Il G.I.P. accoglie la richiesta del P.M. all’archiviazione usando, per la motivazione, un modulo prestampato. I Supremi Giudici bacchettano il magistrato (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 18 dicembre 2007, n. 46982).

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTISTI Mariano – Presidente

Dott. LATTANZI Giorgio – Consigliere

Dott. GRASSI Aldo – Consigliere

Dott. FERRUA Giuliana – Consigliere

Dott. MILO Nicola – Consigliere

Dott. CANZIO Giovanni – Consigliere

Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere

Dott. ROMIS Vincenzo – Consigliere relatore

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da P.E.M., n. il (…), avverso l’ordinanza del GIP del Tribunale di Milano in data 22 giugno 2006;

Udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Vincenzo Romis;

Letta la requisitoria del P.M., in persona del Dott. Febbraro Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

OSSERVA

 

1.- Il 26 aprile 2005 veniva depositato, nell’interesse della S.M.I.S.A., il cui rappresentante legale era P.E.M., un esposto-denuncia contro ignoti, con richiesta di sequestro, per un’ipotesi di reato di falso relativo all’intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. L. (il 95%, con valore nominale pari a 490.634,05 euro), controversa tra la stessa S.M.I.S.A. e B.F..

Il P.M. presso il Tribunale di Milano non riteneva di disporre il sequestro e, all’esito delle indagini svolte, avanzava al G.I.P. richiesta di archiviazione del procedimento.

Con atto depositato il 9 febbraio 2006 il difensore del legale rappresentante della denunciante S.M.I.S.A. presentava opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 410, comma primo, del codice di procedura penale, sull’asserito rilievo della lacunosità delle indagini, rappresentando la necessità di acquisizioni documentali, assumendo in particolare che la S.M.I.S.A. nell’esposto-denuncia aveva precisato di non aver mai sottoscritto un documento per il trasferimento a chicchessia delle azione della L., ad essa S.M.I. fiduciariamente intestate.

Il G.I.P. del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta formulata dal P.M., disponeva, con provvedimento “de plano” in data 22 giugno 2006, l’archiviazione del procedimento

2 – Ha proposto ricorso per cassazione (deducendo che l’archiviazione “de plano” può essere disposta solo quando l’opposizione sia inammissibile e la notizia di reato risulti infondata) il denunziante P.E.M. – nella sua veste di legale rappresentante della S.M.I. S.A. – il quale ha sostenuto la illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo atto di opposizione, denunciando altresì vizio di mancanza di motivazione avendo il G.I.P. adottato un prestampato contenente mere formule di stile, nulla argomentando circa la ritenuta inutilità dell’ulteriore attività di indagine richiesta, nonchè relativamente all’inammissibilità dell’opposizione o l’infondatezza della “notitia criminis”.

Il Procuratore Generale presso questa Corte, con la sua requisitoria scritta, ha sollecitato declaratoria di inammissibilità del gravame, richiamando, a sostegno della propria richiesta, il principio di diritto così enunciato dalla Quinta Sezione di questa Corte con la sentenza n. 13 del 25 ottobre 2005-3 gennaio 2006 (P.O. in proc. c/ ignoti): “in tema di delitti contro la fede pubblica il denunciante-danneggiato non ha diritto a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione né ad opporsi all’archiviazione medesima né ad intervenire nell’eventuale camera di consiglio: trattasi infatti di reati che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico – ossia la fiducia nella genuinità materiale e nella veridicità di determinati documenti – e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa ma semplicemente di danneggiato.

Ne consegue che il privato denunziante il quale assuma di essere danneggiato da un reato di falso in atto pubblico non è legittimato a proporre ricorso in cassazione avverso il decreto di archiviazione emesso dal G.I.P.”.

Il difensore del ricorrente ha quindi depositato memoria ex art. 611 c.p.p. finalizzata a contrastare le argomentazioni svolte dal Procuratore Generale nella requisitoria con la quale, come sopra ricordato, è stata sollecitata declaratoria di inammissibilità del gravame.

Con tale memoria, in particolare, il ricorrente ha sostenuto il carattere di plurioffensività del delitto di falso in esame, da cui deriverebbe un rapporto di connessione funzionale, come tale tutelabile, tra la tutela generale della fede pubblica e quella particolare di uno specifico interesse; a sostegno della propria tesi il ricorrente così testualmente si è espresso: “limitare l’individuazione del bene giuridico protetto alla sola fede pubblica non sembra sufficiente a determinare il disvalore del falso; infatti è la connessione della fede pubblica all’interesse pregiudicato di volta in volta dall’utilizzo dello specifico documento, che può rendere concreto e aderente alla singola vicenda il valore, indubbiamente astratto e di portata generale, quale è appunto quello della fede pubblica” (pag. 2 della memoria)

3 – Il procedimento è stato assegnato alla V Sezione penale di questa Suprema Corte, la quale, con ordinanza del 30 maggio 2007 (depositata il 22 giugno 2007), ne ha disposto la rimessione a queste Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 618 c.p.p..

