Giudice di pace corretta per le Sezioni Unite l’improcedibilità per tenuità del fatto, quando la persona offesa non compare.

(Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 27 ottobre 2015, n. 43264)

Ritenuto in fatto

1. All’esito del dibattimento a carico di S.T. , tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 594, primo e secondo comma, cod. pen. in danno di B.S. , il Giudice di Pace di Chiusa, con sentenza in data 28 gennaio 2014, riteneva sussistenti i presupposti per dichiarare il fatto di particolare tenuità, a norma dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 (formalmente dichiarando “l’estinzione del reato” ascritto all’imputato).

Il Giudice, perveniva a tale decisione osservando che la persona offesa non era comparsa, da ciò ricavandone la sua mancanza di “interesse al procedimento” e la non persistenza di una “richiesta di risarcimento e di condanna dell’imputato”; e inoltre che il danno causato dalla condotta incriminata era “minimo” e che l’imputato, di giovane età, era la prima volta che trasgrediva la legge penale.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la sezione distaccata della Corte di appello di Trento con sede in Bolzano, che, con un primo motivo, denuncia la violazione dell’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, osservando che erroneamente il Giudice aveva tratto dalla mancata comparizione della persona offesa la mancanza di interesse di questa all’esito del procedimento penale.

Detta norma, ad avviso dell’Ufficio ricorrente, implica che dopo l’esercizio dell’azione penale “l’estinzione del procedimento per la particolare tenuità del fatto” può essere dichiarata “solo quando l’imputato e la persona offesa non si oppongono”, e cioè solo se “presentano il loro consenso a quel tipo di definizione del procedimento”; invece, nel caso in esame, il giudice a quo, aveva espresso il suo convincimento sulla base di una mera presunzione.

Secondo l’univoca giurisprudenza della Corte di cassazione – si osserva – l’estinzione [sic] del procedimento non può aver luogo “senza il consenso” della persona offesa, essendo irrilevante che essa “non è comparsa o è irreperibile”.

Nel caso in esame né l’imputato – che non aveva rilasciato dichiarazioni di alcun tipo – né la persona offesa – che era rimasta assente in quanto irreperibile e che quindi non era a conoscenza della fissazione della udienza – avevano prestato il consenso a un simile esito.

Con un secondo motivo, in relazione alla mancata citazione della persona offesa, si denuncia la violazione degli artt. 90, 190, 157, 177, comma 5, 178, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., e dell’art. 20, nn. 3 e 6 [recte, ora, commi 4 e 6], d.lgs. n. 274 del 2000, sul rilievo che non era stato fatto alcun tentativo di citare la persona offesa, la quale si era trasferita nella città di (omissis) , pur essendo il Pubblico ministero a conoscenza della sua nuova residenza e del suo numero di telefono cellulare.

Con un’ulteriore considerazione, formalmente svincolata dai motivi di ricorso, si osserva conclusivamente che, a seguito della condotta dell’imputato, la persona offesa aveva perso il suo posto di lavoro, sicché nemmeno dal punto di vista oggettivo potevano dirsi ricorrere i presupposti per una sentenza di irrilevanza del fatto.

3. La Quinta Sezione penale, assegnataria del ricorso, con ordinanza in data 10 aprile – 15 maggio 2015, lo ha rimesso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen., ravvisando un contrasto di giurisprudenza circa il quesito se la mancata comparizione della persona offesa alla udienza davanti al giudice di pace implichi di per sé una opposizione a che il procedimento sia definito con una dichiarazione di particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 34, comma 3, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.

Nell’ordinanza sono passate in rassegna le differenti posizioni giurisprudenziali.

3.1. Secondo un primo orientamento, al quale si allinea l’Ufficio ricorrente, la mancata comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del fatto, trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà.

Secondo altro filone giurisprudenziale, la decisione della persona offesa di non comparire in udienza implica una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto.

3.2. La Quinta Sezione ha quindi ritenuto di investire le Sezioni Unite del quesito se al comportamento di per sé neutro dell’assenza in giudizio della persona offesa possa attribuirsi il significato positivo di opposizione alla dichiarazione di improcedibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace.

4. Con decreto in data 8 giugno 2015, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

Considerato in diritto

1. La questione della quale sono investite le Sezioni Unite, è enunciabile nei seguenti termini: “Se, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mera mancata comparizione della persona offesa alla udienza davanti al giudice di pace, in assenza di altri dati significativi, impedisca di ritenere che la stessa non si opponga alla definizione del procedimento per particolare tenuità del fatto a norma dell’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.

