Il materiale pedopornografico individuato quale oggetto materiale delle condotte di procacciamento e detenzione (caso STASI) (Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 5 marzo 2014, n. 10491).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TERESI Alfredo – Presidente –

Dott. SAVINO Mariapia – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.A. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 4506/2012 CORTE APPELLO di MILANO, del 14/03/2013;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 16/01/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SPINACI Sante, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv. GIARDA Angelo Luigi, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell’odierno ricorrente S.A., con sentenza n. 1782 del 14.3.2013 dep. Il 7.5.2013, confermava la sentenza di condanna emessa il 13.2.2012 nei confronti dello stesso dal Tribunale di Vigevano, con condanna alla rifusione delle ulteriori spese processuali.

Il giudice di prime cure aveva ritenuto lo S. colpevole del delitto p. e p. dagli artt. 81 cpv. e 600 quater c.p. perchè, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 600 ter c.p., consapevolmente si procurava o comunque deteneva materiale pornografico realizzato utilizzando minori di anni 18.

L’originaria imputazione faceva riferimento all’essersi procurato o, comunque, a detenere:

– sul computer portatile marca Compaq Presario 2800:

cinque filmati contenuti nei files (OMISSIS); (OMISSIS);

(OMISSIS); (OMISSIS); (OMISSIS); (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), tutti ritraenti minori nudi e con gli organi genitali in vista impegnati in atti sessuali con altri minori e o con adulti.

– su un hard disk esterno marca Compassi:

quattro filmati contenuti nei seguenti files: (OMISSIS);

(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), tutti riproducenti minori nudi e con gli organi in vista impegnati in atti sessuali con altri minori e/o con adulti.

Fatto commesso in (OMISSIS) tra il (OMISSIS).

All’udienza del 24.10.2011 il PM aveva esteso l’originaria imputazione a tutte le sequenze video indicate nell’allegato n. 9 (“selezione video”) della perizia disposta dal GIP con riferimento alle sequenze dal n. 11 al n. 15 sul computer portatile e dalla n. 16 alla n. 64 sull’hard disk esterno.

Il Tribunale di Vigevano il 13.2.2012 aveva pronunciato condanna in relazione solo ad una parte dell’originaria imputazione.

Aveva, infatti, dichiarato la non procedibilità dell’azione penale in relazione ai 47 spezzoni video indicati nella tabella riassuntiva depositata dal collegio peritale all’udienza del 19/12/2011, mentre aveva dichiarato lo S. colpevole della residua imputazione, condannandolo alla pena di Euro 2540 di multa, di cui Euro 1140 in sostituzione di giorni 30 di reclusione, con il beneficio della non menzione e le pene accessorie di legge.

2. Tutto era nato da un sequestro operato nell’agosto 2007 dai carabinieri allo S., nell’ambito di indagini su altro più grave delitto, di un personal computer portatile e di un disco fisso esterno, il cui contenuto, esaminato dal RIS di Parma, determinava la sua imputazione per i reati di cui agli artt. 600 ter e 600 quater c.p..

All’esito dell’udienza preliminare l’odierno ricorrente era stato prosciolto dal reato di divulgazione di materiale di pornografia minorile nonchè dalla detenzione di immagini di analogo contenuto, e rinviato a giudizio per la detenzione di alcuni filmati, cui peraltro si aggiungeva, su impulso del pm d’udienza, la contestazione ex art. 600 quater c.p., in relazione a tutti i 64 frammenti video rinvenuti sui supporti informatici in sequestro all’esito delle operazioni peritali.

Il Tribunale come detto, sull’eccezione difensiva di inammissibilità dell’ulteriore contestazione, concludeva che per la detenzione delle 47 sequenze video già oggetto di contestazione sotto il profilo della divulgazione, meglio descritte nella tabella riassuntiva depositata all’udienza del 19/12/2011, l’azione penale non poteva essere esercitata stante la preclusione costituita dal giudicato. Il giudice di prime cure osservava, tuttavia, che tale limitazione del thema decidendi alle sole 17 sequenze residue non comportava una restrizione del materiale probatorio utilizzabile.

3. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione lo S., con l’ausilio, del proprio difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

a. Erronea applicazione della legge penale e, segnatamente, dell’art. 600 quater c.p., rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), nonchè mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione rispetto alle risultanze processuali e, più precisamente, alle conclusioni peritali, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) -insussistenza dell’elemento oggettivo del reato de quo.

Il ricorrente ritiene che la motivazione contenuta nella sentenza della Corte d’appello di Milano sia viziata nella parte in cui ha ritenuto la sussistenza dell’elemento oggettivo per ciascuno dei 17 frammenti contenuti nei 13 spezzoni sub iudice indicati nel capo d’imputazione per erronea applicazione della legge penale.

Secondo il ricorrente, ai fini della necessaria sussistenza del reato di cui all’art. 600 quater c.p., si richiede, oltre alla necessaria sussistenza dell’elemento soggettivo, da inquadrare sotto il profilo doloso nella consapevolezza del procurarsi e detenere materiale pedopornografico, anche, e prima ancora, l’imprescindibile sussistenza di un presupposto oggettivo, dovendo l’oggetto di contestazione essere necessariamente qualificabile come materiale pedopornografico.

Il ricorrente ricorda di avere evidenziato al giudice d’appello, censurando la sentenza del Tribunale di Vigevano, come il concetto di materiale pedopornografico dovesse considerarsi alla stregua di quello che la giurisprudenza di legittimità ha definito affrontando l’ipotesi di reato di cui all’art. 600 ter c.p..

A parere della difesa, per aversi materiale pedopornografico occorre far riferimento a dei file completi, ossia file concretamente leggibili e visionabili, di cui cioè sia stato completato lo scaricamento. E, anche ammettendo che possa aversi materiale pedopornografico a fronte di file parziali e incompleti, si deve comunque trattare di frammenti che siano tali da consentire la visione di almeno una parte del file, non potendosi considerare come materiale meri frammenti non sequenziali nè coordinati, illeggibili e inutilizzabili, quindi non fruibili da parte dell’utente.

Tali considerazioni vengono in rilievo, secondo la difesa, in quanto nel presente processo non era stata raggiunta la prova dell’integrale scaricamento di quanto oggetto dell’imputazione. Per quanto accertato, infatti, i software all’epoca in uso ad S.A. non consentivano di visionare i file fino a quando questi non fossero stati completamente scaricati.

Nel corso del giudizio dibattimentale era anche emerso, come riferisce la difesa, come tutto ciò fosse essenzialmente dovuto al particolare meccanismo di funzionamento della rete peer to peer, impiegata dai programmi di file sharing, che fa progressivamente pervenire sul computer solo frammenti non sequenziali dei file) frammenti e spezzoni che, fintanto non siano tutti scaricati per intero, non consentono al file di materializzarsi in modo di essere leggibile.

La difesa evidenzia come nel caso all’odierno esame non ci si trovasse di fronte a frammenti di file parziali e incompleti, in qualche misura leggibili e visionabili dal ricorrente, come potrebbe essere un filmato scaricato solo in parte e visionabile solo per alcuni minuti.

I 17 frammenti – prosegue il ricorrente -sono stati recuperati, visionati e repertati solo grazie ad una sofisticata opera di ricostruzione, compiuta attraverso l’utilizzo di specifici strumenti tecnici di recupero di tali pezzetti, che, invece, per stessa indicazione dei periti del giudice, non erano visibili e fruibili per lo S., in quanto frammenti incompleti e non coordinati.

Sul punto il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia risposto alla censura difensiva con una motivazione che farebbe trapelare da un lato una vistosa violazione della legge penale e dall’altro manifeste illogicità intrinseche nella motivazione.