Ha infatti rilevato la sezione remittente che in ordine al motivo di doglianza, concernente la prospettata illegittimità della mancata fissazione dell’udienza camerale in presenza di tempestivo e formale atto di opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. in materia di reato di falso, si è determinato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità: ed invero, mentre alcune decisioni, muovendo dal presupposto della natura plurioffensiva del reato, hanno concluso per il riconoscimento al denunciante della veste di persona offesa – con conseguente diritto di ricevere l’avviso previsto dall’art. 408, comma secondo, del codice di rito, e proporre quindi opposizione alla richiesta di archiviazione del P.M. – altre si sono espresse in senso contrario.

4.- Il Primo Presidente ha fissato l’udienza del 25 ottobre 2007 di camera di consiglio per la discussione del gravame.

La questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite può così sintetizzarsi: se i delitti contro la fede pubblica tutelino l’interesse pubblico e solo di riflesso l’interesse del singolo al quale, di conseguenza, non verrebbe riconosciuta la qualità di persona offesa, oppure, in quanto reati plurioffensivi, tutelino anche la sfera giuridica del soggetto (denunciante-danneggiato) nei cui confronti il documento o la falsa dichiarazione vengano fatti valere, soggetto che, in tal caso, sarebbe legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.

Su detta questione, come richiamato dall’ordinanza di rimessione, è insorto un contrasto nella giurisprudenza delle sezioni semplici di questa Suprema Corte, ed in particolare anche all’interno della stessa Quinta Sezione alla quale, secondo la previsione tabellare, spetta la competenza a decidere i ricorsi in materia di reati di falso.

4.1- Un primo indirizzo interpretativo è seguito da coloro i quali ritengono che il bene giuridico protetto nelle falsità documentali sia la fede pubblica e in essa si esaurisca: i sostenitori di tale tesi escludono, dunque, che al privato danneggiato dal reato spetti l’avviso della richiesta di archiviazione e la legittimazione a proporre opposizione.

In questi termini si esprime la decisione Della Gatta (ordinanza, Sez. V, 27 marzo 2001, p.o. in proc. Della Gatta, dep. 13 luglio 2001, n. 28608, rv. 219639), la quale – premesso che l’opposizione alla richiesta di archiviazione compete unicamente alla persona offesa, che deve essere identificata nel titolare del bene giuridico immediatamente leso dal reato – afferma quanto segue: “poiché l’elemento del danno è del tutto estraneo alla struttura dei reati di falso (la cui obbiettività giuridica consiste nella tutela della genuinità materiale e nella veridicità ideologica di determinati documenti), il privato, anche se – in concreto – risulti ingiustamente danneggiato dalla condotta dell’indagato, non è legittimato alla proposizione del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di archiviazione”.

Detto principio muove dal presupposto che “per il perfezionarsi del reato è sufficiente il mero pericolo che dalla contraffazione o dall’alterazione possa derivare alla pubblica fede, che è l’unico bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice”.

Analogamente la sentenza Saccucci (Sez. V, 18 ottobre 2002, dep. il 29 novembre 2002, rv. 222981), per la quale “il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione in quanto si tratta di reati che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico – costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito – e solo mediatamente e di riflesso ledono l’interesse del singolo il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato”.

Argomentazioni che sostengono anche le conclusioni della sentenza Cucullo (Sez. V, 16 marzo 2004, dep. il 22 giugno 2004, n. 27967, rv. 228891), per la quale i delitti contro la fede pubblica offendono direttamente l’interesse pubblico costituito dalla fiducia che la società ripone su oggetti, segni e forme esteriori ai quali l’ordinamento riconosce particolare credito e solo di riflesso ledono l’interesse del singolo, il quale, pertanto, non riveste la qualità di persona offesa dal reato: ergo, il denunziante-danneggiato non è legittimato a ricevere l’avviso della richiesta di archiviazione; dette argomentazioni sono altresì proprie della sentenza Zaccaria (Sez. V, 19 settembre 2005, p. o. in proc. Zaccaria, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233208), della sentenza Erdas (Sez. V, 17 febbraio 2005, dep. il 24 marzo 2005, n. 11669, rv. 231497), della sentenza della V Sezione n. 13 del 3 gennaio 2006 (p.o. in proc. ignoti, rv. 232614), della sentenza Scarano (Sez. V, 19 settembre 2005, p.o. in proc. Scarano, dep. il 16 dicembre 2005, rv. 233204).

