Gli errori dell’apprendista ricadono sul titolare (Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, Ordinanza 4 giugno 2018, n. 14216).

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI  Marco – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

ORDINANZA

 

sul ricorso 1929-2016 proposto da:

M.A., D.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato PUBLIO FIORI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO PAOLO PIANESE;

– ricorrenti –

contro

MA.VI., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PASQUALE CIRILLO;

– controricorrente –

contro

V.R., C.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5831/2014 del TRIBUNALE di NAPOLI SEZIONE DISTACCATA di MARANO DI NAPOLI, depositata il 17/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 17/04/2018 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.

Svolgimento del processo

 

1. Nel 2005 V.R. e C.R., sia in proprio che quali rappresentanti ex art. 320 c.c. del figlio minore V.G., convennero dinanzi al Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Marano, D.G. ed M.A., sia in proprio che nella qualità di genitori di D.A., nonchè Ma.Vi., esponendo che:

-) il proprio figlio V.V., di anni 19, il (OMISSIS) venne assassinato da D.A., all’epoca dei fatti di anni 15;

-) l’omicidio venne commesso all’esito d’una lite scoppiata tra i due giovani per futili motivi (parrebbe, il furto di alcune sigarette), all’interno dell’esercizio commerciale di Ma.Vi., esercente attività di barbiere, ove la vittima svolgeva l’attività di apprendista;

-) dei danni causati dall’omicidio dovevano rispondere, oltre che l’autore materiale, i suoi genitori per culpa in educando, e Ma.Vi., per culpa in vigilando.

2. Tutti i convenuti si costituirono negando la propria responsabilità.

3. Con sentenza 17.4.2014 n. 5831 il Tribunale di Napoli, articolazione territoriale di Marano, accolse la domanda nei confronti dei genitori dell’omicida ( D.G. ed M.A.), mentre la rigettò nei confronti di Ma.Vi..

4. La Corte d’appello di Napoli con ordinanza 10.11.2015 n. 2341, pronunciata ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., dichiarò inammissibili gli appelli proposti da D.G. ed M.A..

5. La sentenza di primo grado è stata impugnata per cassazione da D.G. ed M.A., ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., con ricorso fondato su cinque motivi ed illustrato da memoria.

Ma.Vi. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

 

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 2697 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c..

Deducono che il Tribunale avrebbe erroneamente escluso la ricorrenza, nel caso di specie, dell’esimente della legittima difesa. Sostengono che il Tribunale escluse la legittima difesa da parte di D.A. basandosi unicamente sulla perizia autoptica disposta durante le indagini penali, la quale tuttavia poteva costituire al più un mero indizio, da solo insufficiente e che comunque il Tribunale non mise in relazione agli altri elementi di prova acquisiti al giudizio (una prova testimoniale e la Perizia disposta dal pubblico Ministero).

1.2. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, ex art. 100 c.p.c..

La sussistenza d’una situazione di legittima difesa, in quanto fatto impeditivo della pretesa attorea, deve essere provata dal convenuto che la invoca.

Nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto esservi la prova positiva dell’assenza della legittima difesa, ed i ricorrenti contestano oggi tale valutazione, basata – essi sostengono – su un mero indizio.

Se, dunque, in ipotesi si accogliesse questo motivo di ricorso, l’unico risultato concreto che ne seguirebbe sarebbe la necessità di espungere dal novero delle prove utilizzabili il risultato dell’esame autoptico: il che lascerebbe comunque non assolto, da parte degli odierni ricorrenti, l’onere di provare l’effettiva sussistenza dei requisiti della legittima difesa.

Le ulteriori deduzioni svolte dai ricorrenti alle pp. 30-32 del proprio ricorso, nelle quali sostengono che la prova della legittima difesa si sarebbe dovuta trarre aliunde, investono la valutazione delle prove e sono dunque inammissibili in questa sede, noto essendo che non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 2048 e 2697 c.c..