Il ricorrente contesta:

-in primo luogo l’affermazione della Corte d’appello, che sarebbe viziata da errore giuridico, laddove si reputa irrilevante, al fine di integrare l’elemento oggettivo del reato contestato, il fatto che si tratti di file completamente scaricati o comunque visibili e leggibili per l’utente, ritenendo che ciò sarebbe solo necessario nell’ipotesi di cui all’art. 600 ter c.p.; viene citato in proposito il precedente di questa sezione n. 11169/2008 per affermare che così non è, in quanto la completezza dei file e la loro concreta leggibilità e visionabilità sarebbero elementi comuni ad entrambe le figure di reato.

Anche ammettendo che possa aversi materiale pedopornografico a fronte di file parziali ed incompleti -secondo la lettura del precedente di questa Corte che opera il ricorrente- sarebbe sempre necessario che i frammenti siano tali da consentire la visione di almeno una parte del file, non potendosi configurare come materiale pedopornografico meri frammenti illeggibili e inutilizzabili.

In altri termini occorrerebbe la prova che il contenuto sia visionabile, perchè solo in tal caso -stante una seppur parziale fruibilità- si potrà parlare di materiale ancora parziale e non completo.

La norma parla di materiale pornografico minorile sia nell’articolo 600ter che nell’art. 600 quater c.p., dovendosi pertanto ritenere che la definizione sia identica per entrambe le ipotesi di reato. Non avrebbe senso, ad avviso del ricorrente, come invece sostenuto dalla Corte di appello, ritenere che per divulgare materiale pedopornografico sia necessario detenerlo integralmente (nel senso della sua completezza e visionabilità), mentre per integrare la condotta di detenzione sia, invece, sufficiente rinvenire un frammento incompleto e non visionabile.

La difesa censura, inoltre, il punto in cui la corte territoriale scrive che “non corrisponde al vero, come sostenuto dalla difesa (…) che vi sia la certezza che nessun files fosse stato integralmente scaricato ed entrato quindi nella sfera di disponibilità dell’imputato”.

In particolar modo si contesta alla Corte territoriale di essersi adeguata passivamente a quanto già richiamato dal giudice di primo grado in ordine alla prova che uno dei file scaricati la si ricaverebbe dal rinvenimento della sua immagine di anteprima all’interno della lista c.d. thumbs.

La difesa ribadisce di avere, con uno specifico motivo di appello, citato testualmente pagina 18 della relazione del consulente tecnico del pubblico ministero, evidenziando come gli stessi consulenti non affermassero affatto di aver raggiunto la prova dello scaricamento integrale del frammento in questione, ma si limitassero ad esprimere una non meglio precisata probabilità.

Ma il ricorrente deduce non solo di avere evidenziato tale punto delle conclusioni peritali, ma anche di avere contestato come fosse erroneo il fatto che il file iniziale del frammento (OMISSIS) fosse ricompresa nella lista thumbs, evincendosi dalle conclusioni peritali che lo fosse, invece, nello “status.file”.

Il difensore si duole di avere sottoposto alla Corte d’appello un profilo di doglianza specifico, evidenziando come i periti del giudice, nel corso l’udienza dibattimentale, avessero negato che potesse desumersi l’integrale scaricamento di un file dalla presenza del suo primo frame come immagine di anteprima nella cosiddetta lista thumbs, in quanto conclusione risultata fondata con riguardo esclusivamente al programma di file sharing EMULE, del tutto irrilevante nel caso di specie, ma non verificata nè verificabile con riguardo al programma di file sharing MORPHEUS, mediante il quale la sentenza sosteneva che frammenti in contestazione fossero approdati sui supporti informatici in sequestro.

In conclusione, la difesa si duole di avere ritualmente devoluto alla Corte d’appello svariate argomentazioni a confutazione di quanto asserito dal tribunale di primo grado per provare l’integrale scaricamento del frammento (OMISSIS), ma di non avere ricevuto risposte sul punto, se non un rifarsi pedissequo da parte del giudice di secondo grado a quello di prime cure.

Il ricorrente lamenta, poi, che la Corte d’appello, abbia ritenuto che siano stati interamente scaricati una serie di frammenti, e che pertanto questi risultassero indubbiamente nella totale disponibilità dello S., essendo stata verificata dal collegio peritale la coincidenza della dimensione del file disponibile sul suo PC rispetto alla versione rinvenuta in rete, ma si riferisce (cfr. pag. 9 del ricorso) a una serie di frammenti che non fanno parte dell’imputazione.

In tal senso viene contestata la laconica affermazione della Corte territoriale laddove si afferma che “certamente non rileva, come sostenuto dalla difesa, che si tratti o meno di files ancora sub iudice, in quanto dati storici accertati e come tali utilizzabili”.

Ma non è così secondo la difesa. L’integrale scaricamento del “file a”, in altri termini, non costituisce prova dello scaricamento integrale del file b, circostanza tecnica e di fatto.

E poi la Corte territoriale -lamenta ancora il ricorrente- avrebbe preso in esame solo i 17 frammenti contenuti nei 13 spezzoni indicati nel capo d’imputazione, mentre la motivazione risulterebbe del tutto mancante per gli altri frammenti oggetto d’imputazione. La Corte avrebbe dovuto provare, invece, a suo avviso, la penale rilevanza di ogni singolo frammento.

b. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 600 quater c.p., rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), mancanza di motivazione in ordine alle risultanze probatorie acquisite di segno contrario, segnatamente, la perizia, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Il ricorrente evidenzia come, quanto all’elemento soggettivo, la Corte territoriale abbia ritenuto, essenzialmente, di fondare la responsabilità dell’imputato sotto il profilo della volontà di procurarsi il materiale illecito, ritenendo quindi integrata, salvo alcune considerazioni incidentali, sostanzialmente quella che è la prima ipotesi di condotta delle due alternativamente previste dall’art. 600 quater c.p..

Ebbene, con questo motivo di ricorso ancora una volta il ricorrente si duole che la Corte territoriale abbia operato dei riferimenti a frammenti diversi da quelli per i quali residuali di cui all’imputazione.

In altri termini, si contesta l’affermazione della Corte d’appello che ha ritenuto che l’imputato abbia eseguito ricerche mirate mediante l’utilizzo di parole chiave di materiale pedopornografico.

Ancora una volta, viene dedotto che, passando in rassegna analiticamente, uno per uno, i frammenti sub iudice, emerge che gli stessi non avevano una nemmeno ipotetica denominazione come espressamente indicato dai consulenti del PM. In particolare, si evidenzia che solo 2 dei 13 spezzoni contestati nel capo d’imputazione furono rinvenuti sulla rete Internet, e dunque ipoteticamente associabili a una denominazione, mentre il tredicesimo ed ultimo solo in un primo momento fu associato ad una denominazione da parte del consulente del pm, che poi mutò avviso.

La difesa ricorda di avere censurato con i motivi di appello anche l’affermazione secondo cui sarebbe stata raggiunta la prova almeno per i tre frammenti, sul presupposto che non vi era certezza che gli stessi avessero effettivamente una denominazione tale per cui fossero inequivocabilmente riconducibili alla pedopornografia. Il ricorrente ricorda di avere evidenziato come il perito avesse affermato “può darsi benissimo che quel frammento corrispondesse nella realtà ad un nome ma quando l’utente l’ha visualizzato avesse tutt’altro nome” e “non possiamo dire che abbia scaricato proprio quei filmati lì, potrebbero essere stati altri filmati con altro nome che sono approdati sul computer” (pagina 85 trascrizione d’udienza del 24/10/2011).

