs. n. 165 del 2001 che, in tema di articolazione della dirigenza nelle due fasce dei ruoli di cui all’art. 23, fa espressamente salve le particolari disposizioni concernenti le carriere diplomatica e prefettizia e le carriere delle Forze di polizia e delle Forze armate ovvero l’art. 19 comma 12 del medesimo testo normativo in tema di conferimento degli incarichi dirigenziali.

Deve dunque sostenersi che, anche nel settore pubblicistico qui in rilievo, resti applicabile il disposto di cui all’art. 16 comma 1) la cui disciplina e’, d’altro canto, riferita a tutti gli uffici dirigenziali generali “comunque denominati”. Le norme citate prevedono espressamente che i dirigenti generali “adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi (…) rientranti nella competenza dei propri uffici, salvo quelli delegati ai dirigenti” (art. 16 comma 1 lettera d) e, in maniera corrispondente, che i dirigenti “svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali” (art. 17 comma 1 lettera c) (cfr. in tal senso Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, n. 02732 del 21/05/2013; Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Seconda n. 7556 del 24/07/2013; cfr. tribunale amministrativo regionale Napoli, VI Sezione, 25 gennaio 2011 n. 415).

4. Ribadita, dunque, la legittimita’ formale dell’atto impugnato siccome emesso da organo all’uopo legittimato alla stregua del corrispondente ordinamento di settore, non residua dubbio alcuno sulla rilevanza della questione di costituzionalita’.

E’, invero, noto che il precetto di cui all’art. 866 del c.o.m.), in combinato disposto con le altre sopra richiamate previsioni del medesimo codice, vale a dire l’art. 867 comma 3 e l’art. 923, introduca una fattispecie di automatica e obbligatoria cessazione del rapporto i cui effetti definitivamente interdittivi sono legati, sotto il profilo genetico, da un rapporto vincolato ed automatico con gli sviluppi del processo penale (id est condanna), senza che sul loro maturare possano in alcun modo interferire valutazioni discrezionali dell’Amministrazione di appartenenza nell’ambito (come avviene di norma) di un apposito procedimento amministrativo, da ritenersi viceversa indispensabile siccome forma indefettibile della funzione amministrativa.

In altri termini, il provvedimento impugnato si pone come misura rigorosamente attuativa di norme vincolanti che rendono la statuizione amministrativa atto dovuto ed a contenuto vincolato.

Ed, invero, a tal riguardo, si rivela eloquente la piana lettura dell’art. 866 del C.O.M. a mente del quale:

1. La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’art. 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale.

2. I casi in base ai quali la condanna penale comporti l’applicazione della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici sono contemplati, rispettivamente, dalla legge penale militare e dalla legge penale comune.

Circa i meccanismi operativi che governano l’applicazione di siffatta misura significativa e’ la previsione di cui al comma 3 dell’art. 867 del C.O.M. nella parte in cui prevede (in riferimento alle casistica cui va ricondotta la fattispecie qui in esame) che Se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza.

Quanto agli effetti, e’ utile, anzitutto, richiamare il disposto dell’art. 861 del C.O.M., comma IV, secondo cui per gli appartenenti ai ruoli dell’Arma dei carabinieri, la perdita del grado, se non consegue all’iscrizione in altro ruolo, comporta l’iscrizione d’ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito italiano, senza alcun grado.

Occorre, infine, considerare che il disposto dell’art. 923 del C.O.M., rubricato “Cause che determinano la cessazione del rapporto di impiego” ed inserito nella sezione V riferita alla “Cessazione dal servizio permanente”, annovera tra le cause suddette anche la perdita del grado (lettera i) e prevede, al comma 3, che il provvedimento di cessazione dal servizio sia adottato con decreto ministeriale, ma anche, al comma 5, che il militare cessi dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi si verifichi una delle cause di cessazione, tra cui, appunto, la perdita di grado.

E’, dunque, di tutta evidenza come, a seguito e per effetto della definitivita’ della condanna del ricorrente alla pena (non sospesa, si badi bene, su richiesta dello stesso imputato e non perche’ non ne ricorressero i presupposti applicativi) della interdizione dai pubblici uffici per la durata di mesi 2 e gg 20 di reclusione, l’Amministrazione – senza la mediazione costitutiva di una propria autonoma determinazione – e’ stata tenuta ad adottare il provvedimento qui impugnato recante la misura della perdita del grado, cui ha fatto seguito, sempre ope legis, la cessazione del servizio permanente nell’arma dei carabinieri e del relativo rapporto di impiego, e la conseguente iscrizione nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito italiano, senza alcun grado.

E d’altro canto, attraverso una piana lettura delle argomentazioni compendiate nello stesso preambolo del decreto ministeriale, si coglie, con immediatezza, il senso dell’ineluttabilita’ che regge la spedizione della misura in argomento.

Inoltre, la stessa amministrazione convenuta ha sostanzialmente confermato, riproponendola nella propria memoria difensiva, la suddetta ricostruzione rimarcando giustappunto anche gli effetti automaticamente espulsivi, sopra evidenziati, rinvenienti dal citato art. 923.

In ragione di quanto fin qui evidenziato – e non residuando ulteriori motivi di doglianza – si rivela dunque dirimente, ai fini dello scrutinio della domanda attorea, il vaglio di costituzionalita’ della disciplina sopra richiamata, atteso che solo caducazione della suddetta normativa consentirebbe a questo Giudice di annullare il provvedimento impugnato.

5. Quanto al profilo della non manifesta infondatezza, il Collegio non ignora che, proprio di recente, la norma de qua (id est art. 866 C.O.M.) abbia superato il vaglio della Corte costituzionale (cfr. sentenza 18 – 20 novembre 2013, n. 276).

Pur tuttavia, mette conto evidenziare che la richiamata pronuncia, con cui il Giudice delle leggi ha dichiarato inammissibile, per insufficiente determinazione dei termini del giudizio e carenza di motivazione, un’analoga questione di legittimita’ costituzionale sollevata dal tribunale amministrativo regionale Lazio, esaurisce i suoi effetti su un piano meramente formale che involge la sola attitudine strutturale della singola ordinanza di rimessione emessa dal giudice a quo ad incardinare ritualmente il giudizio di costituzionalita’.

Nella specie, il Giudice delle leggi ha evidenziato che l’ordinanza del giudice capitolino non conteneva alcuni elementi essenziali per effettuare la comparazione tra la disposizione impugnata e il principio generale applicabile al pubblico impiego (ricavabile dall’ art. 9 della L. n. 19 del 1990), richiamato come tertium comparationis.

Il giudice a quo, inoltre, avrebbe solo genericamente richiamato l’orientamento sfavorevole della Corte costituzionale a quelle disposizioni che comportano l’automatica cessazione del rapporto di pubblico impiego a seguito di condanna penale, senza tener conto della recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, caratterizzata da una maggiore severita’.

Privo di motivazione, infine, sarebbe rimasto anche il richiamo – pur formalmente contenuto nell’ordinanza di remissione – ai parametri di cui agli articoli 4 e 35, Cost.