In senso analogo si esprime anche la sentenza Reggiani (Sez. V, 15 gennaio 2007, dep. 9 febbraio 2007, rv. 235864), la quale, in tema di falso in testamento olografo, afferma che nei delitti contro la fede pubblica “deve comunque ritenersi che, solo quando si tratti di reati non perseguibili d’ufficio, il riconoscimento della legittimazione a proporre la querela possa comportare l’equiparazione del danneggiato alla persona offesa anche ai fini processuali”: conseguentemente, stante la procedibilità d’ufficio, viene esclusa la legittimazione del danneggiato, costituito parte civile, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, che la legge attribuisce solo alla persona offesa costituita parte civile.

Alla base di questo orientamento vi è, dunque, la nozione di fede pubblica come bene immateriale a carattere collettivo che fa capo all’intera collettività non personificata, a tutti i cittadini ed a ciascuno non uti singulus ma uti civis: il danno sociale del falso si concreta e si manifesta esclusivamente nella c.d. immutatio veri mentre nessun rilievo, ai fini della sua illiceità, ha l’interesse del soggetto danneggiato in concreto dal falso, il quale non essendo titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, non è, con riferimento al problema che in questa sede rileva, persona offesa dal reato e, pertanto, non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione.

4.2- Le conclusioni appena esposte non sono condivise da un diverso indirizzo interpretativo, il quale appare orientato a recuperare le fattispecie di falso ad una dimensione di “dannosità”. In questo filone si inserisce la sentenza Arnoldi (Sez. V, 12 marzo 2001, p.o. in proc. Arnoldi, dep. il 20 giugno 2001, rv. 219472), la quale afferma che nei delitti contro la fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione “può competere anche al denunziante”.

E ciò in quanto si tratta di reati idonei “a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere”, quindi reati aventi “carattere plurioffensivo, che li rende non assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro l’amministrazione della giustizia”, i quali integrano “fattispecie lesive dell’interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l’interesse del privato può assumere rilievo solo riflesso e mediato” (nella specie il denunciante, avendo scoperto una falsa firma recante il proprio nome e cognome su un modulo di adesione ad un partito politico, caratterizzato da una ben precisa denominazione, aveva presentato atto di denuncia-querela nei confronti dei responsabili territoriali di tale partito; la Suprema Corte ha annullato il decreto di archiviazione del G.I.P., sulla base del principio come enunciato).

Nella stessa direzione si pone anche la decisione Moscato (Sez. V, 4 luglio 2005, p.o. in proc. Moscato ed altri, dep. 29 luglio 2005, n. 28712, rv. 232205), la quale afferma che nell’ipotesi in cui il reato di falso (nella specie quello di cui all’art. 479 cod. pen.), leda, oltre l’interesse pubblico, anche diritti soggettivi, il titolare di tali diritti è persona offesa dal falso, con la conseguenza che gli spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale in ordine alla richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 408, commi 2 e 3 cod. proc. pen.: nella concreta fattispecie si ipotizzava la falsità di un rapporto dei Carabinieri relativo ad un sinistro automobilistico, falsità – come poi affermato dalla Cassazione – che “si riflette sul diritto del ricorrente a non subire gli effetti (patrimoniali) di un evento asseritamente mai verificatosi”, con conseguente legittimazione del denunziante all’esercizio delle facoltà proprie della persona offesa nel procedimento archiviatorio (anche se poi il ricorso è stato dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza, sul rilievo che i temi proposti con l’atto di opposizione erano risultati “palesemente estranei all’accertamento del reato di falso ex art. 479 cod. pen.” e, quindi, privi dei requisiti tassativamente previsti dall’art. 410, comma 1, cod. proc. pen.”, con la conseguente legittimità, nella concreta fattispecie, del provvedimento di archiviazione de plano adottato dal G.I.P.).

In conformità si esprime poi la sentenza Ziino (Sez. V, 13 giugno 2006, p.o. in proc. Ziino, dep. l’11 settembre 2006, rv. 235146), la quale afferma che, nei delitti contro la fede pubblica, “la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione spetta anche al denunziante qualora, in relazione al caso concreto, si accerti che la falsità abbia leso anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, trattandosi di reati plurioffensivi”.

Più precisamente, la sentenza Ziino, premesso che l’interesse tutelato dal falso documentale è senz’altro la fede pubblica, afferma che “ciò non esclude che la falsa attestazione possa essere per sé direttamente pregiudizievole di un diritto del singolo, la qualcosa va stabilita in concreto”.