La Corte territoriale – si duole il ricorrente – a fronte dello specifico motivo di appello devoluto alla sua cognizione, avrebbe dunque dovuto illustrare le ragioni per le quali confermare o confutare le conclusioni inequivocabili dei periti, che attribuivano valore meramente ipotetico all’elemento cardine della valutazione posta dal primo giudice a fondamento della penale responsabilità dell’imputato.

Ma vi è di più. La motivazione della sentenza impugnata, secondo il ricorrente, risulta viziata anche rispetto alle considerazioni motivazionali formulate in via subordinata rispetto alla seconda ipotesi di condotta delle due previste dall’art. 600 quater c.p., ossia quella della consapevole detenzione.

Ancora, si torna sull’aspetto della mancata conoscenza dell’effettivo contenuto, se non ad avvenuto scaricamento integrale del file, e sull’illogicità della motivazione sul punto.

c. Assoluta carenza di motivazione rispetto al thema deciderteli per totale mancanza di correlazione tra la contestazione degli elementi di prova posti a base della sentenza di condanna, nonchè manifesta illogicità delle argomentazioni sviluppate sui predetti elementi di prova, del tutto inconferenti rispetto all’oggetto del processo, con conseguente palese violazione del diritto di difesa dell’imputato di cui all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e) – violazione della legge processuale penale e, segnatamente, dell’art. 238 bis c.p.p., in relazione all’art. 191 c.p.p., rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Si torna a censurare con tale profilo di doglianza, seppure sotto altri aspetti, la circostanza che la Corte territoriale avrebbe fondato le ragioni della condanna del ricorrente per la detenzione di frammenti oggetto del capo d’imputazione esclusivamente sulla base di caratteristiche tecniche di frammenti non contestati nel presente processo (nella maggior parte dei casi perchè già giudicati e nella restante parte perchè nemmeno mai contestati), con evidente vizio di correlazione tra quanto contestato e gli elementi di prova posti alla base della sentenza di condanna, con conseguente violazione del diritto di difesa dell’imputato, che non era certo chiamato a difendersi rispetto a frammenti già giudicati.

Il ricorrente ricorda che lo S. era stato prosciolto con sentenza di non luogo a procedere sia con riguardo alla detenzione di 13 immagini a contenuto pedopornografico (per totale carenza dell’elemento soggettivo), sia con riguardo alla divulgazione di alcuni altri frammenti dal medesimo contenuto pedopornografico (sempre per totale carenza dell’elemento soggettivo).

Viene precisato in ricorso che il GUP, nel prosciogliere il ricorrente per la divulgazione di quei frammenti oggi coperti dal giudicato, non aveva riqualificato il fatto nel reato di detenzione, come pure avrebbe agevolmente potuto fare, non ritenendo sussistenti nemmeno gli elementi costitutivi di tale ultimo reato.

Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe di fatto operato una rivisitazione illegittima della sentenza di non luogo a procedere passata in giudicato. E’ vero -ricorda- che non è precluso al giudice di utilizzare e valorizzare autonomamente circostanze di fatto raccolte a norma dell’art. 238 bis c.p.p., potendo queste essere oggetto di autonoma valutazione critica, così che i file già giudicati costituivano materiale probatorio utilizzabile ai fini della decisione. Ma la Corte d’appello – si duole il ricorrente – fonda l’affermazione di responsabilità esclusivamente su delle valutazioni che riguardano i file di cui alla precedente l’imputazione.

L’art. 238 bis c.p.p., – aggiunge ancora- prevede che le sentenze divenute irrevocabili possano essere acquisite ai fini della prova del fatto in esse accertato e siano valutate a norma dell’art. 187 c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3.

Dunque, l’accertamento compiuto da un giudice penale contenuto in una sentenza divenuta definitiva può essere utilizzato da un giudice penale diverso in un diverso processo ai fini della prova del fatto in essa accertato. Non certamente però – si duole il ricorrente – ai fini della prova del contrario del fatto accertato.

Dall’operare della Corte territoriale si desumerebbe in ogni caso – secondo il ricorrente – un’assoluta carenza di motivazione rispetto al thema decidendi, per totale mancanza di correlazione tra la contestazione degli elementi di prova posti a base della sentenza di condanna. E, ancora, una manifesta illogicità delle argomentazioni sviluppate sui predetti elementi di prova, del tutto inconferenti rispetto all’oggetto del processo.

Analoga valutazione, sempre con riferimento ai 65 file che non sono riferibili ai frammenti sub iudice, la Corte l’avrebbe operata anche per la valutazione dell’elemento psicologico. Si ribadisce che tutti i passaggi argomentativi sviluppati dalla Corte d’appello a sostegno della sussistenza dell’elemento soggettivo in capo allo S. per i frammenti sub iudice, in cui si fa riferimento a parole chiave di ricerca inequivoche, denominazioni esplicitamente riferibili al tema della pedopornografia, espliciti archivi pedopornografico contenuti nei percorsi di memorizzazione, attengono esclusivamente a frammenti non oggetto del capo d’imputazione, non potendosi svolgere alcuna osservazione sui frammenti sub iudice in quanto risultati privi di denominazione.

La Corte d’appello avrebbe, infatti, desunto la volontà dello S. di ricercarli, nonchè la consapevolezza detenerli, sulla base della denominazione degli altri frammenti per cui l’odierno imputato era stato addirittura prosciolto proprio per l’insussistenza dell’elemento soggettivo, così stravolgendo il dictum del giudicato contenuto nella sentenza di non luogo a procedere.

d. Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui non ha tenuto conto della contraddittorietà delle evidenze informatiche, della impossibilità di ricostruire la condotta dell’imputato: vizio di motivazione in ordine al principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Passando ampiamente in rassegna la giurisprudenza di questa Corte di legittimità sul principio dell'”oltre ogni ragionevole dubbio”, il ricorrente si duole che la Corte territoriale non abbia calato tali principi anche nel caso concreto.

Le prove emerse nel giudizio di merito -secondo il ricorrente- infatti erano insufficienti e contraddittorie.

In particolar modo la sentenza si paleserebbe manifestamente illogica laddove, pur avendo premesso e condiviso che la decisione si fondava “esclusivamente sulle risultanze della perizia informatica” (cfr.

pag. 1 della sentenza), non ha tenuto conto della contraddittorietà di queste evidenze informatiche, le uniche poste a base dell’imputazione, e dell’impossibilità di ricostruire la condotta effettivamente tenuta dall’imputato, elemento essenziale nella valutazione dell’elemento psicologico del reato de quo.

Dalla lettura della perizia e dall’esame dei periti del giudice, avvenuto nel corso delle udienze dibattimentali del 24 ottobre e del 19 dicembre 2011, il primo elemento che emerge con evidenza, secondo la tesi proposta, èche non è stato possibile accertare la condotta concretamente tenuta da S.A..

In particolar modo viene citata pag. 56 della perizia dove si legge che “le evidenze appaiono contraddittorie e comunque non convergenti verso un’unica acclarata ipotesi di condotta”. E pag. 151 della trascrizione d’udienza del 24/10/2011 in cui, a domanda del difensore, i periti hanno chiarito di non avere avuto la possibilità di stabilire oggettivamente che cosa sia accaduto “… Noi abbiamo delle evidenze che descrivono un contesto, all’interno di questo contesto siamo in grado di formulare delle ipotesi, ma queste ipotesi non sono tutte unicamente convergenti verso un’unica soluzione.