5.1. Ed e’ proprio nel solco delle coordinate tracciate dalla Corte che il Collegio ritiene indispensabile un nuovo scrutinio di costituzionalita’ esteso, questa volta, alle aberranti conseguenze cui condurrebbero la predicata rigidita’ delle norme suindicate e l’incondizionata automaticita’ della misura da esse prevista in presenza del solo dato formale di una condanna penale non sospesa alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e senza che assuma rilievo alcuno la vicenda sottostante la cui puntuale disamina – avuto riguardo al caso di specie – verrebbe, invece, a svuotare di contenuto la sua effettiva ragion d’essere.

Nel relativo percorso argomentativo il Collegio e’ agevolato dalla gia’ intervenuta riproposizione, proprio di recente, del medesimo incidente di costituzionalita’ ad opera del tribunale amministrativo regionale Lombardia (cfr. sentenza non definitiva 01476/2015 del 26.6.2015), del cui ampio impianto motivazionale si e’ tenuto conto nel confezionare il presente provvedimento.

6. Tanto premesso ritiene il Collegio che le norme suindicate contrastino, anzitutto, con l’art. 3 della Costituzione a cagione della patente irragionevolezza del complessivo regime giuridico delineato dal legislatore, come sopra ricostruito.

Com’e’ noto, l’esercizio della discrezionalita’ legislativa incontra i limiti invalicabili segnati dai precetti costituzionali e, per essere in armonia con l’art. 3 Cost., occorre che sia conforme a criteri di intrinseca ragionevolezza.

Di contro, e come di seguito meglio evidenziato, l’impianto normativo qui in discussione, per il fatto di riferirsi a fattispecie eterogenee tra le quali non sempre e’ possibile individuare un comune denominatore, si rivela manifestamente inadeguato a neutralizzare gli elementi di specificita’ desumibili dalle particolarita’ del singolo fatto in addebito e dagli altri parametri, soggettivi ed oggettivi, che, viceversa, dovrebbero formare oggetto di una ponderata valutazione dell’Amministrazione onde consentirle di poter apprezzare, in concreto, l’effettiva sussistenza delle condizioni che giustificano, per esigenze di interesse pubblico, l’espulsione dal proprio ordinamento di settore di un militare condannato alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

D’altro canto, come evidenziato in prosieguo proprio muovendo da una disamina della fattispecie qui in rilievo, l’automatismo sanzionatorio previsto dalle norme censurate nemmeno potrebbe giustificarsi ritenendo che – nell’evenienze cui conduce l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici – esso si fondi, sempre e comunque, su una presunzione assoluta di piu’ accentuata riprovevolezza ovvero di particolari indegnita’ morali incompatibili con lo svolgimento di pubbliche funzioni.

E cio’ pone la disciplina in esame in rapporto di insanabile contrasto con il principio piu’ volte affermato dalla Corte costituzionale in virtu’ del quale “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe’ se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”, sussistendo l’irragionevolezza della presunzione assoluta “tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa” (cfr. ex multis sentenze n. 185 del 2015; n. 232 e n. 213 del 2013; n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010).

Ed e’ proprio, dunque, nel raffronto con i richiamati principi, espressione del cd. diritto costituzionale vivente, che le norme qui in rilievo si pongono in aperta e plateale distonia.

6.1. Si e’ gia’ sopra evidenziato attraverso la fedele rappresentazione del contenuto precettivo delle singole disposizioni normative qui evocate come di dubbia costituzionalita’ che la sequenza degli effetti delineata dal legislatore, per effetto del meccanismo di rinvio all’uopo congegnato ( articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del D.Lgs. n. 66 del 2010), sia dominata da un rigido automatismo che conduce in modo vincolante ad una misura espulsiva pronunciata dall’autorita’ amministrativa in assenza di qualsivoglia apprezzamento della sottostante vicenda nella naturale sede procedimentale.

A cagione della divisata rigidita’ del costrutto normativo di riferimento, l’Amministrazione intimata e’ stata, dunque, chiamata ad operare, con inusitata severita’, in un ambito rigidamente condizionato, quanto alle premesse, dalla pronuncia di una sentenza del giudice penale, senza pero’ poterne apprezzare nemmeno i relativi contenuti di accertamento.

Nelle evenienze sopra descritte l’Amministrazione non puo’, infatti, che riferirsi al dato formale della sola esistenza del suddetto provvedimento giurisdizionale di condanna recante l’applicazione della interdizione, ancorche’ temporanea, dai pubblici uffici.

A ben vedere, non solo resta preclusa all’Amministrazione la possibilita’ di un autonomo apprezzamento dei fatti sottesi a siffatta pronuncia, ma assume una valenza neutra, ai fini in questione, lo stesso contenuto di accertamento in cui si compendia il decisum di riferimento, essendo irrilevante, nell’economia del giudizio di cui all’art. 866 del C.O.M., qualsivoglia aspetto della vicenda penale per come ricostruita dallo stesso giudice penale.

6.2. Un tale approdo non puo’ essere ritenuto compatibile con la disciplina costituzionale e la premessa da cui occorre prendere abbrivio inevitabilmente e’ data dai principi ripetutamente affermati dalla Corte costituzionale nello scrutinio di costituzionalita’ delle norme che hanno statuito l’incompatibilita’ costituzionale della sanzione della destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare.

E’ ben chiaro al Collegio il diverso ambito in cui ci si muove in questa sede (mediazione costitutiva nel processo destitutorio congegnato dal legislatore della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici); cio’ nondimeno il doveroso sforzo ermeneutico di cui si e’ fatto carico la Sezione e’ quello di verificare la concreta sussistenza di effettivi profili di sostanziale disomogenita’ nelle situazioni in raffronto (quella qui in rilievo e quella della destituzione automatica dal servizio) si’ da appurare la tenuta costituzionale di una cosi’ radicale diversita’ di trattamento.

Orbene, nella concreta declinazione applicativa dei principi regolatori su cui riposa la Carta costituzionale (e segnatamente dell’art. 3 cost. ) si e’, infatti, sovente affermato che, nel campo della potesta’ disciplinare, come nell’area punitiva penale, sussiste l’esigenza della esclusione di sanzioni rigide, cioe’ della “adozione di criteri normativi idonei alla commisurazione delle misure sanzionatorie conseguenti alla irrevocabile condanna penale”, e cio’ “quale esigenza – ex art. 3 della Costituzione – di adeguatezza tra illecito e irroganda sanzione (C. Cost. sentenza n. 270 del 1986).

Tale affermazione ha poi condotto ai postulati su cui riposa la celeberrima sentenza n. 971 del 1988 che porto’ alla dichiarazione di illegittimita’ costituzionale dell’ art. 85, lett.a), del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 – nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare – a mente dei quali “l’indispensabile gradualita’ sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa … che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 della Costituzione”.

Tali principi sono stati poi ribaditi in ulteriori pronunce (sentt. nn. 40 e 158 del 1990, 16, 104 del 1991, 197 del 1993, 363 del 1996), nelle quali si e’ ulteriormente evidenziato che il profilo essenziale di contrasto con l’art. 3 della Costituzione consisteva nell’automatismo della massima sanzione disciplinare, prevista, senza alcuna distinzione, per una molteplicita’ di possibili comportamenti.