Deducono che il Tribunale avrebbe errato nell’escludere che essi non avessero fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 2048 c.c.. Sostengono, da un lato, di avere ampiamente dimostrato, nel giudizio di merito, di avere impartito al proprio figlio minore una buona educazione; e dall’altro che il Tribunale non avrebbe potuto, come invece fece, trarre la prova della culpa in educando dalle sole modalità con cui venne commesso il fatto illecito.

2.2. Il motivo è inammissibile.

Stabilire se dei genitori abbiano o non abbiano diligentemente assolto l’onere di educazione dei figli, ad essi imposto dall’art. 147 c.c., è un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto. Da un lato, pertanto, l’art. 2048 c.c. non può dirsi violato sol perchè il giudice di merito abbia ritenuto sussistente od insussistente la prova d’una adeguata educazione; dall’altro lato quella valutazione sfugge al sindacato di legittimità.

Nè ha pregio la deduzione dei ricorrenti, secondo cui non sarebbe consentito al giudice di merito ritenere dimostrata la mala educacion sulla base delle sole modalità del fatto illecito. Questa Corte, infatti, ha in verità affermato sempre un principio esattamente opposto, e cioè che “l’inadeguatezza dell’educazione impartita può essere desunta dalle modalità dello stesso fatto illecito” (Sez. 3, Sentenza n. 26200 del 06/12/2011, Rv. 620325 – 01; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 24475 del 18/11/2014, invocata dagli stessi ricorrenti a p. 34 del proprio ricorso, ma evidentemente fraintesa; nè sarà superfluo soggiungere che tale principio è assolutamente pacifico da oltre mezzo secolo, essendo stato affermato già da Sez. 3, Sentenza n. 1518 del 09/06/1960, Rv. 882259 – 01).

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1127, 1123 e 2056 c.c..

Deducono che il Tribunale avrebbe erroneamente liquidato il danno, senza tenere conto del concorso di colpa della vittima, consistito in una provocazione.

3.2. Va premesso come deve ritenersi un evidente lapsus calami la deduzione, a p. 37 del ricorso, della violazione degli artt. “1127 e 1123” c.c., evidente essendo che i ricorrenti intesero riferirsi agli artt. 1223 e 1227 c.c..

3.3. Il motivo, sebbene formalmente denunci una violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, nell’illustrazione prospetta in realtà un error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Vi si sostiene infatti che:

(a) la provocazione da parte della vittima era stata eccepita in primo grado dagli odierni ricorrenti, e comunque non era stata contestata;

(b) essa pertanto doveva darsi per ammessa;

(c) il Tribunale non ne tenne debito conto, come invece avrebbe dovuto fare ai sensi dell’art. 1227 c.c..

3.4. Prima di esaminare il motivo nel merito, v’è da rilevare come lo iato tra il suo contenuto e la sua intitolazione non è d’ostacolo alla sua ammissibilità.

Infatti, nel caso in cui il ricorrente incorra nel c.d. “vizio di sussunzione” (e cioè erri nell’inquadrare l’errore commesso dal giudice di merito in una delle cinque categorie previste dall’art. 360 c.p.c.), il ricorso non può per ciò solo dirsi inammissibile, quando dal complesso della motivazione adottata dal ricorrente sia chiaramente individuabile l’errore di cui si duole, come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013).

Nel caso di specie, l’illustrazione contenuta nelle pp. 37-39 del ricorso è sufficientemente chiara nel prospettare la violazione, da parte della Corte d’appello, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e dunque il motivo è ammissibile.