2. Appare opportuno riportare preliminarmente il testo dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000: “(Esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto).

– 1. Il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato.

– 2. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice dichiara con decreto d’archiviazione non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, solo se non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.

– 3. Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono”.

3. Nel caso in esame, come esposto nella parte in fatto, il Pubblico ministero ricorrente, oltre a denunciare la violazione del comma 3 del citato art. 34, tema su cui ci si soffermerà più oltre, ha dedotto la violazione degli artt. 90, 190, 157, 177, comma 5, 178, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., e dell’art. 20, nn. 3 e 6 [recte, commi 4 e 6], d.lgs. n. 274 del 2000, sul rilievo che non era stato fatto alcun tentativo di citare la persona offesa, la quale si era trasferita nella città di Essen in Germania, pur essendo il Pubblico ministero territoriale a conoscenza della sua nuova residenza e del suo numero di telefono cellulare.

Tale censura, che ha evidentemente natura pregiudiziale, investendo la ritualità del procedimento, appare manifestamente infondata.

Risulta infatti incontrovertibilmente dagli atti che la persona offesa B.S. venne inutilmente cercata sia presso la dichiarata sua residenza in (omissis) sia, poi, in quella di (omissis), ove, da informazioni assunte dalla p.g. e dalle risultanze anagrafiche, risultava essersi trasferita a decorrere dal 27 aprile 2010 e fino al 6 novembre 2012, data di cancellazione della iscrizione anche in quest’ultimo comune; e che poi infruttuosamente a più riprese si cercò di contattare la medesima tramite l’attivazione del numero di telefono cellulare fornito dalla matrigna D.E. (la quale aveva riferito che da circa due anni la figliastra si era trasferita in una non meglio precisata residenza nella città di Essen, in Germania) che squillava continuamente come occupato.

Quindi, essendo risultato vano ogni tentativo di reperire la persona offesa nelle due località italiane (omissis) nelle quali essa risultava già avere avuto residenza, e non essendo stato possibile acquisire alcuna precisa indicazione del luogo di residenza o di dimora della medesima all’estero (al di là della generica indicazione di un suo trasferimento in omissis), correttamente il processo si è svolto in sua assenza, previo deposito dell’atto di citazione in cancelleria, come previsto, proprio per la persona offesa, dall’art. 154, comma 1, cod. proc. pen..

È appena il caso di osservare che la speciale disciplina per la citazione a giudizio prevista nel procedimento davanti al giudice di pace dall’art. 20 d.lgs. n. 274 del 2000 – richiamato dal ricorrente – in nulla deroga, quanto alle forme di notificazione e agli adempimenti ad essa connessi, a quella prevista per la persona offesa dalla sopra richiamata norma codicistica.

4. Merita inoltre di puntualizzare che l’argomento finale esposto dal Pubblico ministero ricorrente (il fatto non era da considerare tenue, perché la persona offesa aveva perso il posto di lavoro in conseguenza della condotta posta in essere dall’imputato) non può essere preso in considerazione, sia perché non collegato a uno specifico motivo di ricorso, con conseguente violazione dell’art. 581, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., sia, comunque, in quanto non poggiante su alcun dato processuale obbiettivo, rivelandosi quindi meramente assertivo.

Si deve dunque ritenere irrevocabilmente accertato nella specie il presupposto oggettivo della particolare tenuità del fatto, come delineato dal comma 1 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.

5. Occorre pertanto procedere all’esame della questione di diritto, enunciata al p.1, che investe il dettato del comma 3 dell’art. 34 del decreto citato (“Se è stata esercitata l’azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l’imputato e la persona offesa non si oppongono”).

6. Sul tema, come esposto nell’ordinanza di rimessione, appare effettivamente sussistere un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.

6.1. Secondo un primo orientamento, che è quello privilegiato dall’Ufficio ricorrente, la mancata comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del fatto (Sez. 5, n. 49781 del 21/09/2012, Sabouri, Rv. 254833), trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà (Sez. 5, n. 33763 del 09/07/2013, De Cicco, Rv. 257121); e, pur potendosi ricavare la volontà della persona offesa di non opporsi a una simile definizione del procedimento anche da fatti sintomatici, non occorrendo una formale dichiarazione a ciò intesa, tali fatti devono essere univoci, ossia specificamente rivelatori di una volontà non ostativa a un siffatto esito liberatorio del procedimento (Sez. 5, n. 33689 del 07/05/2009, Bakiu, Rv. 244609; Sez. 5, n. 16689 del 03/03/2004, Frascari, Rv. 229860).