In seguito, l’ art. 9 della L. 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) – peraltro successivamente conformato dalla L. 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti dell’amministrazioni pubbliche), e dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della L. 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttivita’ del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) – ha espunto dall’ordinamento la destituzione di diritto del pubblico dipendente a seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione.

Dal coacervo dei principi mutuabili dalla ricca e viva giurisprudenza costituzionale sopra richiamata e’ possibile far discendere i seguenti corollari che, viepiu’ in subiecta materia, fissano i limiti interni del canone di ragionevolezza di una norma:

disfavore per sanzioni rigide che potenzialmente impediscono, in apice, di apprezzare, nella sede naturale del procedimento amministrativo, la necessaria adeguatezza tra illecito ed irroganda sanzione;

i meccanismi sottesi ad ogni forma di astratto automatismo rischiano di uniformare nel trattamento sanzionatorio comportamenti dissimibili con conseguente violazione del principio di proporzionalita’ della sanzione, precipitato tecnico della razionalita’ che domina il principio di uguaglianza.

6.3. Tanto premesso, a giudizio del Collegio, non ricorrono ostacoli di ordine strutturale e funzionale per estendere i medesimi principi sopra richiamati alle disposizioni in commento nella parte in cui, in riferimento ai casi di applicazione della pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, delineano il medesimo meccanismo operativo siccome segnato da un rigido automatismo cui si riconnette il travaso in ambito amministrativo di effetti espulsivi direttamente discendenti da sanzioni penali.

L’elemento di pretesa specialita’ nella fattispecie qui in rilievo dovrebbe consistere nel fatto che tale effetto espulsivo trae alimento dall’applicazione di una pena accessoria di tipo interdittivo (ancorche’ temporaneo).

Orbene, e’ necessario fin d’ora premettere che non sussiste un rapporto di ontologica alterita’ tra la pena principale e quella accessoria, ravvisandosi piuttosto una situazione di omologia tra le suddette sanzioni.

La stessa Corte costituzionale ha evidenziato che la pena accessoria, anche a prescindere dalla denominazione normativa, e’ vera e propria pena criminale, anche se a carattere interdittivo e come tale considerata dai lavori preparatori (V, 1, p. 64): non esiste, pertanto, altro criterio di distinzione della pena accessoria dalla pena principale se non appunto quello della sua astratta “complementarita’” (cfr. Corte costituzionale n. 490 del 1989).

La chiara percezione dell’esatto rapporto tra le due sanzioni, pena principale e pena accessoria, cosi’ come una serena disamina dei rapporti di implicazione che si pongono tra la pena accessoria di interdizione temporanea e il rapporto di impiego, dovrebbero indurre a ridimensionare la pretesa differenza delle situazioni di partenza ed a riconoscere, piuttosto, la sostanziale identita’ delle problematiche evocate dalla previsione in ambito amministrativo di effetti destitutori quali automatiche conseguenze di una pronuncia di condanna da parte del giudice penale.

E infatti – come si cerchera’ in seguito di dimostrare – l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, quantomeno nelle ipotesi com’e’ quella qui in rilievo, in cui riflette una durata particolarmente contenuta, non evoca di per se stessa, e con la automaticita’ imposta dal legislatore, impedimenti di ordine strutturale e funzionale alla prosecuzione del rapporto di impiego.

6.4. Cio’ nondimeno, l’opzione ermeneutica suggerita dal Collegio va doverosamente verificata passando in rassegna l’orientamento di segno contrario fin qui espresso (sulla questione della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita’ in argomento) dalla giurisprudenza amministrativa e di legittimita’.

A tal riguardo, occorre anzitutto premettere che secondo autorevole giurisprudenza la misura de qua (perdita del grado ed effetti consequenziali) non rappresenta un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensi’ un effetto indiretto di natura amministrativa, giustificato dalla “fisiologica impossibilita’ di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell’irrogazione di una sanzione di carattere interdittivo”.

In questo quadro, l’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e’ presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui e’ ricollegato l’effetto ex lege della perdita del grado e della cessazione dal servizio (cfr. CdS, Sezione VI, n. 389 del 27/01/2014).

Occorre poi soggiungere che, muovendo da tale assunto, il principio del divieto di automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale (v. soprattutto Corte costituzionale 971/1988 e L. n. 19 del 1990) e’ stato ritenuto non applicabile nell’ipotesi di pene accessorie.

In tal senso si e’ ripetutamente espressa la giurisprudenza amministrativa affermando che l’applicabilita’ della disciplina di cui alla L. n. 19 del 1990, articoli 9 e 10 – che prevedono il previo procedimento disciplinare in ogni caso, escludendo l’applicabilita’ di sanzioni espulsive dal pubblico impiego in via automatica – non e’ possibile nei casi in cui la perdita dell’impiego consegua come effetto automatico di una sanzione penale accessoria (v. fra le altre Cons. Stato sez. 4 13-2-1995 n. 81, Cons. Stato sez. 5 23-4-1998 n. 468, Cons. Stato sez. 6 28-9-2001 n. 5163, Cons. Stato, Cons. Stato sez. 4 9-12-2002 n. 6669, Cons. Stato sez. 5 21-6-2007 n. 3324; Consiglio di Stato, VI Sezione, 27 gennaio 2014 n. 389, Sez. IV nn. 2480 del 14.5.2014; Consiglio di Stato, sez. IV, 30 giugno 2010 n. 4166; Lazio, Sezione Prima Bis, n. 2469 dell’11/02/2015, n. 5754 del 20/04/2015).

Si e’, infatti, ritenuto che l’ art. 9 della L. n. 19 del 1990 non ha abrogato ogni disposizione di legge contrastante con il divieto dell’automatica destituzione, ed il suo ambito di operativita’ deve essere ristretto alla sola destituzione di diritto per effetto della mera condanna penale.

Per la giurisprudenza amministrativa non e’, infatti, possibile omologare le diverse situazioni qui in discorso, ponendo in ombra la chiara distinzione fra la destituzione automatica quale sanzione disciplinare e la destituzione automatica quale conseguenza di una pena accessoria (cosi’ da ultimo Consiglio di Stato Sezione Quarta n. 2480 del 14/05/2014).

Anche l’orientamento della Suprema Corte e’ allineato ai suddetti postulati avendo il giudice di legittimita’ piu’ volte affermato che “la L. n. 19 del 1990, art. 9 ai sensi del quale il pubblico dipendente non puo’ essere destituito di diritto a seguito di condanna penale, deve intendersi riferito alla destituzione adottata quale conseguenza disciplinare della condanna, che necessita, in ogni caso l’esperimento del procedimento previsto per l’adozione di sanzioni di carattere disciplinare, e non anche a quella conseguente all’applicazione di misure accessorie di carattere interdittivo, rispetto alle quali la cessazione del rapporto costituisce solo un effetto indiretto, per la fisiologica impossibilita’ di prosecuzione del rapporto (cfr. sentenza del 9-7-2009 n. 16153; Cassazione civile sez. lav. n. 3698 del 17/02/2010).

Occorre, infine, soggiungere che della distinzione sopra richiamata tra le fattispecie in raffronto vi e’, infine, traccia pure nella giurisprudenza costituzionale (cfr. Corte costituzionale n. 197 del 1993; ordinanze n. 201 e n. 137 del 1994, n. 363 del 1996; n. 383 del 1997; 286 del 1999; n. 276 del 2013).