Quindi, in risposta alla sua domanda: no, non siamo in grado di stabilire oggettivamente cosa sia avvenuto”.

e. Manifesta illogicità e contrarietà della motivazione nella parte in cui ha escluso la declaratoria di intervenuta prescrizione del reato, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), nonchè erronea applicazione e falsa interpretazione della legge penale, segnatamente dell’art. 158 c.p., in relazione all’art. 157 c.p., rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. B. Il ricorrente si duole di come non sia stata accolta neanche la richiesta subordinata di dichiararsi l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

Non viene contestato che ci si trovi di fronte nel caso di specie ad un reato permanente, ma si evidenzia come il giudizio di merito non abbia consentito di individuare un dies a quo da cui far decorrere l’inizio della prescrizione.

Il ricorrente rileva che la Corte d’appello di Milano, nel confermare il giudizio del primo giudice, ammette che non esiste, in proposito, non solo la prova della data di scaricamento dei frammenti, ma neanche quella della loro cancellazione.

Ritiene tuttavia di poter superare la mancanza di tale prova attraverso il riferimento al mese di aprile 2007 che si desume dalla cartella nvideo imesh” del disco esterno, sostenendo, poi, con un doppio passaggio di ipotesi fondate su ipotesi, che, siccome il (OMISSIS) S. effettuava la reinstallazione del sistema operativo, è verosimile che in quella circostanza abbia copiato il contenuto del pc sul disco esterno su cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti cancellati, che sia quindi verosimile che i frammenti sub iudice siano stati trasferiti (dunque fossero ancora presenti) in quella data e che pertanto sia altrettanto verosimile che non fossero stati cancellati prima di quella data, ossia prima del 4 aprile 2007.

La struttura motivazionale sopra delineata, tuttavia, apparirebbe ictu oculi illogica e in contraddizione con gli atti del processo, circostanza che il ricorrente ricorda di aver sottoposto anche ai giudici del gravame del merito.

Innanzitutto il riferimento al mese di aprile 2007, che si desume dalla cartella “video imesh” del disco fisso, sarebbe inconferente con l’imputazione perchè risulta provato che in quella cartella non c’era nessuno dei 17 frammenti di cui alla residua imputazione.

Peraltro viene evidenziato come il collegio peritale avesse appurato che la cartella “video imesh” attiene ad una periferica esterna che non risulta neppure identificabile come quella appartenente ad S. A.. Si tratta di una periferica (cfr. pag. 77 trascrizione dell’udienza del 24 ottobre 2011) che il perito P. dice: non abbiamo identificato perchè allo stato non sappiamo neanche quale sia.

Il ricorrente denuncia perciò che la motivazione della sentenza della Corte territoriale risulterebbe totalmente mancante in quanto i giudici di secondo grado si limitano, a fronte dello specifico motivo di appello, ad affermare: “che potesse trattarsi di una periferica esterna appartenente a terzi è mera ipotesi” (pag. 12) senza null’altro aggiungere circa il perchè la conclusione raggiunta collegialmente sia dai consulenti del pubblico ministero, sia dai consulenti della difesa, sia dei periti del giudice dovesse essere disattesa.

Viene, ancora, contestata la parte della motivazione in cui la Corte territoriale afferma che è del tutto irrilevante l’individuazione del dies a quo della prescrizione per ogni singolo frammento, omettendo però totalmente di considerare, secondo il ricorrente, che all’imputato sono state contestate plurime condotte di detenzione, unificate sotto il vincolo della continuazione, e che era rispetto a ciascuna condotta che avrebbe dovuto specificarsi il momento di cessazione della presunta detenzione.

Il ricorrente richiama tutta la giurisprudenza di questa Suprema Corte laddove si afferma che anche per quanto riguarda il termine di prescrizione dovrebbe operare il principio del favor rei e quindi si debba dichiarare la prescrizione quando non si è in alcun modo in grado di desumere il dies a quo della stessa.

f. Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui ha escluso la concessione la sospensione condizionale della pena, rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e.

Ultimo motivo è quello che riguarda la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Il ricorrente evidenzia come la motivazione portata dal giudice di prime cure a sostegno della non concessione del beneficio risultasse manifestamente viziata avendo lo stesso addotto che la mancata concessione dovesse derivare, da un lato, dalla mancanza di una richiesta formulata dalla difesa in via subordinata rispetto alla richiesta di assoluzione, dall’altro, dal fatto che la mancata concessione fosse scelta compiuta nel “mero interesse dell’imputato”.

Viene evidenziata la costante giurisprudenza di legittimità che afferma come per la sospensione condizionale della pena non ci sia necessità di istanza di parte e come sia consolidato secondo la stessa il principio che non costituisca interesse dell’imputato quello di riservare la sospensione condizionale ad eventuali future condanne. Peraltro, viene posto l’accento su come la mancata concessione della sospensione condizionale della pena abbia comportato nel caso in esame, automaticamente, anche la pena accessoria di cui all’art. 600 septies c.p., ovvero l’interdizione da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, nonchè da ogni ufficio o servizio, strutture pubbliche o private frequentate prevalentemente dai minori.

La Corte d’appello, a fronte dello specifico motivo di doglianza, negava il beneficio della sospensione condizionale della pena formulando un giudizio prognostico negativo fondato sulla abitudine del ricorrente di visionare foto e video erotici-pornografici. Ma – sostiene il ricorrente- è manifestamente illogico desumere da un’abitudine certamente lecita la propensione ad una condotta illecita.

Sulla scorta di tali doglianze Lo S. chiede a questa Corte:

– di annullare con rinvio ad altra sezione la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano in relazione ai vizi di motivazione riguardanti l’elemento oggettivo o soggettivo del reato, alla dedotta violazione di cui all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e all’art. 238 bis c.p.p., in relazione all’art. 191 c.p.p., ovvero per la violazione in ordine al principio dell’aldilà di ogni ragionevole dubbio;

– in subordine, di annullare, senza rinvio, la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano per essere spirato il termine prescrizionale del reato contestato;

– e, in via, ancora più granata, di annullare, con rinvio ad altra sezione, la sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena In data 23.12.2013 venivano depositati motivi aggiunti con cui venivano precisati e puntualizzati i profili di doglianza sopra illustrati e si ribadivano le conclusioni di cui sopra.

Motivi della decisione

1 . Il ricorso è fondato.

2. Il punto di doglianza fondamentale da esaminare è quello che riguarda la possibilità di poter configurare il reato di cui all’art. 600 quater c.p., in presenza di frammenti di file che non siano visionabili o apribili in assenza di particolari accorgimenti informatici e di strumentazioni di cui il normale utente non è provvisto e che non sono state rinvenute nella disponibilità dello S..

Altro problema riguarda il rapporto tra i 7 frammenti video indicati nella tabella riassuntiva depositata dal collegio peritale all’udienza del 19/12/2011, per i quali è stata dichiarata la non procedibilità dell’azione penale, e le restanti 17 sequenze per i quali c’è stata la condanna da parte del Tribunale di Vigevano, confermata dalla Corte d’appello di Milano.

Quanto ai 47 spezzoni video il tribunale dichiarava che l’azione penale non poteva essere esercitata, stante la preclusione costituita dal giudicato, ma, come ricorda la Corte territoriale, osservava peraltro che tale limitazione del thema decidenti alle sole 17 sequenze residue non comportava una restrizione del materiale probatorio utilizzabile.

Occorre vedere allora se è possibile, come hanno fatto i giudici di merito, utilizzare degli elementi di prova che riguardano quei 47 spezzoni (ad esempio la prova che alcuni di essi erano stati scaricati sul pc e risiedevano in una determinata cartella) per dedurre degli elementi di colpevolezza che riguardano i frammenti video di cui alla residua imputazione.