Con la conseguenza che “solo se la giustificazione del decreto de plano fosse stata espressamente e concretamente rapportata all’esclusione di qualità di parte offesa del denunciante, che aveva richiesto di essere avvisato della richiesta di archiviazione del P.M., per l’assenza di incidenza diretta sul suo diritto privato del falso ipotetico, si sarebbe potuto stabilire se il giudice aveva o non violato il suo diritto al contraddittorio, unica ragione che giustifica il ricorso in questa sede”: in sostanza, il giudice ha deciso de plano senza previamente verificare se il denunciante, che aveva fatto richiesta ai sensi dell’art. 408, comma 2, cod. proc. pen., avesse realmente diritto all’avviso della richiesta di archiviazione, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato.

Alle medesime conclusioni perviene la sentenza Consolo (Sez. V, 15 gennaio 2004, dep. il 23 febbraio 2004, rv. 227939), la quale afferma che “il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza di diritti soggettivi, oltre che l’interesse pubblico”.

Ne consegue che “se l’attestazione contraria al vero concerne un fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente offesa dal reato cui spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della richiesta di archiviazione del P.M.”: nel caso portato all’esame della Suprema Corte, il falso ipotizzato riguardava la dichiarazione dell’atto pubblico che indicava la data di edificazione di una unità immobiliare cui era seguita la demolizione del manufatto, con danno per i muri portanti che interessavano la proprietà del denunziante; la Cassazione ha, quindi, dichiarato inammissibile il ricorso in quanto “nella specie il diritto del ricorrente non è oggetto dell’atto che si assume falsificato, che concerne esclusivamente la proprietà privata del denunciato e non quella del denunciante, laddove le conseguenze di danno nei confronti di quest’ultimo si dicono scaturite da un comportamento ulteriore (demolizioni che hanno pregiudicato parti comuni dell’edificio), sebbene trovi presupposto storico nel tenore dell’atto”.

Nel medesimo filone si colloca la sentenza Todesca (Sez. V, 5 novembre 2002, p.o. in proc. Todesca, dep. 10 dicembre 2002, n. 43703, rv. 223220), la quale – premesso che l’interesse giuridico protetto dai delitti di falsità in atti ha carattere plurioffensivo – afferma che “riveste la qualità di parte offesa il denunziante di un falso documentale, incidente, anche in via di pericolo, sul suo specifico diritto, con la conseguenza che anche nei suoi confronti il G.I.P. …. deve provvedere a fare notificare l’avviso dell’udienza preliminare” (nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato non luogo a procedere nei confronti di un funzionario del Provveditorato agli Studi, il quale aveva omesso ogni verifica su una nota pervenuta all’Ufficio, contenente la falsa attestazione della rinunzia di una docente all’immissione in ruolo per un determinato anno scolastico.

La Suprema Corte ha ritenuto che il provvedimento adottato sulla base della falsa attestazione della avvenuta rinunzia alla immissione in ruolo compromettesse anche le effettive funzioni di verità e di certezza, relative alla posizione del docente di cui era stato falsificato l’atto, che derivavano dalla falsa documentazione).

Nella stessa direzione è anche la sentenza Ongaro (Sez. V, 19 settembre p.o. in proc. Ongaro 2005, dep. il 22 novembre 2005, rv. 232442), la quale, in tema di commercio di prodotti con segni falsi, sostiene che “il titolare del marchio contraffatto è persona offesa dal reato posto che la norma di cui all’art. 474 cod. pen., oltre alla fede pubblica, tutela anche il diritto all’esclusiva del legittimo titolare: ne consegue che questi, nell’ipotesi di richiesta di archiviazione, ha diritto a ricevere l’avviso di cui all’art. 408 cod. proc. pen.”.

4.3- Come è agevole rilevare, i due orientamenti, appena illustrati, che hanno dato vita al contrasto che ha reso necessario l’intervento di queste Sezioni Unite, muovono dalla diversa interpretazione circa la natura dei delitti contro la fede pubblica ed il bene oggetto della tutela penale in materia:

a) il primo indirizzo tende a privilegiare in maniera assoluta la valenza pubblicistica di detta tutela, con esclusivo riferimento alla fede pubblica quale esigenza dei cittadini di poter fare affidamento sulla genuinità e veridicità di atti e documenti che hanno rilevanza pubblica: di talchè l’interesse del privato rileverebbe solo di riflesso, con conseguente impossibilità, per lo stesso, di assumere la veste di parte offesa pur se, in ipotesi, concretamente danneggiato dalla falsità;

b) viceversa, il secondo orientamento, pur confermando che nella fede pubblica deve individuarsi il bene primario oggetto di tutela, ritiene tuttavia che, non potendo prescindersi dalla relazione che intercorre tra l’atto non genuino ed il privato, sulla cui sfera giuridica la falsità vada in concreto ad incidere, dovrebbe riconoscersi ai delitti contro la fede pubblica natura plurioffensiva: con la conseguenza che al privato danneggiato da tale reato spetterebbero i diritti e le facoltà previsti per la parte offesa.