Cio’ nondimeno, una piana lettura delle richiamate pronunce del Giudice delle leggi sembra indurre a ritenere che finora gli effetti dello scrutinio svolto dalla Consulta si esauriscano nella sola esatta perimetrazione dell’ambito di diretto riferimento dei principi affermati nella nota sentenza n. 971/1988, poi recepiti nella L. n. 19 del 1990 , indubbiamente non pronunciati con specifico riguardo alle pene accessorie.

In altri termini, assodato che l’affermato principio del divieto di automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale risulta espressamente pronunciato in riferimento esclusivo al solo piano dei rapporti tra procedimento penale e sanzioni disciplinari non e’ dato rinvenire nelle richiamate pronunce una diretta ed esaustiva indagine sui medesimi meccanismi distorsivi cui possono condurre fattispecie normative, come quelle qui in rilievo, rispetto alle quali l’effetto espulsivo dipenda dall’applicazione di una pena accessoria interdittiva temporanea emessa in relazione ad un fatto lieve e per una durata obiettivamente contenuta.

Ed, infatti, in nessuna delle pronunce suindicate la Corte ha approfondito ex professo i rapporti di implicazione delle sanzioni amministrative destitutorie (ovvero degli effetti amministrativi destitutori) rispetto alle pene accessorie di tipo interdittivo temporaneo pronunciate in sede penale.

La Consulta ha, infatti, fin qui evidenziato come non possano essere estese a tale ambito, e con la pretesa automaticita’, i principi di cui alla sentenza 971/1988, ma non ha direttamente e recisamente escluso, per effetto di un’approfondita disamina del corrispondente ambito ordinamentale, la replicabilita’ dei medesimi principi anche rispetto a fattispecie, quale quella qui in rilievo, dove l’effetto destitutorio e’ solo mediato da una pena accessoria di tipo interdittivo ad effetto temporaneo, peraltro particolarmente contenuto nella sua durata e riferito ad una vicenda giudicata, nello stesso ambito penale, di non particolare gravita’.

Ed, infatti, se la soluzione puo’ ritenersi agevole nel caso in cui alla condanna in sede penale consegua l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (disciplinata dall’art. 622 del C.O.M.), tanto non puo’ dirsi nei casi in cui la misura interdittiva sia solo temporanea ed oltretutto pronunciata (come di seguito meglio evidenziato) rispetto a fatti non espressivi di un significativo disvalore sociale.

Con la sentenza n. 286 del 1999 la Corte ha efficacemente giustificato l’effetto destitutorio in commento evidenziando come la risoluzione del rapporto d’impiego costituiva, nello specifico caso esaminato, soltanto un effetto indiretto della pena accessoria comminata in perpetuo.

Al di fuori, pero’, del perimetro operativo di misure, quale quella dell’interdizione perpetua dai pubblici, che generano un impedimento strutturale alla prosecuzione del rapporto, non sembra possa ritenersi predicabile – per mancanza di omogeneita’ dei presupposti – un’estensione dei medesimi effetti anche ai casi, obiettivamente diversi, in cui la misura interdittiva sia solo temporanea.

Peraltro, nemmeno puo’ essere sottaciuto che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 363 del 1996, ebbe gia’ a dichiarare l’incostituzionalita’ dell’ art. 12 della L. 18 ottobre 1961, n. 1168, lettera f), e dell’art. 34, n. 7, della L. 18 ottobre 1961, n. 1168 (Norme sullo stato giuridico dei vice-brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei Carabinieri), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della rimozione, misura accessoria interdittiva a carattere permanente.

Ed, infatti, nella richiamata pronuncia la Corte si e’ diffusa ad esaminare proprio la rigida e consequenziale scansione degli effetti che, in via automatica, conseguivano, alla stregua del richiamato combinato disposto, ad una pronuncia di condanna in sede penale.

Orbene, nella pronuncia citata e’ proprio il rigido automatismo sotteso alla sequenza degli effetti giuridici sullo status del militare, ancorche’ mediato dall’applicazione di pene accessorie (in quel caso della rimozione), che e’ stato fatto oggetto di censura per violazione dell’art. 3 della Costituzione, con riguardo, innanzitutto, al canone della razionalita’ normativa (sent. n. 971 del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenza n. 415 del 1991, sentenza n. 104 del 1991, sentenza n. 134 del 1992, sentenza n. 126 del 1995).

E’ pur vero che con la medesima pronuncia la Corte, nel dichiarare infondata la censura mossa all’art. 33 del codice penale militare di pace , ebbe a ribadire che “la nuova disciplina sulla destituzione dei pubblici dipendenti, di cui all’ art. 9 della L. n. 19 del 1990, e’ estranea all’applicazione delle pene accessorie, anche di carattere interdittivo (ord. n. 201 del 1994 e ordinanza n. 137 del 1994, e sentenza n. 197 del 1993, di cui v., in particolare, il n. 4 del Considerato in diritto)” cio’ nondimeno non e’ evidentemente possibile inferire da tale assunto, e con la pretesa automaticita’, che ogni misura (amministrativa) espulsiva rinveniente dall’applicazione di una pena accessoria (viepiu’ se di interdizione temporanea) sia per definizione, sempre e comunque, compatibile con i principi costituzionali sopra passati in rassegna e che governano l’ordinamento di settore.

Deve, piuttosto, ritenersi che la pronuncia della Corte, in parte qua, esaurisca i suoi effetti – come sopra gia’ anticipato – nell’evidenziare come nel fuoco dello specifico giudizio di incostituzionalita’ in quella sede svolto sia caduto, non gia’ sull’applicazione delle pene accessorie (cosi’ come, nelle altre fattispecie, non cadeva sulla pena principale comminata dal giudice penale), bensi’ sugli effetti amministrativi concernenti lo status del militare, vale a dire sul quel coacervo di disposizioni che fungono da raccordo tra statuizioni pronunciate dal giudice penale (pena principale e/o pene accessorie) e conseguenti misure espulsive applicate in ambito amministrativo, censurandosi ogni rigido automatismo.

Un diverso approdo ermeneutico troverebbe una recisa smentita proprio nella prima parte della pronuncia in commento che si riferisce giustappunto al caso di misure espulsive che traggono diretto ed esclusivo alimento proprio dall’applicazione al condannato di pene accessorie secondo lo schema effettuale sopra ricostruito (condanna penale, rimozione, perdita del grado, cessazione dal servizio).

E’ stato, a tal riguardo, efficacemente evidenziato (cfr. tribunale amministrativo regionale Lombardia sentenza non definitiva n. 01476/2015 del 26.6.2015) che l’unica differenza rispetto alla questione all’epoca sottoposta a codesta Corte consista nella circostanza che la pena accessoria che aveva dato luogo alla perdita del grado fosse quella della rimozione e non dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Il Collegio – condividendo sul punto le lucide argomentazioni compendiate nel richiamato provvedimento di remissione alla Corte della questione di costituzionalita’ – non ritiene peraltro di ravvisare una differenza di rilievo tra le due ipotesi (rimozione e interdizione temporanea dai pubblici uffici), tale cioe’ da giustificare una diversa applicabilita’ dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996.