In particolare il ricorrente rileva che per nessuna delle sequenze video di cui alla residua imputazione fosse chiaramente indicata, dal nome o aliunde, la presenza di contenuto pedopornografico, mentre lo era per la talune delle 47 sequenze per cui c’è stata l’improcedibilità dell’azione penale. E i giudicanti hanno da ciò desunto che vi sia stata una ricerca mirata per tutti i file.

3. Così enucleati i principali e assorbenti temi da affrontare, va ricordato che l’art. 600 quater c.p., (Detenzione di materiale pornografico) aggiunto dalla L. 3 agosto 1998, n. 269, art. 4, e successivamente così sostituito dalla L. 6 febbraio 2006, n. 38, art. 3, punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa non inferiore a euro 1.549. “Chiunque, al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 600ter, consapevolmente si procura o detiene materiale pornografico realizzato utilizzando minori degli anni diciotto”. La pena è aumentata in misura non eccedente i due terzi ove il materiale detenuto sia di ingente quantità.

La formulazione del reato quale inizialmente previsto dalla L. n. 269 del 1998, art. 4, sanzionava la condotta di chi consapevolmente si procurasse o disponesse di materiale pornografico realizzato prodotto mediante lo sfruttamento sessuale di minori degli anni diciotto, sempre che la condotta non ricadesse nelle più gravi ipotesi previste dall’art. 600 ter c.p., (pornografia minorile).

La L. n. 38 del 2006 ha dunque inasprito tale repressione penale non solo prevedendo l’aggravante ove il materiale detenuto sia di ingente quantità, ma anche riformulando parzialmente la fattispecie.

Soprattutto, la novella ha sostituito l’elemento costitutivo della produzione di materiale pornografico mediante lo sfruttamento sessuale di minori – per integrare il quale era necessario, ma anche sufficiente, l’approfittamento della condizione propria del minore (così questa sez. 3^, n. 34201 del 19.5.2010, G, rv. 248226; conf. sez. 3^, n. 26256 del 28.5.2009, Malena e altri, rv. 244440) – con quello, di più ampia portata, della realizzazione dello stesso mediante la mera utilizzazione di minori. Inoltre ha sostituito il fatto di disporre di materiale pornografico con la mera detenzione.

Si tratta di un reato che prevede due condotte alternative, ciascuna delle quali, da sola, costituisce reato: il procurarsi e il detenere materiale pedopornografico. Si dirà poi del “consapevolmente”, che il legislatore ha premesso al verbo “si procura”.

E’ evidente che, nella maggioranza dei casi, le due condotte coesistono, in quanto chi viene rinvenuto in possesso di materiale pedopornografico se lo è anche procurato.

La ratio della norma, con tutta evidenza, è dunque quella di punire, in ragione dell’odiosità della fattispecie, anche chi consapevolmente sia procurato tale materiale e non lo detenga più.

E’ stato chiarito che le condotte di procurarsi e detenere tale materiale non integrano due distinti reati, ma rappresentano due diverse modalità di perpetrazione del medesimo reato, sicchè il reato è comunque unico e non c’è concorso di reati (sez. 3^, n. 43189 del 9.10.2008, Tarquini, rv. 241425).

Le due condotte hanno un elemento comune che è costituito dalla disponibilità, sia pure momentanea, del materiale pedopornografico.

La configurabilità come reato anche della condotta di mero procacciamento consente, peraltro, di reprimere penalmente anche il tentativo di procurarsi il materiale pedopornografico, il che non appare logicamente possibile per la detenzione.

Nella condotta di “procurarsi” e/o di “detenere”, com’è stato chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, rientra anche la mera “visione” di immagini pedopornografiche scaricate al computer perchè, per un tempo anche limitato alla sola visione, le immagini sono state nella disponibilità dell’agente (sez. 3^, n. 41570 del 20.9.2007, Martelli, rv. 237999, che ha affermato che integra il reato previsto dall’art. 600 quater c.p., la condotta consistente nel procurarsi materiale pedopornografico “scaricato” (mediante operazione di “downloading”) da un sito Internet a pagamento, in quanto il comportamento di chi accede al sito e versa gli importi richiesti per procurarsi il materiale pedopornografico offende la libertà sessuale e individuale dei minori coinvolti come il comportamento di chi lo produce, conf. sez. 3^, n. 639 del 06/10/2010, Angileri, rv. 249116).

4. Nel caso in esame, come recita l’imputazione, allo S. è stato contestato, riproducendo il contenuto della norma, l’essersi procurato o comunque il detenere i filmati contenuti nei file di cui si è detto in premessa.

Alla condanna si è pervenuti, tuttavia, sulla base della sola ritenuta detenzione di tali file.

Come si evince dalle pronunce dei giudici di merito, valutabili in un tutt’uno trattandosi di doppia conforme affermazione di responsabilità, non è stato possibile, infatti, accertare se i frammenti di file di cui all’imputazione fossero tali (cioè incompleti) in quanto frutto di una successiva cancellazione ovvero perchè non scaricati compiutamente, in virtù delle modalità di scaricamento parziale e successivo di cui ai programmi peer to peer.

Nemmeno è stato mai provato che lo S. li abbia potuti visionare.

O da quale sito siano stati scaricati.

Diversamente, se anche per i motivi che si andranno di qui a poco ad evidenziare non è possibile nel caso concreto parlare di detenzione di tali file, si sarebbe comunque pervenuti ad una sentenza di condanna.

Va ribadito, infatti, a fugare ogni dubbio, che anche la condotta di colui per cui vi sia prova essersi volontariamente procurato del materiale pedopornografico e poi essersene disfatto, nel caso del computer cancellandolo o rendendolo non più fruibile, sarebbe punibile ai sensi dell’art. 600 quater c.p..

Analogamente, sarebbe punibile sotto forma di tentativo la condotta di chi (ad esempio facendo chiare ricerche a tal fine) abbia compiuto atti diretti in modo non equivoco a procurarsi del materiale pedopornografico.

Ma, sulla scorta di quanto si legge nella motivazione del provvedimento impugnato, e anche di quello di primo grado, non è il caso del presente processo, in cui tale prova non è stata raggiunta.

E forse nemmeno più di tanto ricercata, essendosi focalizzata l’azione degli inquirenti sulla detenzione dei file.

5. Resta da vedere, dunque, in concreto, se fosse integrata la norma incriminatrice quanto alla detenzione di file a contenuto pedopornografico.

Va premesso, però, che fondata è la doglianza difensiva incentrata sul fatto che la Corte territoriale mostra di tenere in scarso conto la circostanza che per tutta una serie di spezzoni video vi sia stato un precedente giudicato. Nella sentenza impugnata, infatti, è tutto un rifarsi ad un numero di file e/o archivi (per lo più 65 – cfr. per tutte pagg. 8 e 15) superiore ed omnicomprensivo rispetto all’imputazione.

Ebbene, se è vero che il Tribunale di Vigevano ha affermato che l’esistenza di quei file non può essere trascurata come dato di fatto di cui tener conto in una valutazione complessiva, è altrettanto vero che non può desumersi da un elemento di prova che riguardi quegli specifici file per i quali c’è stato giudicato la prova per quelli di cui all’imputazione. Non va trascurato, peraltro, che per quei file il GUP , in luogo del proscioglimento per il reato di cui all’art. 600 ter c.p., avrebbe potuto operare una riqualificazione in relazione alla meno grave ipotesi delittuosa di cui all’art. 600quater cod. pen. Ma non l’ha fatto.

L’argomentare della Corte territoriale sul punto, non pare perciò condivisibile, e la motivazione riflette i vizi di logicità denunciati.