3.5. Nel merito il motivo è infondato.

Se pure è vero, infatti, che il Tribunale nella sua sentenza non fa cenno alla questione del concorso di colpa della vittima, è altresì vero che, se avesse esaminato l’eccezione sollevata dai convenuti, non avrebbe potuto fare altro che rigettarla in iure, in virtù del consolidato principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui nel giudizio di risarcimento del danno da fatto illecito la sussistenza d’una provocazione da parte della vittima non interrompe nè elide il nesso di causa tra azione lesiva e danno (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 5679 del 23/03/2016, Rv. 639388; Sez. 3, Sentenza n. 20137 del 18/10/2005, Rv. 585230 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 9209 del 30/08/1995, Rv. 493829 – 01, e così già Sez. 3, Sentenza n. 1445 del 03/05/1958, Rv. 880674 01).

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Col quarto motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2048 c.c..

Deducono che il Tribunale ha violato l’art. 2048 c.c., nel rigettare la domanda di manleva (rectius, regresso) da loro formulata nei confronti di Ma.Vi., datore di lavoro o comunque maestro d’arte del proprio figlio minore.

Osservano come Ma.Vi. era gravato dalla presunzione di cui all’art. 2048 c.c.; che per vincere tale presunzione avrebbe dovuto dare la prova delle misure organizzative adottate per evitare il danno; che il Tribunale accertò in concreto che al momento del fatto Ma.Vi. non era presente nel suo esercizio commerciale, ove i due ragazzi protagonisti della tragedia vennero lasciati soli.

Soggiungono che il Tribunale avrebbe altresì erroneamente reputato irrilevanti le prove da essi richieste, e volte a dimostrare la culpa in vigilando di Ma.Vi..

4.2. Il motivo è fondato.

Il Tribunale ha accertato in facto che al momento dell’omicidio, avvenuto all’interno del negozio di barbiere dove l’omicida svolgeva le funzioni di apprendista, il titolare non era presente.

Ha tuttavia ritenuto in iure che questi non versasse in colpa in vigilando, perchè “arrivato solo dieci minuti dopo i fatti”.

Così giudicando, il Tribunale è incorso effettivamente in una falsa applicazione dell’art. 2048 c.c., consistita nel non applicare la presunzione ivi prevista ad una fattispecie concreta che, così come ricostruita in fatto dallo stesso Tribunale, imponeva l’applicazione della suddetta norma.

4.3. Il terzo comma del ricordato art. 2048 c.c. stabilisce infatti che, nel caso di fatto illecito commesso dall’apprendista, spetta al precettore od al maestro d’arte dimostrare “di non aver potuto impedire il fatto”.

La prova “di non avere potuto impedire il fatto” consiste nella dimostrazione che il fatto produttivo di danno fu o imprevedibile, inevitabile: e dunque fu un caso fortuito.

Questo principio discende da una tradizione millenaria.

Già un rescritto dell’imperatore Augusto, inviato ai prefetti del pretorio Fusco e Destro (e tramandato dal Codex Iustiniani, Libro IV, Titolo XXIV, p. 6, De casu fortuito) sancì che “quae fortuitis casibus accidunt, cum praevideri non potuerint (..), nullo bonae fideijudicio praestantur”.

Il precetto passò tal quale nel diritto intermedio (casus fortuitus non est sperandus, et nemo tenetur divinare), e da questo pervenne immutato all’età delle codificazioni, ed ai codici attuali.

In questi, tuttavia, fu conservato il precetto (il debitore è liberato dal caso fortuito: si vedano ad esempio l’art. 1492 c.c., comma 3, in tema di perimento della cosa venduta; art. 1637 c.c., in tema di accollo da parte dell’affittuario del rischio di caso fortuito; art. 1686 c.c., comma 3, in tema di responsabilità del vettore; art. 1805 c.c., in tema di responsabilità del comodatario), ma se ne obliò la giustificazione (il “cum praevideri non potuerint” del rescritto augusteo), probabilmente perchè ritenuta dal legislatore ovvia e scontata.

4.4. La prova di “non aver potuto impedire il fatto” consiste dunque nella dimostrazione dell’imprevedibilità o dell’inevitabilità del fatto produttivo di danno.

La prevedibilità e la prevenibilità costituiscono l’essenza della colpa.