Si tratta, infatti, in entrambe le ipotesi, di sanzioni penali (di cui una accessoria alla condanna per un reato militare, l’altra accessoria alla condanna per un reato comune) che comportano la perdita del grado e la conseguente cessazione dal rapporto di impiego, ai sensi dell’ art. 923 del D.Lgs. n. 66 del 2010 (norma che riproduce, di fatto, l’art. 34, numero 7 della L. n. 1168 del 1961 , gia’ dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 363 sopra citata).

Comune e’ anche il presupposto generale applicativo, ovvero una condanna in via definitiva alla reclusione (comune o militare) per durata non inferiore a tre anni (nel caso in esame di durata pari ad appena due mesi e 20 gg. poi convertita nella sola pena pecuniaria).

Peraltro, la sanzione penale accessoria della rimozione e’ perpetua, mentre l’interdizione temporanea e’, per definizione, non definitiva (nella specie di durata pari a due mesi e 20 gg.).

In entrambi i casi, ha efficacemente argomentato il tribunale amministrativo regionale Lombardia, la sanzione della destituzione di diritto (dovendosi considerare tale ogni mutamento dello status del lavoratore implicante la fine traumatica del suo rapporto di impiego), comminata in ossequio all’automatismo applicativo della legge di cui e’ posta in dubbio la costituzionalita’, colpisce, senza alcuna distinzione, la molteplicita’ dei comportamenti possibili nell’area dello stesso illecito penale, con offesa del “principio di proporzione”, che e’ alla base della razionalita’ che domina “il principio di eguaglianza”, e che postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto.

Adeguatezza che non puo’ essere raggiunta se non attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito amministrativo, che soltanto il procedimento disciplinare consente.

7. In definitiva ritiene il Collegio che una piana lettura della giurisprudenza formatasi in subiecta materia non offra una spiegazione plausibile della preferenza accordata all’opzione esegetica incline ad escludere i prospettati dubbi di costituzionalita’ della normativa qui in rilievo ed a preservare, in ogni caso, l’intangibilita’ degli effetti espulsivi rinvenienti dall’applicazione di pene accessorie interdittive, ancorche’ di durata temporanea.

Manca, invero, nei richiamati decisa la chiara esplicitazione delle specifiche ragioni che, in considerazione della presunta specialita’ degli effetti rinvenienti da pene accessorie di interdizione temporanea, consentirebbero di rendere giustificato e dovuto quello stesso effetto destitutorio che, viceversa, non e’ consentito dall’ordinamento ove consegua direttamente alla condanna alla pena principale.

7.1. Ed, invero, lo stesso generico riferimento alla “fisiologica impossibilita’ di prosecuzione del rapporto”, sovente ribadita nelle suddette pronunce, sembra evocare l’impedimento oggettivo proprio delle misure interdittive ad effetto permanente (come ad esempio l’interdizione perpetua dai pubblici uffici), laddove, nel caso di misure ad effetto solo temporaneo (id est interdizione temporanea dai pubblici uffici), non sembra appropriato riproporre la teoria dell’impedimento strutturale permanente, venendo in rilievo un’impossibilita’ solo temporanea di dare esecuzione al rapporto di lavoro, destinato dunque a riespandersi al cessare dello stato di quiescenza indotto dalla esecuzione della pena accessoria.

E’ evidente come – non sussistendo in siffatte evenienze un ostacolo di ordine strutturale che renda di per se’ stesso impossibile la continuazione del rapporto di lavoro – si affievolisca, rispetto alle misure interdittive temporanee, anche la perentorieta’ della premessa dogmatica da cui muovono i richiamati decisa inclini a riconoscere ad ogni misura accessoria interdittiva, sempre e comunque, ed indipendentemente dal relativo regime temporale (misura perpetua ovvero misura temporanea), la natura di un mero “effetto indiretto di natura amministrativa, giustificato dalla fisiologica impossibilita’ di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell’irrogazione di una sanzione di carattere interdittivo”.

Lo scollamento, viceversa, che si pone tra l’applicazione di una misura interdittiva di natura temporanea e le concrete possibilita’ (dopo un periodo di sospensione del rapporto dovuta all’esecuzione della suddetta misura) di una ripresa del rapporto sembrano piuttosto lasciar propendere per una qualificazione dell’effetto destitutorio in termini di vera e propria sanzione aggiuntiva, non ponendosi esso come una soluzione necessitata dall’applicazione della pena accessoria siccome destinato a proiettare i suoi effettui ben oltre la naturale scadenza di quest’ultima.

7.2. Ne’ sembra che, in presenza della pena accessoria interdittiva qui in rilievo, la cessazione del rapporto possa giustificarsi sotto diverso profilo, ad esempio nel venir meno dell’interesse del datore di lavoro alla prestazione (in una lettura civilistica del rapporto qui nemmeno evocata) ovvero in ragione di una particolare forma di indegnita’ morale allo svolgimento di pubbliche funzioni che impedirebbe, in apice, la continuazione della collaborazione professionale.

E’, infatti, evidente, quanto a tale ultima opzione, che la tenuta costituzionale di una tale lettura normativa resterebbe subordinata all’implicita premessa che le sanzioni irrogate in ambito penale (principale ed accessorie) siano effettiva espressione di un chiaro e significativo disvalore sociale, evenienza da escludersi nel caso in esame per le ragioni di seguito esposte.

A tal riguardo, mette conto evidenziare che, a mente dell’art. 31 del codice penale (ed in disparte le ipotesi generali di cui all’art. 29 del c.p. , qui non in rilievo), ogni condanna per delitti commessi con l’abuso dei poteri tra cui anche per il delitto di cui all’art. 323 c.p. , o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione, o ad un pubblico servizio, o a taluno degli uffici indicati nel n. 3 dell’art. 28, ovvero con l’abuso di una professione, arte, industria, o di un commercio o mestiere, o con la violazione dei doveri a essi inerenti, importa l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dalla professione, arte, industria o dal commercio o mestiere.

Occorre, altresi’, tener presente che nell’originario tessuto normativo del codice penale risulta, poi, introdotto (dall’art. 5, 2 comma, legge 27.3.2001, n. 97) l’art. 32-quinquies, rubricato “casi nei quali alla condanna consegue l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego”, a mente del quale “Salvo quanto previsto dagli articoli 29 e 31, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 importa altresi’ l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica”.

Da una lettura sistemica delle richiamate disposizioni si evince che l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica non consegue automaticamente all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici ma costituisce ex se una pena accessoria ex art. 19 comma 5-bis del codice penale e trova pero’ applicazione, a norma dell’art. 32-quinquies del c.p., nella sua attuale versione, esclusivamente in presenza di determinate (e piu’ gravi) fattispecie di reato (commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri d’ufficio o di servizio), vale a dire per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320, e sempreche’, in concreto, il giudice penale pronunci una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni.