In altri termini, la circostanza che, dai nomi e/o dalla collocazione, uno o più di quei file coperti da giudicato fossero riconoscibili per il loro contenuto pedopornografico non rende di per sè riconoscibili anche quelli per cui vi è residua imputazione.

Di questi ultimi, come si evince dal provvedimento impugnato e come evidenzia il ricorrente, non vi era alcuno che avesse un nome inequivoco.

Sul punto appare oscura la risposta che la Corte territoriale a pag. 11 fornisce allo specifico motivo di appello (“…infondati sono anche i rilievi difensivi aventi ad oggetto l’associazione dei frammenti sub iudice a specifici titoli; sul punto si richiamano le argomentazioni già esposte nonchè il prospetto di identificazione totale -comprensivo anche di quelli ancora in contestazione- dei filmati presenti sui due supporti sequestrati a S. di cui alla consulenza dei CC.TT. del PM, che dava atto nel dettaglio sia delle evidenze recuperate dai supporti che delle evidenze dei filmati scaricati collegialmente”).

Sia la sentenza di primo grado che quella impugnata operano un continuo “rimbalzo” tra i file già giudicati e quelli di cui alla residua imputazione.

E’ così per la presenza nella cartella “thumbs” che in quella “video imesh” su cui (fatta eccezione per il frammento (OMISSIS) di cui si dirà in seguito) nulla si dice quanto ai 17 frammenti di cui al thema decidendo. E nemmeno si dice se e a quali frammenti si riferissero gli “eloquenti percorsi di memorizzazione” su cui il giudice di prime cure, richiamato da quello del gravame del merito, fonda l’affermazione che la detenzione è stata preceduta da una “ricerca consapevole e mirata”.

Viene ancora una volta richiamato l’accesso a “65 file di natura illecita” (cfr. pag. 21 della sentenza di primo grado). Ma quali? Visto che il Tribunale appena poco prima (pag. 20) parla di 65 file con denominazione pedopornografica -ed apparendo provato che tale non avessero i 17 di cui all’imputazione- pare ancora una volta che si motivi su questi facendo riferimento, come si duole il ricorrente, a quelli coperti da giudicato o, comunque, ad altri.

E, ancora, il giudice di prime cure evidenzia anche che “all’esito delle prove effettuate dal collegio peritale presso la polizia municipale i 65 file con denominazione pedopornografica hanno rivelato per la parte precipua un contenuto di semplice pornografia”.

Ma quanti e quali? Peraltro la Corte d’appello pare ripercorrere in maniera alquanto parallela ed acritica la pronuncia di primo grado non fornendo adeguata e logica risposta a tutti i motivi che le erano stati proposti. Ad esempio, a quello riguardante la presenza di file su un disco esterno che non era nella disponibilità di S..

6. Il processo, come afferma il giudice di primo grado, trova la sua fonte di prova nei risultati di una sorta di perizia collegiale, tale, di fatto, in quanto il perito nominato dal giudice e i consulenti del Pm e della difesa hanno lavorato insieme, condividendo a quanto pare, metodo e conclusioni.

In ogni caso all’esito della compiuta perizia si aveva modo di accertare che anche i frammenti di file di cui all’imputazione, benchè non riconoscibili prima facie per il loro contenuto, avevano contenuto pedopornografico.

Ciò era possibile, tuttavia, solo con il particolare strumentario tecnico a disposizione di periti e consulenti.

La Corte d’appello di Milano, seppure in maniera sintetica (cfr. pag. 1 del provvedimento impugnato) spiega come ha fatto l’insolito “collegio” peritale a definire la natura pedopornografica di 65 archivi.

A mezzo del programma Emule venivano scaricati dalla Rete 22 archivi video multimediali di cui 7 a chiaro contenuto di pornografia minorile. Li si confrontava con i frammenti sequestrati allo S. e “tali archivi risultavano corrispondenti per contenuto visivo a frammenti di files recuperati dall’area cluster non allocati delle memorie di massa in uso all’imputato”.

Periti e consulenti, dunque, hanno dovuto scaricare via peer to peer interi archivi per capire che si trattava di frammenti di file pedopornografici. E lo hanno fatto con il sistema Emule. Ma lo stesso giudice di primo grado (cfr. pag. 21) aveva dato per assodato, richiamata pag. 51 della trascrizione dell’udienza del 24.10.2011 in cui erano stati escussi i periti, che tale programma non era stato utilizzato per lo scaricamento di quei file. Che per quanto acclarato erano stati scaricati con Morpheus e Imesh.

Ma, come si duole il ricorrente, la Corte territoriale non fornisce una risposta puntuale nemmeno ai vari punti, richiamati in premessa ed oggetto di specifiche allegazioni sia in appello che dinanzi a questa Corte di legittimità, in cui i periti avevano dichiarato di poter esprimersi solo in termini probabilistici e non di certezza circa ciò che era accaduto.

Un dato appare incontrovertibile. E lo scrive il giudice di prime cure a pag. 10 della sentenza, in una parte specificamente richiamata per relationem dalla Corte territoriale: i file in questione sono stati rinvenuti nella parte non accessibile del computer e del disco esterno (id est: nell’area dei cluster non allocati, in cui si posizionano i file sottoposti ad un processo di progressiva degenerazione).

7. Il capo d’imputazione, come più volte evidenziato, si compone di 17 frammenti rimasti sub iudice, contenuti nei 13 spezzoni ivi chiaramente elencati: (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS). E allo S. sono state contestate plurime condotte di detenzione, unificate sotto il vincolo della continuazione.

Ebbene il ricorrente si duole giustamente che, così congegnata l’accusa su cui è intervenuta la doppia condanna, era rispetto a ciascuna condotta di detenzione che si sarebbe dovuta raggiungere la prova dell’integrale scaricamento, necessaria al fine di ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato.

Dei frammenti sopra indicati, tuttavia, l’unico ad essere specificamente indicato in motivazione è quello identificato come “(OMISSIS)”.

Vengono, in realtà, menzionati anche quattro frammenti (“(OMISSIS)”, “(OMISSIS)”, “(OMISSIS)” e “(OMISSIS)”) che hanno formato oggetto di proscioglimento ex artt. 425 e 529 c.p.p..

Eppure su quelli (cfr. pag. 9 del provvedimento impugnato) la Corte territoriale fonda la prova dell’integrale scaricamento di quelli per cui poi viene emessa la sentenza di condanna.

E’ fondato, dunque, il motivo di ricorso che indica la questione come assolutamente rilevante e in grado di compromettere, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

Sembra, come si diceva in precedenza che l’argomentare della Corte territoriale sia che il provato integrale scaricamento di un ipotetico file “A” (per cui peraltro, nel caso di specie, è intervenuto proscioglimento) offra la prova, non desumibile altrimenti, dello scaricamento integrale di un file “B”.

La Corte d’appello di Milano, sul punto, sembra anche darsi una giustificazione quando afferma che “certamente non rileva, come sostenuto dalla difesa, che si tratti o meno di files ancora sub iudice, in quanto dati storici accertati e come tali utilizzabili.

Ma non è così. Qui non si tratta di utilizzare un dato fattuale desumibile da un’altra sentenza, il che non è in discussione. Il dato fattuale utilizzabile, tuttavia, per rimanere all’esempio di cui sopra, è l’avvenuto scaricamento del file A, non del file B. La motivazione della Corte territoriale appare poi illogica anche per quanto concerne l’unico dei frammenti sub iudice preso in considerazione nella sentenza ((OMISSIS)), che -si afferma- sarebbe stato interamente scaricato dallo S. prima della cancellazione.

Secondo la sentenza gravata a tali conclusioni si perverrebbe in via induttiva dal rinvenimento della sua immagine di anteprima all’interno della Cd. lista “thumbs” (viene richiamata in tal senso pag. 18 della consulenza del PM).