5 – Ritengono queste Sezioni Unite che, in presenza di un contrasto interpretativo così delineatosi, ai fini della risoluzione del contrasto stesso, pur relativo ad una questione di carattere processuale, debbano necessariamente prendersi in considerazione soprattutto profili di carattere sostanziale, con specifico riferimento alla natura dei delitti contro la fede pubblica.

Ferma restando, evidentemente, la necessità di mantenere distinte le figure della persona danneggiata e della persona offesa dal reato, posto che il legislatore, secondo i casi, ha indicato l’una o l’altra, con l’attribuzione di un ruolo diverso, anche con riferimento a poteri e facoltà: di tal che, ai fini che in questa sede rilevano, con riferimento agli artt. 408 e segg. c.p.p., lo sforzo interpretativo deve riguardare esclusivamente la figura della persona offesa (in relazione ai delitti contro la fede pubblica).

Giova ricordare che il previgente codice Zanardelli risolveva, sul piano normativo, la questione, circa la offensività dei reati di falso, condizionando espressamente la punibilità delle falsità in atti pubblici (artt. 275, 276, 279, 283) e in atti privati (art. 280) alla circostanza che dalla falsificazione potesse “derivare pubblico o privato nocumento”.

Tale formula è stata poi soppressa nel codice Rocco, che sembrerebbe aver inteso incentrare la tutela su una “fede pubblica” da salvaguardare in modo assoluto: e ciò, malgrado il forte dissenso, pressochè unanime, della dottrina e giurisprudenza dell’epoca, e sebbene nella stessa Relazione ministeriale di accompagnamento al codice è dato leggere che tale omissione “non può assolutamente apparire in contrasto con le fonti e resta perfettamente vero che falsitas non punitur quae non solum non nocuit, sed non erat apta nocere”.

Tuttavia, nonostante questa indicativa affermazione di principio, circa l’ineludibile vaglio di idoneità offensiva cui dovrebbe essere condizionata la rilevanza penale del falso, per un verso l’assenza di un’espressa previsione sul danno, e, per altro verso, la definizione che nella succitata Relazione viene data della pubblica fede – come “fiducia che la società ripone negli oggetti, segni e forme esteriori (monete, emblemi e documenti) ai quali l’ordinamento giuridico attribuisce un valore importante” (ulteriormente precisata da un passaggio dei lavori preparatori, in cui si afferma che “non si può concepire falsità in atto pubblico che non abbia la possibilità di ledere quell’interesse sociale che si chiama pubblica fede”: Lavori preparatori, IV, 373) – hanno forse incoraggiato, anche in sede applicativa, tendenze formalistiche.

E’ da ritenere che il contrasto di cui ci occupiamo non sarebbe mai sorto, se fosse stata adottata l’esplicita previsione sul danno contenuta nel Codice Zanardelli.

Nel vigente codice penale i delitti contro la fede pubblica trovano collocazione nel Titolo VII.

La fede pubblica – nel significato che emerge dalla Relazione al progetto definitivo del codice penale, cui si è appena fatto cenno – costituisce dunque un vero e proprio bene giuridico, ancorchè di natura immateriale e collettiva, dotato di una sua autonomia, tutelato dai delitti in argomento con riferimento alla certezza ed alla speditezza del traffico economico e giuridico.

Così definita la nozione di fede pubblica, da tutti unanimemente condivisa anche in dottrina, da più parti è stato tuttavia fatto rilevare come in realtà il falso non risulti quasi mai fine a se stesso, costituendo, il più delle volte, solo il mezzo per conseguire altro obiettivo che costituisce il vero scopo rispetto alla “immutatio veri”.

Ed è stato quindi sottolineato che, se il perseguimento di tale fine si riflette in modo incisivo sulla sfera giuridica di un soggetto, non è possibile ignorare, sul piano giuridico, tale ulteriore conseguenza, e non consentire, al soggetto che quella “immutatio veri” ha concretamente subìto, di dialogare nel processo con una veste qualificata.

6 – Tutto ciò premesso, ritengono queste Sezioni Unite che ai delitti contro la fede pubblica debba riconoscersi, oltre ad un’offesa alla fiducia che la collettività ripone in determinati atti, simboli, documenti, etc. – bene oggetto, senza dubbio, di primaria tutela dei delitti in argomento – anche una ulteriore e potenziale attitudine offensiva, che può rivelarsi poi concreta in presenza di determinati presupposti avuto riguardo alla reale e diretta incidenza del falso sulla sfera giuridica di un soggetto il quale, in tal caso, è di conseguenza legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione.

Molteplici sono gli argomenti che sorreggono e confortano l’individuazione del bene protetto dai delitti contro la fede pubblica – con riferimento al principio di offensività – nei termini così precisati.

6.1 – Quanto ai profili di natura sostanziale, meritano attenzione, ai fini che qui interessano, e sotto differenti aspetti, le categorie del falso grossolano e del falso innocuo.