In altri termini, in base alla disciplina comune, la recisione del rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione resta riservata, come sopra anticipato, a fattispecie di reato particolarmente gravi e sempreche’ la condanna comporti l’applicazione di una pena superiore ad una determinata soglia. Solo, dunque, in presenza della duplice condizione di un limite minimo di pena detentiva (due anni) e di un elenco tassativo di reati, e dunque di una ben definita soglia di gravita’ del fatto reato, condizioni non riscontrabili nella fattispecie in argomento, l’ordinamento ritiene non necessario, per i dipendenti civili dell’Amministrazione, lo svolgimento di un procedimento disciplinare per la cessazione del rapporto di lavoro.

Orbene, anche in ragione di quanto appena evidenziato, ritiene il Collegio che la divisata norma di raccordo (art. 866 c.o.m.), nel ricollegare tale effetto, e per i soli militari, a qualsivoglia condanna alla pena dell’interdizione temporanea dei pubblici uffici non sospesa, privi – in modo del tutto irragionevole – l’effetto espulsivo di un reale aggancio ad un oggettivo e tangibile collegamento con fatti ed azioni che esprimano in via immediata e diretta la mancanza dei necessari requisiti di moralita’ per lo svolgimento di pubbliche funzioni e/o servizi.

E cio’ in ragione dell’abnorme latitudine che in tal modo si assegna al campo delle possibili fattispecie di reato, non tutte necessariamente gravi, ricadenti nell’alveo di naturale applicazione dell’art. 31 codice penale (ovvero dell’art. 29 c.p., qui non in rilievo) e per cui puo’ intervenire l’applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

La chiara riprova di quanto appena asserito si ricava, d’altro canto, plasticamente da una serena disamina del caso concreto.

7.3. Ai fini di una piu’ agevole comprensione del problema non e’ superfluo rammentare che, nel caso in esame, la misura della perdita del grado e’ stata disposta in conseguenza di una sentenza di condanna pronunciata per un reato non contraddistinto da un particolare allarme sociale e, oltretutto, commesso da un soggetto incensurato di cui, nell’appropriata sede amministrativa, non e’ stato possibile in alcun modo approfondire il vissuto professionale.

Ed, invero, gia’ in primo grado il G.I.P. di Nola ha ritenuto, rispetto all’originaria imputazione, elevata per i reati di cui agli articoli 110, 323 c.p., di poter configurare l’ipotesi attenuata di cui all’art. 323-bis codice penale.

Inoltre, il Giudice d’appello, nel riformare la decisione di primo grado, ha ulteriormente rivisto al ribasso la gia’ contenuta pena inflitta in prime cure sostituendo la pena detentiva di mesi due e giorni 20 di reclusione con la corrispondente pena pecuniaria di Euro 3.040,00 di multa.

Tanto per la “…modestia del fatto e l’incensuratezza dell’appellante”. E’ pur vero che il giudice d’appello (che per il resto confermava l’impugnata sentenza) ha poi revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena ma tanto ha fatto (non gia’ per l’insussistenza dei presupposti per la concessione del suddetto beneficio bensi’) solo per dare seguito alla … richiesta difensiva accompagnata dal parere favorevole del polizia giudiziaria

Quanto appena evidenziato non puo’ non refluire, come prova logica, sulla irragionevolezza dell’attuale assetto regolatorio che impone all’Amministrazione la spedizione di una misure espulsiva sulla scorta del ( solo) dato formale della pronuncia di una sentenza di condanna alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, indipendentemente dal tipo di reato, dalla sua gravita’, dalla pena inflitta e dalla valenza meramente temporanea della suddetta sanzione accessoria oltre che della sua concreta durata, circostanze che consentirebbero di graduare la risposta dell’ordinamento ma che non e’ stato possibile apprezzare in concreto per il rigido automatismo che cadenza gli effetti normativi qui in discussione.

Come gia’ sopra anticipato, la congruita’ della misura obbligatoria della perdita del grado e degli effetti destitutori ad essa connessi potrebbe astrattamente dirsi assistita da coerenza logica ed intrinseca ragionevolezza fintantoche’ la pronuncia penale, di cui la stessa pena accessoria e’ inevitabilmente diretta espressione, valga a reggere un effettivo giudizio di sostanziale disvalore di cui occorre apprezzare in via immediata ed obiettiva le dirette implicazioni sullo status del pubblico dipendente.

Solo in tale evenienza potrebbe forse giustificarsi – in deroga al divieto di rigidi automatismi – una previsione normativa che faccia dipendere dall’applicazione della sanzione penale accessoria qui in rilievo negative ed automatiche conseguenze anche sul piano amministrativo.

Cio’ in quanto, in siffatte evenienze, la pronuncia penale puo’ esprimere, di per se’, un fattore di oggettivo rischio rispetto all’esigenza di tutela del buon andamento dell’azione amministrativa ovvero alla credibilita’ dell’Amministrazione verso il pubblico.

Alle condizioni suddette, la pronuncia di condanna, e con essa l’applicazione della interdizione temporanea dai pubblici uffici, potrebbe, in altri termini, essere in grado di assicurare una valida giustificazione assiologia alla norma in commento, nella parte in cui, sul piano amministrativo, fa dipendere da essa l’adozione (automatica) di misure espulsive.

Viceversa, tale rapporto di congruita’ e di intrinseca ragionevolezza, cosi’ come il connesso valore della proporzionalita’ tra misura ed esigenze da tutelare, e’ destinato ad alterarsi in misura patologica nell’ipotesi in cui, a cagione della particolare tenuita’ del fatto, certificata dallo stesso giudice penale, quella pronuncia non costituisce piu’, al di la’ degli aspetti formali, espressione attuale di un giudizio di accertamento di un’oggettiva incompatibilita’ ovvero di indegnita’ alla svolgimento di pubbliche funzioni o servizi.

Nel caso in esame la perdita del grado e la conseguente cessazione del ricorrente dal servizio e dall’impiego, per come congegnate dall’art. 866 del C.O.M. e dalle norme ad esso collegate (art. 867 comma 3 e 923 comma 1), traggono alimento da una condanna all’interdizione temporanea dai pubblici uffici applicata in relazione ad un episodio giudicato non grave e per un tempo ridottissimo, finendo cosi’ con il rimanere irragionevolmente disancorate dai connotati concreti della situazione storica in cui sono collocata.

In siffatte evenienze la norma smarrisce il suo substrato sostanziale e finisce per giustificare il suo automatismo applicativo in base al solo astratto presupposto, meramente formale, della pronuncia di una decisione di condanna alla detta pena accessoria, indipendentemente dall’accertamento della sua idoneita’, strutturale e funzionale, ad esprimere un reale disvalore (sulla condotta e sulla persona del militare) tale da giustificare l’emersione di effettive esigenze protettive.

7.4. Senza contare poi, sotto diverso profilo, che l’evidenziata abnorme latitudine della complessa fattispecie normativa qui in rilievo lascia agevolmente ipotizzare, ed accertare, – come sopra ampiamente provato – l’esistenza di situazioni non riconducibili alle massime di esperienza poste a base della presunzione assoluta che fonda l’automatismo.

E’, dunque, evidente, sotto tale distinto profilo, la piena predicabilita’ nel giudizio in argomento del principio – gia’ sopra richiamato – in virtu’ del quale “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe’ se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”, sussistendo l’irragionevolezza della presunzione assoluta “tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa” (cfr. ex multis sentenze n. 185 del 2015; n. 232 e n. 213 del 2013; n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010).