Tuttavia i giudici del gravame del merito non sembrano rispondere alla doglianza difensiva secondo cui i consulenti del PM non affermano affatto di aver raggiunto a prova dello scaricamento integrale del frammento in questione, ma si limitano ad esprimere una non meglio precisata probabilità.

E nemmeno all’eccezione che la constatazione dei consulenti del PM secondo cui l’immagine iniziale del frammento “(OMISSIS)” fosse ricompresa nella Cd. lista “Thumbs” -che, secondo la sentenza impugnata sarebbe la circostanza probante del fatto che prima della cancellazione vi sia stato un integrale scaricamento del file – fosse un rilievo formulato inizialmente nella consulenza depositata nel corso delle indagini preliminari, ma riconosciuto in un secondo momento errato dagli stessi CT del PM all’esito della perizia successivamente disposta dal GUP di Vigevano (come risulta chiaramente, come evidenziato dal ricorrente, dalla seduta peritale dell’8 marzo 2010).

In altri termini, lo S. ha reiteratamente e condivisibilmente contestato la mancanza di coerenza con le risultanze processuali dell’affermazione secondo cui l’immagine iniziale del frammento “(OMISSIS)” fosse ricompresa nella c.d. lista “Thumbs”.

Ma sul punto la motivazione della Corte territoriale appare di stile.

Nè risposta appare fornita al rilievo dei periti che hanno, in ogni caso, chiaramente negato che si possa desumere con certezza, in via generale, la prova dell’integrale scaricamento di un file dalla presenza del suo primoframe come immagine di anteprima nella c.d. lista “Thumbs”.

Tale conclusione, infatti, sembra possibile esclusivamente con riguardo al programma di file sharing “Emule”, ma non sarebbe verificata, nè verificabile con riguardo al programma di file sharing “Morpheus”, mediante il quale la sentenza sostiene che i frammenti in contestazione siano approdati sui supporti infornatici in uso allo S..

E si sta sempre parlando – va ricordato- solo di uno dei 17 frammenti contenuti nei 13 spezzoni indicati nel capo d’imputazione, mentre nessun altro frammento in contestazione è valutato specificamente nella motivazione del provvedimento impugnato.

La Corte territoriale sembra offrire un’altra motivazione di stile quando afferma, in relazione ai frammenti, che “non rileva il fatto che alcuni siano stati ricostruiti solo in modo parziale, si da essere asseritamente indicativi di frammenti non ancora completi, posto che, essendo i files video per loro natura di dimensioni elevate, è normale che nel corso del recupero dei dati, se ne possano estrarre solo alcune porzioni.

In realtà è possibile, in linea teorica, che un file interamente scaricato, una volta cancellato, venga recuperato solo in parte, ma non è logicamente possibile desumere il suo integrate scaricamento ab origine dal recupero di un mero frammento.

Il recupero parziale (peraltro come ricorda anche il ricorrente con tecniche di laboratorio non a disposizione dei comuni utenti) potrebbe semplicemente essere indicativo della circostanza che il file in questione non sia mai stato interamente scaricato.

8. Viste le tante incongruenze motivazionali, va detto che a questo punto elemento dirimente della decisione, anche circa l’esito (annullamento con o senza rinvio) diviene la risposta da fornire al quesito circa la possibilità di configurare la detenzione di un qualcosa che non sia immediatamente visionabile e/o altrimenti fruibile.

Ebbene, se anche il legislatore avesse inteso introdurre nella norma il “consapevolmente” solo per quanto riguarda il “procurarsi” – ma non pare essere così – è tuttavia evidente che anche la detenzione di un qualcosa, per essere colpevole, debba essere consapevole.

Lo ha precisato questa Suprema Corte quando ha affermato che la condotta di chi detenga – e ha aggiunto “consapevolmente”- materiale pedopornografico, dopo esserselo procurato, configura un’ipotesi di reato commissivo permanente, la cui consumazione inizia con il procacciamento del materiale e si protrae per tutto il tempo in cui permane in capo all’agente la disponibilità del materiale, (sez. 3^, n. 22043 del 21.4.2010, R., rv. 247635, fattispecie nella quale la Corte, nel disattendere la richiesta del P.G. di parziale annullamento con rinvio per prescrizione, ha individuato il momento di cessazione della permanenza nell’esecuzione della perquisizione domiciliare all’esito della quale venne sequestrato il materiale che l’imputato, facente parte di comunità virtuali pedopornografiche operanti su internet, aveva scaricato in tempi diversi; conf. sez. 3^, n. 29721 del 24.6.2010, M., rv. 248108).

Insomma, per detenere un qualcosa occorre essere in grado di fruirne.

E la fruibilità, per quanto riguarda dei file, dipende dalla loro allocazione nel computer e dalla loro leggibilità.

Per quanto riguarda il primo aspetto, questa Corte di legittimità ha affermato che integra il delitto di detenzione di materiale pedopornografico ex art. 600 quater c.p., la cancellazione di “files” pedopornografici, “scaricati” da internet, mediante l’allocazione nel “cestino” del sistema operativo del personal computer, in quanto gli stessi restano comunque disponibili mediante la semplice riattivazione dell’accesso al “file” (sez. 3^, n. 639 del 6.10.2010 dep. 13.1.2011, Angileri, rv. 249117, nella cui motivazione la Corte ha precisato che solo per i “files” definitivamente cancellati può dirsi cessata la disponibilità e, quindi, la detenzione).

Si tratta di un’interpretazione condivisibile.

Anche l’utente meno esperto sa, infatti, che è possibile recuperare qualunque file dal cestino del sistema operativo con un’operazione elementare: un clic su “ripristina elemento”.

Ad analoghe conclusioni si sarebbe potuti pervenire anche in presenza di file “nascosti”, immediatamente visionabili settando all’input “visualizza file nascosti”.

Sul punto ritiene il Collegio che non possa tracciarsi in via astratta una linea di confine che delimiti la fruibilità (anche in termini di recuperabilità) o meno di un file.

E’ circostanza nota che un file, anche quando viene eliminato dal cestino, non viene mai completamente eliminato dal computer perchè rimane allocato in memoria a lungo, prima di essere sovrascritto.

Ed è altrettanto risaputo che esistono operatori attrezzati (per lo più società) che, a costi alquanto elevati, sono in condizione di recuperare qualunque file cancellato.

La valutazione in ordine alla fruibilità dei file nel caso concreto competerà, dunque, al giudice del merito che, evidentemente, dovrà valutare di volta in volta tutti gli elementi in suo possesso, a cominciare dalla strumentazione hardware e software rinvenuta in possesso dell’imputato, e dovrà anche tenere conto delle conoscenze e capacità informatiche dell’interessato.

Solo una volta valutati tali elementi potrà dirsi che i file sono nella disponibilità (e quindi detenuti) dall’imputato.

Occorre, poi, che i file siano leggibili con gli strumenti hardware e software a disposizione dell’utente.

E’ evidente, infatti, che, ancorchè allocato nella parte visibile del computer, un file corrotto o incompleto non è più visionabile.

Peraltro, questa Corte di legittimità, pur pervenendo all’affermazione che in quel caso si configurava il reato di cui all’art. 600 quater (in quanto l’imputato era stato sorpreso mentre scaricava, quindi si procurava, dei file di contenuto pedopornografico, operazione poi non portata a termine), ha in passato più volte affermato che la divulgazione di materiale pedopornografico presuppone la sua detenzione perchè non si può evidentemente divulgare volontariamente “materiale pedopornografico” se non si è in possesso e non si detiene consapevolmente il materiale stesso (sez. 3^, n. 11169 del 7.11.2008 dep. il 13.3.2009, Gaudino, rv. 242992, che richiama sez. 3^, 16.10.2008, Crimi).