Nello stesso senso, da ultimo, Sez. 5, n. 17965 del 26/03/2014, Makula, n.m..

Nell’ambito di tale filone interpretativo si richiama talvolta l’insegnamento giurisprudenziale derivante in primo luogo da Sez. U, n. 46088 del 30/10/2008, Viele, Rv. 241357, secondo cui nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione del p.m. la mancata comparizione del querelante, pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe stata concludente nel senso di una remissione tacita della querela, non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa.

6.2. Secondo altro filone giurisprudenziale, la decisione della persona offesa di non comparire in udienza implica una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto (Sez. 5, n. 9700 del 05/12/2008, dep. 2009, Arhni, Rv. 242971); non richiedendo d’altra parte l’art. 34 necessariamente la presenza della persona offesa (Sez. 4, n. 25917 del 17/06/2003, Ritucci, Rv. 225676), e inquadrandosi un tale esito con le caratteristiche peculiari del procedimento davanti al giudice di pace, come tendenzialmente rivolto alla composizione del conflitto tra imputato e soggetto leso dal reato (Sez. 3, n. 48096 del 06/11/2013, Tavernaro, Rv. 258054; Sez. 4, n. 41702 del 26/10/2004, Rv. 230278, Nuciforo).

Nel senso che il silenzio della p.o. non può essere considerato come atto sintomatico di opposizione, da ultimo, Sez. 2, n. 37525 del 13/05/2014, Kokal, n.m..

7. È innanzi tutto il caso di notare che la sentenza liberatoria per la tenuità del fatto era già prevista dal nostro ordinamento, come causa di improcedibilità dell’azione penale, nell’ambito del processo minorile (art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448: “Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto”) ed è stata recentemente estesa al procedimento penale “ordinario” – qui come causa di non punibilità – ad opera della d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (introduttivo dell’art. 131-bis cod. pen.: “Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto”).

Né l’uno né l’altro di questi ulteriori istituti – che valorizzano in senso liberatorio la “tenuità” del fatto (questo è anche il presupposto testualmente considerato dall’art. 27 min, che pur si riferisce nella rubrica alla “irrilevanza del fatto”) – contempla una facoltà inibitoria esercitabile – oltre che dall’imputato – dalla persona offesa, a differenza di quanto prevede l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000. La diversità è verosimilmente inquadrabile nella valutazione del legislatore circa la natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che da risalto peculiare alla posizione dell’offeso dal reato, tanto da attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in jus (art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000).

Questa facoltà inibitoria venne sottoposta a scrutinio di costituzionalità dal Giudice di pace di Napoli (con ordinanza del 14 ottobre 2004), tra l’altro, sotto il profilo della violazione degli artt. 101 [secondo comma] e 111 [secondo comma] Cost., attribuendosi a una parte la facoltà insindacabile di porre un veto al potere del giudice di apprezzare i presupposti per un esito del processo in senso liberatorio, nonché per violazione dell’art. 76 Cost., non prevedendo la legge-delega n. 468 del 1999 un simile potere inibitorio, e per violazione dell’art. 3 Cost., stante la irragionevole discriminazione tra imputati maggiorenni e minorenni, proprio per la mancata previsione nel procedimento minorile di un analogo potere di veto della persona offesa.

Tali censure (ed altre) non sono state prese in considerazione, nel merito, dalla Corte costituzionale, che, con ordinanza n. 63 del 2007 (sulla quale ci si soffermerà oltre), ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile, per ritenuta erroneità del presupposto interpretativo dal quale aveva preso le mosse il giudice rimettente: ma è il caso di rilevare incidentalmente che il potere inibitorio della persona offesa del reato, concepito dal comma 3 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 come insindacabile, potrebbe indurre a riflessioni orientate nel senso della serietà dei dubbi di costituzionalità espressi a suo tempo dal Giudice di pace di Napoli.

Di ciò tuttavia non ci si dovrà qui occupare, dovendo il ricorso essere rigettato, per le considerazioni che ci si accinge ad esporre. In particolare, stante la infondatezza del ricorso, non può assumere nella specie alcuna rilevanza la prospettiva, avanzata in sede dottrinale, di una possibile sovrapposizione della disciplina generale di cui all’art. 131-bis cod. pen. su quella della particolare tenuità del fatto disciplinata nell’ambito del procedimento davanti al giudice di pace dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.