Il falso grossolano è quello che si presenta così evidente da risultare inidoneo ad ingannare chicchessia: il che dovrebbe essere sufficiente a farlo considerare inoffensivo, a prescindere, cioè, da qualsiasi altra valutazione circa la sua eventuale idoneità a porre in pericolo anche ulteriori interessi.

Nella prassi giudiziaria, laddove la falsità risulti macroscopica, ed “ictu oculi” percepibile, il fatto viene di regola considerato penalmente irrilevante (Sez. 5, n. 11498/90, imp. Casarola, RV. 185132) proprio perché incapace di ingenerare errore nei terzi, circa l’affidabilità del documento (o del segno, ecc.): in detta ipotesi, per la valutazione di inoffensività del fatto, è evidentemente sufficiente, dunque, considerare il bene giuridico rappresentato dalla pubblica fede.

In estrema sintesi, può qualificarsi come falso grossolano il falso inoffensivo rispetto al bene “fede pubblica”, proprio per l’inidoneità dello stesso a trarre in inganno la collettività; inidoneità che, derivando dalle modalità della falsificazione – prevalentemente di natura materiale – comporta una valutazione giudiziale in punto di fatto.

Si parla, invece, di falso innocuo, per indicare – in generale – il falso che risulti “inoffensivo per la concreta inidoneità ad aggredire gli interessi da esso potenzialmente minacciati” (così come precisato da autorevole esponente della dottrina): con conseguente necessità, per l’interprete, di un accerta¬mento in concreto, in relazione alle peculiarità del singolo caso, onde verificare i possibili effetti della falsità con riferimento a quella determinata situazione giuridica interessata dalla falsità.

Un falso – pur astrattamente idoneo ad ingannare il pubblico – rivelatosi però privo di qualsiasi concreta incidenza sulla sfera giuridica di chicchessia, dovrebbe essere valutato penalmente irrilevante, così come affermato in giurisprudenza (Sez. 5, n. 7875/87, imp. Dell’Acqua, rv. 176302; Sez. 5, n. 421/07, imp. Scaricabarozzi, rv. 206630) e sostenuto in dottrina: e non mancano Autori secondo i quali il falso innocuo rappresenta una categoria più estesa del falso grossolano, in quanto comprensiva non solo di quest’ultimo, ma anche di tutte le falsità incapaci di nuocere a qualsiasi soggetto.

In sostanza, il falso innocuo può definirsi tale in due diversi significati.

In senso lato, il falso innocuo abbraccia anche il falso grossolano, non potendo certo ipotizzarsi un falso grossolano che non sia nel contempo anche innocuo.

Può parlarsi di falso innocuo in senso stretto, ove si voglia considerare la sua inoffensività non con riferimento al bene “fede pubblica”, bensì in relazione ad un interesse ulteriore e connesso, tutelato dalla singola fattispecie incriminatrice ove alla stessa si riconosca natura plurioffensiva: l’innocuità del falso, cioè, può risultare anche al di fuori delle ipotesi di falso grossolano, nel caso in cui risulti esclusa – in forza di una valutazione giudiziale in punto di di¬ritto, questa volta, e non di fatto – l’effettiva e concreta esposizione a pericolo di quei beni ulteriori rispetto alla fede pubblica, che, per i sostenitori della tesi della plurioffensività, si assumono oggetto di tutela da parte delle fatti¬specie “de quibus”.

La nozione di falso innocuo, in particolare, sembra dunque confortare l’indirizzo interpretativo – che, come sopra anticipato, queste Sezioni Unite ritengono condivisibile – secondo cui ai delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, in primo luogo e soprattutto, un’offesa alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti e documenti di rilevanza pubblica, ma, altresì, una ulteriore, e potenziale, attitudine offensiva che può concretizzarsi nei confronti di una determinata situazione giuridica.

6.2 – Un punto di rottura con una visione formalistica, ed assolutamente pubblicistica, dei delitti contro la fede pubblica, è sicuramente rappresentato dall’importante innovazione normativa costituita dall’art. 493 bis cod. pen. – introdotto dall’art. 89 della legge 24 novembre 1981, n. 689 – che ha subordinato al regime della perseguibilità a querela della persona offesa la punibilità delle ipotesi di falso in atti privati di cui agli articoli 485, 486, 488, 489 e 490 cod. pen. (si procede tuttavia di ufficio se i fatti riguardano un testamento olografo).

L’introduzione della procedibilità a querela – che rappresenta la tipica espressione della disponibilità individuale delle conseguenze anche sanzionatorie della lesione dell’interesse protetto – ha fatto emergere la lesività di tipo privatistico sottostante ai reati di falso, segnando un rafforzamento della teoria della plurioffensività.