Il mantenimento dell’obbligo di produzione degli effetti interdittivi, pur nella descritta evenienza, viene in definitiva a porsi in chiara ed aperta distonia con i principi di ragionevolezza e proporzionalita’ di cui all’art. 3 della Costituzione.

8. Occorre ancora soggiungere che la disciplina normativa qui censurata contrasta anche con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Carta costituzionale; e cio’ sotto diversi profili.

8.1. Anzitutto, in quanto finisce con l’equiparare, ai fini dell’automatica cessazione del rapporto, situazioni nient’affatto omogenee, il cui diverso peso specifico nel giudizio di bilanciamento che regge la coerenza della misura e’ di evidenza intuitiva: l’ordinamento gradua la durata della pena accessoria interdittiva in stretta proporzione alla gravita’ e tipologia dei fatti reato in addebito, di talche’ e’ possibile distinguere, quanto a presupposti ed effetti (cfr. articoli 28 e 29 c.p.), la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici dall’interdizione temporanea dai pubblici uffici e, all’interno di tale ultima fattispecie, l’ipotesi della condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, per la quale l’interdizione dai pubblici uffici viene applicata per la durata di anni cinque, dalle ipotesi residuali, ivi incluse quelle di cui all’art. 31 c.p. , per le quali la durata corrisponde a quella della pena principale ( art. 37 c.p.).

Il corollario che se ne ricava e’ che non sono tra loro comparabili sul piano del trattamento le posizioni di coloro che hanno riportato una condanna alla interdizione perpetua dai pubblici uffici e quelle di chi, invece, resta soggetto, com’è nel caso qui in rilievo, solo ad una misura interdittiva di tipo temporaneo, peraltro di durata obiettivamente limitata (2 mesi e 20 gg).

E’, infatti, di tutta evidenza che solo nella prima evenienza si riscontrano addebiti che, per la loro gravita’, evocano di per se’, in ragione di presunzioni non suscettive di smentite sul piano logico, gravi e radicali fratture nel rapporto fiduciario tra Amministrazione e propri dipendenti. Ed e’ solo nelle suddette evenienze che la pena accessoria comminata dal giudice penale costituisce (proprio a cagione della sua permanenza) un fattore strutturale ostativo alla ripresa del rapporto d’impiego.

Di contro la fattispecie normativa data dalla combinazione dispositiva delle norme contenute agli articoli 866 comma 1, 867 comma 3 e 923 comma 1 del C.O.M. finisce per azzerare la profonda diversita’ delle situazioni poste in raffronto e, dunque, per omologare negli effetti, in modo del tutto ingiustificato, la situazione del militare condannato alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici (ed ancorche’ di durata contenuta) a quella del militare condannato alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

8.2. Allo stesso modo il particolare rigore che connota il regime normativo passato in rassegna non sembra nemmeno giustificabile in ragione solo del peculiare status di militare, di talche’ un ulteriore profilo di violazione del principio di uguaglianza si apprezza nella disparita’ di trattamento con gli altri dipendenti della Pubblica Amministrazione.

Come gia’ sopra anticipato, in base alla disciplina comune (id est. ex art. 32-quinquies del c.p., nella sua attuale versione) la recisione del rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione resta riservata, salvi i casi di condanna alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici (cfr. anche 622 C.O.M., art. 8 comma 1 lettera b) del D.P.R. n. 737 del 1981 e 55-quater del D.Lgs. n. 165 del 2001 ) a fattispecie di reato particolarmente gravi e sempreche’ la condanna comporti l’applicazione di una pena superiore ad una determinata soglia.

Solo, dunque, in presenza della duplice condizione di un limite minimo di pena detentiva (due anni) e di un elenco tassativo di reati, e dunque di una ben definita soglia di gravita’ del fatto reato, condizioni non riscontrabili nella fattispecie in argomento, l’ordinamento ritiene non necessario, per i dipendenti civili dell’Amministrazione, lo svolgimento di un procedimento disciplinare per la cessazione del rapporto di lavoro.

Il Collegio non ignora che lo stato giuridico dei militari sia regolato da una normativa peculiare ispirata da particolare rigore a presidio degli interessi pubblici che qualificano il pubblico impiego militare rispetto a quello civile, cio’ nondimeno il regime differenziato sopra descritto si rivela qui del tutto ingiustificato siccome avulso da un’effettiva esigenza di protezione di valori strettamente connessi al suddetto status di militare.

Occorre, anzitutto, chiarire che non e’ in discussione la predicabilita’ di una misura espulsiva (che resterebbe in potenza applicabile e commisurabile ai particolari valori sottesi all’ordinamento militare) ma solo il metodo per applicarla, dal momento che la disciplina di settore, per effetto degli automatismi che la connotano, elimina, in radice, la stessa esistenza di un procedimento delibativo in sede amministrativa e, con esso, le garanzie difensive dell’incolpato che ad esso ontologicamente si correlano.

Di contro, non puo’ essere sottaciuto che l’art. 52 della Costituzione, espressamente prevedendo che l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della repubblica, assicura la piena salvaguardia, anche in subiecta materia, delle garanzie difensive. A tal riguardo la Corte ha gia’ da tempo rimarcato “la generale tendenza al maggiore possibile avvicinamento dei diritti del cittadino militare a quelli del cittadino che tale non e'” (sentenza Corte costituzionale n. 490 del 1989), di talche’, in assenza di eccezionali ragioni derogatorie suscettive di obiettivo apprezzamento, il militare non puo’ essere privato del diritto alla valutazione, caso per caso, della congruita’ dei sacrifici a lui imposti in relazione alle finalita’ di interesse pubblico da perseguire.

Ed e’ proprio muovendo da tale assunto che il Giudice delle leggi ebbe a dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (ord. n. 403 del 1992 e, in precedenza, ordinanza n. 113 del 1991 e ordinanza n. 130 del 1990) dell’ art. 70 della L. n. 113 del 1954, dettato per gli ufficiali dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica.

Tale principio risulta ribadito nella sentenza n. 363 del 1996, gia’ citata rispetto al regime delle pene accessorie, e con la quale la Consulta, nel dichiarare l’incostituzionalita’ dell’ art. 12 della L. 18 ottobre 1961, n. 1168, lettera f), e dell’art. 34, n. 7, della L. 18 ottobre 1961, n. 1168 (Norme sullo stato giuridico dei vice-brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei Carabinieri), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della rimozione, ebbe a rilevare che il “trattamento deteriore riservato agli appartenenti all’Arma dei Carabinieri non trova valida ragione giustificatrice nel loro “status” militare: questa Corte ha rilevato come la mancata previsione del procedimento disciplinare, nel vulnerare le garanzie procedurali poste a presidio della difesa, finisca per ledere il buon andamento dell’Amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali, oltre che l’art. 3 della Costituzione (sent. n. 126 del 1995)”.

La lamentata disparita’ di trattamento e’ poi viepiu’ evidente nel caso di specie ove l’attivita’ concretamente esercitata dal ricorrente – e per cui il predetto e’ stato condannato – afferiva a servizi di polizia stradale ex art. 12 del D.Lgs. n. 285 del 1992 (cd. codice della strada) che non evidenziano un nesso di necessaria interdipendenza con lo status di militare.