8. Entrambi i filoni giurisprudenziali di cui si è sopra dato conto si impegnano nel definire la mancata comparizione in udienza della persona offesa, per lo più, in termini indicativi, ora in senso negativo (v. orientamento sub p.6.1.) ora in senso positivo (v. orientamento sub p.6.2.), di una manifestazione di acquiescenza ad un esito del processo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini di quanto previsto dal comma 3 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.

Il difetto di tale impostazione è il presupposto secondo cui, dopo l’esercizio dell’azione penale, perché si possa pervenire a un simile esito liberatorio occorra accertare un’adesione – implicita o esplicita – della persona offesa (o dell’imputato).

Sennonché, la norma in esame non richiede da parte della persona offesa (come dell’imputato) un’adesione a un simile esito, stabilendo invece che esso sia escluso solo in presenza di una presa di posizione che abbia il valore di una “opposizione”. In altri termini, come perspicuamente osservato dalla Corte costituzionale nella citata ordinanza n. 63 del 2007, l’art. 34, comma 3, “prevede, ai fini dell’operatività dell’istituto de quo, nella fase successiva all’azione penale, non già una condizione positiva (il consenso), ma una condizione negativa (la non opposizione; se l’imputato e la persona offesa non si oppongono)”.

9. Il tenore della disposizione conduce a far ritenere che tale volontà di opposizione deve essere necessariamente espressa, non potendosi desumere da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà.

Va peraltro ritenuto che la volontà di opposizione possa essere manifestata anche attraverso memorie (art. 90, comma 1, cod. proc. pen.); e che essa sia implicita nei casi in cui la persona offesa, costituitasi, in quanto soggetto danneggiato dal reato, quale parte civile, formuli in udienza, a mezzo del procuratore speciale, richiesta di risarcimento dei danni.

Occorre, beninteso, che la persona offesa sia stata messa in grado di esprimere la sua eventuale opposizione.

Sicché non potrebbe essere pronunciata sentenza liberatoria se essa non sia citata in dibattimento, pur essendo noti gli elementi indicativi della sua residenza o dimora; né potrebbe essere adottata tale pronuncia da parte del giudice investito della richiesta di decreto penale di condanna (v. in tal senso Sez. 1, n. 16310 del 26/04/2005, Colozzo, Rv. 231331).

Ma certamente la legge non impone un’apposita convocazione della persona offesa specificamente preordinata a raccogliere la sua eventuale opposizione, dovendo per postulato legale presumersi che essa possa prospettarsi un esito liberatorio nel caso di una sua mancata comparizione in sede dibattimentale.

Può discutersi solo se una simile presa di posizione inibitoria debba provenire personalmente dalla persona offesa (o dall’imputato) e se essa possa manifestarsi solo in sede processuale.

La risposta al primo di tali quesiti sembra dovere essere nel senso che si tratta di un atto personalissimo, in quanto l’opposizione di cui si discute, incidendo sulla procedibilità dell’azione penale, rientra tra il genere di atti “idonei a determinare il contenuto della pronuncia” (per questa qualificazione, in termini generali, v. Sez. U, n. 47923 del 29/10/2009, D’Agostino, in particolare al p.6 del Considerato in diritto); con la conseguenza che possono dirsi abilitati a esprimere una simile volontà la persona offesa (e l’imputato) personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e non il difensore o altri soggetti, fatta eccezione, beninteso, per i casi di rappresentanza della persona offesa minore, interdetta o inabilitata (v. art. 90, comma 2, cod. proc. pen.).

Quanto al secondo quesito, deve ritenersi che la volontà di opposizione debba essere manifestata solo dopo l’esercizio dell’azione penale, perché questo è il presupposto formalmente preso in considerazione dalla citata disposizione, essendo dunque inidonea una espressione di opposizione formulata “ora per allora” prima di tale cadenza processuale.

10. Dunque, la mancata partecipazione al dibattimento della persona offesa (regolarmente citata o irreperibile) è affatto irrilevante ai fini dell’abilitazione del giudice a valutare la sussistenza dei presupposti considerati dal comma 1 dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, non potendosi desumere da detta situazione alcuna volontà di opposizione alla pronuncia di improcedibilità per tenuità del fatto.