Commentando tale novella legislativa, in dottrina fu subito evidenziato che si trattava di una previsione di “notevole importanza sul piano ricostruttivo” e che ad essa andava “riconosciuto non tanto il merito di avere definitivamente sepolto l’aspirazione ad una generalizzazione pubblicistica dell’interesse tutelato, che fosse idonea a fondare l’unità delle categorie delle falsità documentali (già da tempo abbandonata assieme al concetto di pubblica fede), quanto piuttosto quello…..di avere formalizzato attraverso l’introduzione della perseguibilità a querela l’identificazione dell’offesa per questi reati con la lesione dell’interesse o degli interessi sottostanti al documento falsificato”, posto che è “la titolarità di questi ultimi a legittimare alla presentazione della querela”.

In altri termini, tale legittimazione “può essere affermata solo in virtù della titolarità da parte del soggetto dello specifico interesse a cui l’atto era chiamato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione di quell’atto era destinato”.

In questo senso, la sentenza De Simone (Sez. V, 7 febbraio 1992, dep. il 27 marzo 1992, rv. 189707) – muovendo evidentemente dal presupposto della individuazione della legittimazione alla querela solo con riferimento allo specifico interesse al quale l’atto era destinato a dare attuazione ovvero alla cui lesione la falsificazione dell’atto era finalizzata – afferma che “per la perseguibilità del reato di foglio firmato in bianco.

…. il diritto di querela compete non soltanto al soggetto della cui firma in bianco si sia abusato, ma anche ad ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno o sia rimasto sottoposto a potenziali effetti pregiudizievoli, anche sul piano non patrimoniale, dell’atto affetto da falsità”.

Nella stessa direzione si pone la sentenza Schiavone (Sez. V, 6 giugno 1996, dep. il 20 luglio 1996, rv. 206290) la quale – premesso che il delitto di cui all’art. 485 cod. pen. richiede, oltre la formazione della scrittura privata, l’uso di questa – precisa che assume la veste di persona offesa in tale reato, e quindi la titolarità del diritto di querela, pure il soggetto che risenta un danno in conseguenza di tale uso”.

Principi ribaditi anche dalla sentenza Tomaselli (Sez. V, 24 febbraio 2003, dep. il 18 marzo 2003, rv. 224263), che, in tema di reati di falsità in titoli di credito, sostiene quanto segue: “per persona offesa dal reato deve intendersi non soltanto il soggetto al quale sia stata falsamente attribuita l’emissione dell’atto falsificato, ma anche la persona che abbia ricevuto comunque un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto del titolo” (nella specie la Suprema Corte ha riconosciuto la qualità di persona offesa, legittimata a presentare la querela, ex art. 493 bis cod. pen., al beneficiario che aveva presentato all’incasso un assegno falsificato).

A conclusioni analoghe perviene anche la sentenza Cali (Sez. V, 26 novembre 1997, dep. il 20 gennaio 1998, rv. 209884), in cui, in tema di falsità in scrittura privata, si afferma che persona offesa, come tale legittimata alla presentazione della querela, è non solo la persona della quale sia stata falsificata la firma, ma anche ogni altro soggetto che abbia ricevuto un danno per l’uso che in concreto sia stato fatto della scrittura (fattispecie in tema di falso in cambiali).

Nel quadro così delineato resta difficile individuare quale sia il ruolo della fede pubblica, dato che l’area della persona offesa sembrerebbe estendersi fino a comprendere chiunque abbia ricevuto un danno.

Fatto sta che si tratta di reati aggregati e classificati sotto la categoria dei delitti contro la fede pubblica, la quale dunque, in tutta evidenza, non può considerarsi, quanto alle ipotesi di falso in atti privati, l’unico bene protetto, posto che il danno evidenziato dalle decisioni appena citate è per l’appunto un danno patrimoniale.

E, difatti, il passo immediatamente successivo a queste affermazioni lo si trova nella sentenza Di Guglielmo (Sez. V, 23 maggio 2006, p.o. in proc. Di Guglielmo, dep. il 24 luglio 2006, n. 25617, rv. 234522), la quale non solo costituisce specificazione e applicazione di questi princìpi ma anche ulteriore rafforzamento, affermando che “nei delitti contro la fede pubblica, ed in particolare in quelli a querela della persona offesa, il reato di falso, oltre l’interesse pubblico, lede anche i diritti della parte lesa, cui di conseguenza spettano le facoltà riconosciute in tema di archiviazione del procedimento alla persona offesa”.