Nella sentenza 11168/2009 di questa Sezione, richiamata dal ricorrente, si afferma che in via generale una dolosa distribuzione, divulgazione o diffusione di “materiale” pedopornografico implica che si tratti di file completi, ossia che siano concretamente leggibili e visionabili (e di cui sia stato possibile al soggetto accertare il contenuto illecito), cioè di file di cui sia stato completato lo scaricamento e che siano stati dolosamente posti o lasciati nella cartella dei file condivisi. E si legge: “Del resto la norma parla di “materiale” pornografico minorile, e quindi si riferisce a file che in concreto possano essere considerati come “materiale” di tale natura, e perciò a file completi e già interamente scaricati e visionabili, e non a singoli minuscoli pezzetti del file, magari nemmeno coordinati e sequenziali e quindi assolutamente illeggibili ed inutilizzabili.

E difatti, normalmente, il contenuto di un file, anche se incompleto, può essere visionato con un programma di anteprima solo se si hanno a disposizione una certa quantità di pezzetti iniziali nella loro giusta sequenza.

D’altra parte, ritenere che un soggetto possa tenere un comportamento di diffusione o divulgazione di “materiale” pedopornografico anche prima di avere a disposizione e di aver messo in condivisione il file completo, comporterebbe (a parte i problemi relativi alla sussistenza del dolo) anche tutta una serie di altri problemi di ordine logico e probatorio”.

Come detto, in quella sentenza, che riguardava un’ipotesi di reato di cui all’art. 600 ter c.p., si pervenne alla conclusione che i fatti integrassero il reato di cui all’art. 600 quater c.p., perchè era provato – ed era in atto – il procacciamento di quei file da parte dell’imputato. Più correttamente, forse, però, il reato andava inquadrato nella forma del tentativo.

Tuttavia il concetto di materiale pedopornografico di cui all’art. 600 ter è speculare rispetto a quello di cui all’art. 600 quater.

L’essere quest’ultima norma residuale e di chiusura (“al di fuori delle ipotesi di cui all’art. 600 ter”) non attiene alla qualità o alla completezza dei materiali, che rimangono gli stessi, ma agli ulteriori comportamenti (il procurarsi e il detenere, anche per uso proprio) relativi agli stessi.

Pertanto anche in relazione all’art. 600 quater c.p., può affermarsi che per essere integrato il reato, sotto il profilo della detenzione, si deve essere di fronte a file che in concreto possano essere considerati come materiale pedopornografico, e perciò a file completi e già interamente scaricati e visionabili, e non a singoli minuscoli pezzetti di file, magari nemmeno coordinati e sequenziali e quindi, come nel caso che ci occupa, assolutamente illeggibili ed inutilizzabili.

Di fronte a tali file , incompleti, l’indagine dell’inquirente prima e del giudice poi dovrà essere mirata a verificare se siano frutto di un parziale scaricamento ovvero di una parziale cancellazione.

Ciò al fine di verificare se possa dirsi sussistente il reato, quanto meno nella forma del tentativo, rispetto all’ipotesi alternativa della coscienza di procurarsi tale materiale.

Orbene, nel caso in esame, limitando -va ribadito- l’analisi ai soli file di cui all’imputazione per i quali è intervenuta la condanna, difettavano entrambi gli elementi suvvisti, in quanto:

a) si trattava di frammenti di file incompleti e non coordinati tra loro, in quanto tali non visionabili;

b) gli stessi erano allocati in una parte del computer in cui non vi è prova, anche alla luce dei programmi software di cui disponeva, che lo S. potesse accedere.

Risulta, dunque, viziata da errore di diritto la sentenza impugnata laddove si reputa irrilevante, al fine di integrare l’elemento oggettivo del reato contestato, il fatto che si tratti di file completamente scaricati o comunque visibili e leggibili per l’utente, ritenendo che ciò sarebbe solo necessario nell’ipotesi di cui all’art. 600 ter c.p..

9. Fondata è anche la doglianza indicata in premessa sub b) riguardante la motivazione sull’elemento soggettivo del reato.

Si è detto in precedenza che occorre interpretare se il “consapevolmente” di cui all’art. 600 quater c.p., sia riferito alla sola condotta di procurarsi ovvero anche alla detenzione.

Pare evidente che la scelta sia stata orientata a lasciar fuori dalla sanzione penale quei casi in cui, per errore, ad esempio cliccando inconsapevolmente su un link apparentemente riguardante altro, si visioni solo per pochi attimi delle immagini pedopornografiche ovvero si acquisti o si riceva, dimostrando che ciò sia avvenuto inconsapevolmente, un aliud prò alio.

In quel caso non c’è il “procurarsi”. Ma non ci sarebbe stato, probabilmente neanche bisogno di utilizzare il “consapevolmente”. Nel concetto stesso di procurarsi è, insita, infatti, la volontà di ottenere per sè.

Evidentemente, dunque, anche la detenzione deve essere consapevole.

Coerentemente con tale conclusione questa Corte ha affermato, sebbene affrontando un caso in cui trovava applicazione la norma nel testo precedente la novella del 2006, che l’elemento soggettivo del reato in esame è costituito dal dolo diretto, cioè nella volontà di procurarsi o detenere materiale pornografico proveniente dallo sfruttamento dei minori, (sez. 3^, n. 41067 del 29.9.2007, P.M. in Proc. Silvestrini, rv. 238079, in cui la volontà di detenzione è risultata integrata dal rinvenimento di “files” pornografici scaricati e salvati nel computer dell’imputato benchè successivamente lo stesso avesse cancellato parte di essi).

Si è voluto, evidentemente tenere indenne dalla sanzione penale anche chi, ad esempio scaricando migliaia di file con un sistema peer to peer, si trovi a detenere inconsapevolmente, tra questi, dei file a contenuto pedopornografico.

Naturalmente, sarà un problema di prova. A fronte di un imputato che si difenda assumendo l’inconsapevole detenzione andranno valutati il numero dei file, la loro allocazione, il loro nome, la prova che siano stati visionati o meno.

Ebbene, nel caso che ci occupa, al di là di quanto già detto in precedenza per quel che concerne la fruibilità dei file in ragione della loro frammentazione, del non essere coordinati tra loro e dell’essere allocati in parti del computer inaccessibili con le normali strumentazioni software, il processo di merito -non dandosene conto in motivazione nè in primo nè in secondo grado- non fornisce tali prove. 0, quando le fornisce, le fornisce in negativo.

Non vi è prova, come detto, di come quei frammenti di file siano pervenuti nel computer. Nè che lo S. li abbia visionati. E nemmeno che dai nomi dei frammenti di file emergesse il loro contenuto pedopornografico. E nemmeno che sia mai stata utilizzata una stringa di ricerca, ben individuata, tesa a ricercare quel tipo di contenuto.

La Corte territoriale sembra valorizzare in maniera eccessiva il fatto che l’odierno ricorrente non si sia difeso, fornendo una valutazione alternativa dei fatti.

La circostanza che lo S. detenesse nella parte accessibile, così come in quella non accessibile, del computer migliaia di immagini e file a contenuto pornografico, in quanto tali leciti, tutti classificati e catalogati, depone, peraltro, ancor più per la detenzione inconsapevole di quei frammenti di file di cui all’imputazione.

10. S’impone, pertanto, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.

Così deciso in Roma, il giorno 16 gennaio 2014.

Depositato in Cancelleria il giorno 5 marzo 2014