In linea con tale regime appare, d’altro canto, il disposto dell’art. 469, comma 1-bis, cod. proc. pen., che, ai fini della pronuncia di sentenza predibattimentale per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., richiede che la persona offesa sia citata, potendosi tuttavia prescindere dall’acquisizione della sua volontà se essa non compare. Sicché, sia che la persona offesa abbia un potere di interdizione (art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274 del 2000) sia che essa debba solo essere messa in grado di interloquire (art. 469, comma I-bis, cod. proc. pen.), nei vari casi in cui l’ordinamento prevede procedure intese ad accertare la particolare tenuità del fatto, la mancata comparizione della persona offesa non impedisce l’adozione della sentenza liberatoria.

Siffatta conclusione non può dirsi collidere con quanto affermato da Sez. U, n. 46088 del 2008, Viele, cit., secondo cui nel procedimento davanti al giudice di pace instaurato a seguito di citazione del p.m. la mancata comparizione del querelante – pur previamente avvisato che la sua assenza sarebbe considerata concludente nel senso di una remissione tacita della querela – non costituisce fatto incompatibile con la volontà di persistere nella stessa.

Come avvertito dalla stessa ordinanza di remissione della Quinta Sezione, da tale principio -improntato per il vero a estremo rigore nella definizione della nozione di remissione extraprocessuale della querela, in una ipotesi di esplicito avvertimento del giudice circa le conseguenze di una mancata partecipazione al dibattimento – non possono ricavarsi conclusioni sovrapponibili all’istituto della particolare tenuità del fatto, dato che mentre in forza dell’art. 152 cod. pen. l’effetto estintivo si determina in base a un comportamento del querelante dal quale è ricavabile una volontà di rimettere la querela, nel caso di cui all’art. 34, comma 3, d.lgs. n. 274 del 2000, un comportamento dell’offeso è – all’opposto – richiesto per impedire il verificarsi della causa di non procedibilità.

11. È opportuno precisare che una diversa disciplina è prevista per la fase precedente l’esercizio dell’azione penale. Qui l’esito liberatorio non è impedito da una formale dichiarazione di opposizione della persona offesa, ma dall’apprezzamento da parte del giudice di un “interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento” (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 274 del 2000); potendo questo interesse essere desunto dal giudice da qualsiasi elemento di valutazione, ivi compreso quello reso esplicito attraverso un formale atto di opposizione.

Resta fermo che, una volta introdottasi la fase dibattimentale, la persona offesa potrà inibire la dichiarazione di improcedibilità per particolare tenuità del fatto solo reiterando formalmente, in quella sede, la sua dichiarazione di opposizione, che non potrebbe ripetere automaticamente da quella eventualmente già espressa una valenza “ora per allora”, proprio per la nuova prospettiva processuale che è aperta dallo scenario dibattimentale.

12. Deve dunque essere affermato il seguente principio di diritto:

“Nel procedimento davanti al giudice di pace, dopo l’esercizio dell’azione penale, la mancata comparizione in udienza della persona offesa, regolarmente citata o irreperibile, non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto in presenza dei presupposti di cui all’art. 34, comma 1, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”.

13. Dalle considerazioni che precedono discende la infondatezza del ricorso, che deve pertanto essere rigettato.

14. Va solo precisato che nel dispositivo della sentenza impugnata, per un evidente errore materiale, è stata dichiarata la “estinzione del reato” ascritto all’imputato, con menzione dell’art. 531 cod. proc. pen., anziché essere adottata la formula di proscioglimento della improcedibilità per la particolare tenuità del fatto, con menzione dell’art. 529 cod. proc. pen., come previsto dall’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000.

A norma dell’art. 130 cod. proc. pen., il dispositivo della sentenza impugnata va pertanto rettificato nel senso che, là dove è scritto “art. 531 c.p.p.”, deve leggersi “art. 529 c.p.p.” e là dove è scritto “l’estinzione del reato” deve leggersi “non doversi procedere”.

La Cancelleria del Giudice di pace di Bressanone (Ufficio in cui è confluito quello di Chiusa), provvederà alle relative annotazioni sull’originale dell’atto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Rettifica il dispositivo della sentenza impugnata nel senso che, là dove è scritto “art. 531 c.p.p.” deve leggersi “art. 529 c.p.p.” e là dove è scritto “l’estinzione del reato” deve leggersi “non doversi procedere”.

Manda alla cancelleria del Giudice di Pace di Bressanone per le relative annotazioni sull’originale dell’atto.