A sostegno di questa conclusione la sentenza Di Guglielmo afferma che “dopo la introduzione dell’art. 493 bis cod. pen. (casi di perseguibilità a querela) per effetto della legge n. 689 del 1981, …. il pregiudizio nei delitti di falso documentale non si esaurisce nella lesione della pubblica fede, vale a dire nel danno sociale che si ricollega all’alterazione della verità e, quindi, alla stessa condotta di falso, ma comprende anche l’offesa di una specifica situazione probatoria di un soggetto determinato”; in altri termini, l’attribuzione del potere di querela comporta il riconoscimento della qualità di persona offesa al soggetto che dal reato ha ricevuto danno.

Con conseguente rilevanza dell’interesse concreto alla non falsità del documento; rilevanza resa palese, per così dire, dall’assoggettamento della falsità, sia pure in scrittura privata, al regime della punibilità a querela.

Posto che le ipotesi di reato qui in esame rimangono, comunque, apparentate alle altre ipotesi di falso riunite attorno ad un unico bene, sembra che la nuova formulazione normativa in esame costituisca comunque un rafforzamento della teoria della plurioffensività.

E, difatti, si è puntualmente rilevato in dottrina che “per chi sostiene la teoria della natura plurioffensiva di questi reati, una tale innovazione legislativa potrebbe essere letta come la conferma o la presa d’atto dell’esistenza, accanto alla fede pubblica, dell’interesse di volta in volta tutelato dal singolo documento, nella cui titolarità trova origine la legittimazione alla presentazione della querela”.

Si è, ancora, affermato che “riguardata da questo punto di vista, la differenza con i falsi in atto pubblico, stante l’identità della struttura tipica dei fatti, risiede unicamente nella diversa natura degli atti o, meglio, nella diversità delle funzioni ad essi assegnate, che comporta una collocazione dei relativi interessi in una dimensione pubblica o almeno diffusa”.

Di talchè, con specifico riferimento alla questione che in questa sede rileva, ci si può chiedere se la diversa natura degli atti – scrittura privata e atto pubblico – comporti nel secondo caso l’elusione, la fine dell’interesse privato. Certamente, la sussistenza, con riguardo all’atto pubblico, (soprattutto) di un interesse pubblico o collettivo è tale da giustificare il differente trattamento sanzionatorio (da uno a sei anni di reclusione, mentre per la scrittura privata da sei mesi a tre anni) e il differente regime di procedibilità, previsti dalle norme incriminatrici in considerazione; ma, anche alla luce di quanto si è fin qui detto – e richiamando altresì tutte le considerazioni svolte in particolare esaminando le figure del falso grossolano e del falso innocuo – non si individua alcuna valida ragione per affermare che detto interesse pubblico sia tale da giustificare anche l’azzeramento, sempre ed in assoluto, dell’interesse privato nel caso di falso in atto pubblico.

6.3 – Conclusivamente, deve, dunque, affermarsi, il seguente principio di diritto:

“i delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione”.

7 – Nella fattispecie in esame non può assolutamente dubitarsi della lesione concreta, che alla sfera giuridica della S.M.I.S.A. (legalmente rappresentata dal denunciante P.E.M.) potrebbe derivare da un eventuale reato di falso, relativamente alla intestazione di un pacchetto azionario della s.p.a. L. (il 95%, con valore nominale pari a 490.634,05 euro) controversa tra la stessa denunciante e B.F., così come prospettato nella denuncia: ne deriva che, in applicazione del principio quale sopra enunciato, deve certamente riconoscersi al denunciante la veste di parte offesa, con conseguente suo diritto a proporre opposizione, e con obbligo, per il G.I.P., di valutare l’opposizione stessa e provvedere motivatamente al riguardo.

Per quanto si rileva dagli atti, il denunciante (avendo ricevuto avviso della richiesta di archiviazione del P.M.) ha presentato formale atto di opposizione – con argomentate richieste di ulteriori indagini, anche specificamente indicate, in relazione al reato ipotizzato e con riferimento alle dichiarazioni rese dal B. alla Polizia Giudiziaria – ed il G.I.P. ha deciso in conformità alla richiesta del P.M., con provvedimento adottato “de plano”, con l’uso di un modulo prestampato, senza prendere in alcun modo in esame la proposta opposizione: e giova in proposito ricordare che, per giurisprudenza consolidata di questa Corte, “qualora sia stata proposta opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal P.M., il G.I.P., ai sensi dell’art. 410 cod. proc. pen., può provvedere <>, esclusivamente se ricorrono due condizioni:

a) inammissibilità dell’opposizione;

b) infondatezza della notizia di reato, e di entrambe deve dare atto in motivazione” (in termini, “ex plurimis”, cfr. Sez. V, N. 6792/99, cc. 14/12/1998, imp. Massone, RV.212434).

L’impugnato provvedimento deve essere quindi annullato senza rinvio, con trasmissione degli atti, per quanto di competenza, al G.I.P. del Tribunale di Milano, il quale si atterrà al principio di diritto quale enunciato da queste Sezioni Unite.

P. Q. M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Milano.

 

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2007

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2007