I coniugi vivono in parti autonome e diverse del medesimo immobile: non può esserci abbandono del tetto coniugale.

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1 – , ordinanza 14 luglio – 12 ottobre 2015, n. 20469)

In fatto e in diritto

Ritenuto che il consigliere designato ha depositato, in data 28 maggio 2015, la seguente proposta di definizione, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ.:

«Con sentenza in data 29 gennaio 2014, la Corte d’Appello di Roma, respinta la principale, ha parzialmente accolto l’impugnazione incidentale proposta dalla signora C. contro la sentenza del Tribunale di Velletri, riconoscendo alla predetta un contributo di mantenimento pari ad € 700,00 mensili e compensando per la metà le spese di lite. Avverso la sentenza della Corte d’Appello ha proposto ricorso il sig. F., con atto notificato il 5 luglio 2014, sulla base di tre motivi, con cui denuncia:

a) violazione e falsa applicazione di varie norme di legge sostanziale (artt. 143,11 c; 156, II c., c.c. e omesso esame di fatto decisivo);

b) violazione e falsa applicazione di norma sostanziale (art. 156, I c., c.c. e omesso esame di fatto decisivo);

c) violazione e falsa applicazione di varie norme di legge sostanziale (artt. 2043 e 2059 c.c.). Il coniuge non ha svolto difese.

Il ricorso appare complessivamente infondato.

Così il primo mezzo, che lamenta la mancata considerazione dell’abbandono della casa coniugale da parte del coniuge, in quanto, la sentenza ha correttamente affermato la regula íuris secondo cui, in tema di doveri matrimoniali, integra l’«abbandono del tetto coniugale» il comportamento di uno dei coniugi che esprima la volontà di porre fine alla convivenza e di non fare ritorno nel luogo della residenza coniugale (nella specie, il coniuge presunto inadempiente, dopo un breve periodo trascorso presso il fratello all’estero, aveva fatto ritorno nella casa coniugale, sia pure dimorando in una parte diversa dello stesso immobile) .

Così il secondo motivo, che si duole del riconoscimento di un contributo di mantenimento, negato dal primo giudice, atteso che, per giurisprudenza ampiamente consolidata, l’assegno riconosciuto al coniuge meno abbiente deve tendere al mantenimento del tenore di vita da questo goduto durante la convivenza matrimoniale e che indice di tale tenore di vita può essere l’attuale disparità di posizioni economiche tra i coniugi (Cass. n. 2156 del 2010). In sostanza il ricorrente propone profili e situazioni di fatto, insuscettibili di controllo in questa sede, a fronte di una sentenza caratterizzata da motivazione adeguata e non illogica.

Il giudice a quo, infatti, ha chiarito che sussiste una disparità di posizioni economiche, a favore del marito, il cui reddito annuo da lavoro di circa 65.000,00 si contrappone a un reddito nullo o saltuario (da attività di parrucchiera, già interrotto per molti anni, per ragioni familiari), mentre i redditi immobiliari si compensano tra di loro.

Dunque il giudice, a differenza di quanto afferma il ricorrente, ha tenuto conto della situazione immobiliare dei due coniugi che hanno diviso il patrimonio comune, frutto di cospicui acquisti compiuti in costanza di matrimonio (come afferma lo stesso ricorrente nel suo ricorso ove elenca i beni attribuiti alla moglie).

Così, infine, il terzo mezzo, con il quale il ricorrente si duole del mancato riconoscimento del danno cagionatogli dal procedimento di separazione giudiziale, avendo egli intenzione di pervenire – contro l’ostinato contrario comportamento del coniuge – ad una separazione consensuale che – come rivela ancora l’attuale contenzioso – era solo una speranza illusoria, vista la contrapposizione esistente sui termini del regolamento.

In ogni caso, giammai l’avere il coniuge fatto valere il suo diritto a conseguire una corretta regolamentazione delle condizioni della propria separazione personale, avvalendosi del diritto di azione, che l’art. 24 Cost. garantisce a tutti, può costituire causa di danno ingiusto, difettando proprio l’ingiustizia di esso in ragione dell’esercizio di un diritto di rango costituzionale.

In conclusione, si deve disporre il giudizio camerale ai sensi degli artt. 380-bis e 375 n. 5 c.p.c.».

Letta la memoria di parte ricorrente.

Considerato che il Collegio condivide la proposta di definizione contenuta nella relazione di cui sopra;

che le osservazioni critiche contenute nella memoria di parte ricorrente non colgono nel segno;

che, secondo tale memoria, con riferimento al primo motivo di ricorso, sulla premessa in fatto secondo cui l’immobile adibito ad abitazione familiare, seppure catastalmente un unicum, si assume, che esso risulterebbe «costituito da due immobili autonomi, indipendenti e separati» onde l’applicabilità del principio già affermato dalla Corte circa l’esclusione dell’estensione di casa coniugale a quelle presso località di villeggiatura o usate per soggiorni temporanei o stagionali (Cass. n. 3934 del 1980);

che, con riferimento al secondo si insiste nel suo accoglimento in ragione dello stesso provvedimento reso in sede divorzile ove il GI ha ridotto l’assegno ad € 300,00 mensili.

Considerato che con la prima osservazione,lungi dal porsi in contrasto con il principio enunciato nella proposta di definizione della controversia, il ricorrente tende ad applicarne al caso un altro, del tutto ellittico e distante da quello sopra puntualizzato, tanto più che lo stesso ricorrente allega che l’immobile adibito ad abitazione familiare, è catastalmente un unicum, anche se si assume, che esso risulterebbe «costituito da due immobili autonomi, indipendenti e separati» (in verticale), in tal modo confermando però la volontà, tacita, dei coniugi di mantenere una doppia allocazione dello stesso, abilitando ciascuno di essi (e quindi anche l’odierna intimata) a vivere in altro settore (sia pure separato) dell’unico immobile, anche grazie alla relativa autonomia di vita domestica, senza così porre in essere il comportamento censurato, per essersi verificata una separazione di fatto, prima ancora che di diritto, tra i due litiganti;

che la seconda osservazione non ha pregio in quanto il ricorrente allega un accertamento giudiziale successivo, compiuto in sede divorzile e (come risulta dal provvedimento allegato) frutto dell’accertamento compiuto in un momento successivo dal giudice del diverso procedimento, introducendo considerazioni del tutto inammissibili in questa sede;

che, in conclusione, il ricorso deve essere respinto; che non vi è luogo a provvedere sulle spese, non avendo l’intimata svolto difese in questa fase;

che poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater,del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012,dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Dispone che in caso di diffusione dei presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.