In altri termini, l’episodio concreto afferisce ad attivita’ riconducibili alle attribuzioni tipiche dei cd. organi di polizia stradale, attivita’ condivise dai militari dell’arma dei carabinieri con altri dipendenti pubblici, non titolari dello status di militare, e rispetto ai quali – ove in ipotesi responsabili dei medesimi fatti qui in rilievo – non troverebbe applicazione il medesimo automatismo sanzionatorio cui e’ rimasto soggetto il ricorrente.

9. La divisata intrinseca irragionevolezza della disciplina suindicata assume ancor piu’ rilievo, ai fini del presente giudizio di costituzionalità, ove si tenga conto che, per effetto delle possibili distorsioni applicative che consente, vale anche ad alterare quel ragionevole punto di equilibrio con altri valori parimenti assistiti da una pregnante tutela in ambito costituzionale.

Ed, invero, l’attitudine dei richiamati precetti a disciplinare, nei medesimi termini, anche ipotesi come quella qui in rilievo, in cui non puo’ non cogliersi la particolarmente contenuta offensivita’ giuridica dei fatti in addebito, si traduce in un irragionevole ed ingiustificato sbilanciamento del suddetto punto di equilibrio a danno degli altri valori protetti in funzione della tutela di esigenze pubblicistiche che la presupposta vicenda penalistica non lascia emergere.

La proiezione della norma primaria ben oltre i divisati limiti costituzionali di tenuta (che impingono nei valori della ragionevolezza e della proporzionalita’) fa riemergere, dunque, privandolo di una sufficiente giustificazione, il contrasto della disposizione con diritti costituzionalmente garantiti, la cui compressione non puo’ piu’ ritenersi tollerata dal sistema.

9.1. Cosi’ viene ad essere irrimediabilmente compromesso il diritto di cui all’art. 24, secondo comma, della Costituzione , in quanto viene tolta in radice all’interessato la possibilita’ di far valere le proprie ragioni avverso l’applicazione di una misura (perdita del grado e cessazione dal servizio) particolarmente invasiva.

Appare, invero, di tutta evidenza il fatto che al divisato automatismo sanzionatorio si contrapponga l’elisione di qualsivoglia possibilita’ di specifica difesa sia in ambito procedimentale che in ambito processuale.

Ne’ e’ possibile logicamente sostenere che siffatta difesa venga ad essere nelle fattispecie qui in rilievo anticipata alla sede penale.

Sul punto e’ agevole ribattere che gli aspetti afferenti alle possibili ricadute rinvenienti dalla condanna penale sul rapporto di impiego e di servizio si collocano al di fuori del perimetro del processo penale (ed in tal senso e’ sufficiente fare rinvio alle stesse lucide argomentazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 363 del 1996).

D’altro canto, nemmeno puo’ essere sottaciuto che lo sviluppo della linea difensiva dell’imputato e’ ispirato da logiche strettamente connesse al tipo di processo (penale) cui in quel momento risulta sottoposto e che non abbracciano, per ragioni di evidenza intuitiva, anche le implicazioni future ed ulteriori – in quel momento nemmeno contestate – che potrebbero prospettarsi in un successivo momento ed a valle della chiusura della vicenda penale (forse e’ proprio in ragione di cio’ che si spiega la rinuncia del ricorrente al beneficio della sospensione condizionale della pena di cui da’ atto il giudice d’appello, beneficio che avrebbe impedito l’applicazione della misura della perdita di grado e gli effetti destitutori oggi in discussione).

9.2. Del pari e’ di tutta evidenza l’incidenza pregiudizievole che, secondo i meccanismi operativi previsti dalla norma in commento, la (ingiustificata) misura in argomento esplica sul pieno ed effettivo esercizio del diritto al lavoro con conseguente collisione del descritto costrutto normativo con i principi di cui agli articoli 4 e 35 della Costituzione.

Essa, infatti, si risolve nella preclusione all’esercizio dell’unica attivita’ che, a cagione della sua marcata connotazione specialistica, consentirebbe al ricorrente di mantenersi nell’orbita del lavoro pubblico impedendogli di fatto, anche in ragione dell’eta’, oltre che della grave crisi congiunturale in atto, la stessa concreta possibilita’ di una nuova collocazione del mondo del lavoro.

9.3. inoltre, e’ di tutta evidenza come l’auspicato riconoscimento di una fase procedimentale contraddistinta dalla piena esplicazione delle garanzie procedimentali a presidio della difesa dell’interessato gioverebbe anche allo stesso proficuo sviluppo dell’azione amministrativa e, dunque, al buon andamento dell’amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali. Di qui, la lesione anche del canone di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione. E’, infatti, certo che le responsabilita’ ad oggi accertate in capo al ricorrente involgono un fatto giudicato in sede penale come di trascurabile contenuto offensivo.

Cio’ nondimeno, l’Amministrazione – a cagione della piu’ volte censurata rigidita’ degli automatismi normativi – e’ stata privata, in apice, della possibilita’ di valutare la coerenza della misura espulsiva rispetto alle finalita’ di interesse pubblico perseguite.

Alcuna autonoma e mirata valutazione e’, infatti, consentito svolgere sul dipendente in ragione del suo vissuto professionale e sull’utilita’ di una prosecuzione del suo rapporto di collaborazione rispetto alla missione istituzionale di cura dell’interesse pubblico affidata all’Amministrazione militare.

Viceversa, un assetto normativo ragionevole, che sia realmente espressione di un equilibrato bilanciamento dei valori in campo, dovrebbe rimettere, nelle evenienze sopra descritte, alla stessa Amministrazione la possibilita’ di compiere prudenti apprezzamenti e prevedere, come momento finale, una pronuncia sullo status del dipendente militare a seguito della valutazione della sua condotta nell’ambito di un appropriato procedimento conoscitivo subordinando ad esso il recupero del dipendente all’amministrazione ovvero la sua definitiva espulsione.

Di contro, le disposizioni in commento non consentono una tale opzione ermeneutica.

Deve ritenersi, dunque, inevitabile la soluzione di affidare al Giudice delle leggi la cognizione dei divisati meccanismi distorsivi che, sul piano operativo, infirmano la costituzionalita’ delle norme in esame.

Il giudizio va, dunque, sospeso e gli atti rimessi alla Corte costituzionale.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, sede di Napoli, Sezione Sesta, visto l’ art. 23 della L. 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 comma 1 del D.Lgs. n. 66 del 2010 in riferimento agli articoli 3, 97, 24, 4, 35 della Costituzione.

Sospende il giudizio e dispone che gli atti siano trasmessi alla Corte costituzionale.

Ordina che, a cura della Segreteria, la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.

Ordina che la presente ordinanza sia eseguita dall’autorita’ amministrativa.

Cosi’ deciso in Napoli nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2015 con l’intervento dei magistrati:

Bruno Lelli, Presidente;

Umberto Maiello, consigliere, estensore;

Anna Corrado, primo referendario.

Il Presidente: Lelli

L’estensore: Maiello