E’ infatti in colpa chi, pur potendo prevedere o prevenire l’evento dannoso, non se lo prefiguri o non lo prevenga. E converso, non può dirsi in colpa chi non potè prevedere un evento imprevedibile, nè prevenire un evento inevitabile (Sez. 3, Sentenza n. 2463 del 03/03/1995, Rv. 490899 – 01).

Se dunque l’imprevedibilità e l’imprevenibilità costituiscono l’essenza della colpa, la loro sussistenza od insussistenza deve essere valutata coi criteri dettati dall’ordinamento a tal fine.

Principale criterio di valutazione della colpa professionale (tale essendo quella del precettore o maestro d’arte), tanto contrattuale quanto extracontrattuale, è quello della diligenza, dettato dall’art. 1176 c.c., comma 2.

Tale criterio consiste nel comparare la condotta effettivamente tenuta dal preteso responsabile con quella che avrebbe tenuto, al suo posto, eiusdem generis et condicionis: ovvero il maestro d’arte serio, coscienzioso ed avveduto.

Ora, primo dovere di precettori e maestri è quello della presenza, come ripetutamente affermato da questa Corte in tema di infortuni scolastici (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 9742 del 07/10/1997, Rv. 508597 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2342 del 07/06/1977, Rv. 386057 – 01).

In particolare, per l’imprenditore o l’artigiano che assuma un apprendista, tale dovere oltre che desumibile dal generale precetto di cui all’art. 1176 c.c., era altresì desumibile dalla L. 19 gennaio 1955, n. 25, art. 11, comma 1, lett. (a), (recante “Disciplina dell’apprendistato”), oggi abrogata dal D.Lgs. 14 settembre 2011, n. 167, art. 7, comma 6, (legge anch’essa successivamente abrogata), ma vigente nel 2005, all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio. Tale norma infatti, imponendo al datore di lavoro l’obbligo di “impartire o di far impartire nella sua impresa all’apprendista alle sue dipendenze l’insegnamento necessario perchè possa conseguire la capacità per diventare lavoratore qualificato”, implica necessariamente un dovere di vigilanza, non potendo ovviamente l'”insegnamento” richiesto dalla legge avvenire inter absentes.

In conclusione, per liberarsi dalla presunzione di cui all’art. 2048 c.c. il precettore o maestro d’arte deve provare che nè lui, nè alcun altro precettore “diligente” ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, nella medesima situazione, avrebbe potuto evitare il danno.

Per quanto detto, tuttavia, il “precettore medio” di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., non avrebbe mai lasciato solo un apprendista minorenne.

Il Tribunale dunque ha trascurato di applicare la presunzione di cui all’art. 2048 c.c. in un caso in cui non solo la prova liberatoria era mancata, ma anzi esso stesso aveva accertato in concreto che il precettore tenne una condotta non conforme al canone della diligenza. La sentenza deve dunque essere cassata su questo punto, in applicazione del seguente principio di diritto:

“Il precettore od il maestro d’arte, per liberarsi dalla presunzione di colpa posta a loro carico dall’art. 2048 c.c., hanno l’onere di provare che né loro, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, avrebbe potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno”.

5. Il quinto motivo di ricorso.

5.1. Col quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 168, 347 c.p.c.; artt. 36 e 123 bis disp. att. c.p.c.); sia dal un vizio di nullità processuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4.

Deducono che la Corte d’appello ha rigettato il loro gravame senza essere in possesso del fascicolo di primo grado, e quindi senza esaminare tutte le prove.

5.2. Il motivo è inammissibile, in quanto l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c., conclusiva del giudizio d’appello non è impugnabile se non per vizi suoi propri (ovvero per essere stata pronunciata al di fuori dei casi in cui la legge consente la definizione dell’appello con la forma dell’ordinanza: così Sez. U, Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638369 – 01).

6. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.


Accoglie il quarto motivo di ricorso;

rigetta gli altri;

cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte di cassazione, il 17 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2018.