Il privato non è obbligato alla tenuta delle scritture contabili e, pertanto, non si può gravare allo stesso di fornire la correlazione tra il tenore di vita e la disponibilità di risorse prive di rilevanza fiscale.

(Corte di Cassazione, sez. VI Civile – T, sentenza 4 marzo – 10 aprile 2015, n. 7339)

Svolgimento del processo

1. Gli atti del giudizio di legittimità. La CTR di Milano ha respinto l’appello dall’Agenzia proposto contro la sentenza n. 167/46/2010 della CTP di Milano che aveva accolto il ricorso di G.G. contro avviso di accertamento per IRPEF 2005, avviso emesso a seguito di accertamento sintetico di genere presuntivo fondato sulla capacità di spesa desunta dall’acquisto di tre appartamenti intestati al coniuge (fiscalmente a carico) del contribuente e dall’acquisto di una autovettura di grossa cilindrata.

L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a unico motivo. La parte intimata si è costituita con controricorso (e ricorso incidentale che è privo delle caratteristiche minime necessarie ai fini di consentire che lo si consideri tale, siccome manca la imprescindibile identificazione di uno dei motivi di impugnazione tra quelli tassativamente identificati dall’art.360 cpc).

Il ricorso è stato esaminato dal relatore designato ai sensi dell’art.380 cpc e fatto oggetto di proposta di definizione con la procedura di cui all’art.375 cpc ma il collegio designato per la trattazione camerale ne ha disposto la rimessione in pubblica udienza, ritenuto che non sussistessero i presupposti per la trattazione camerale. Non sono state depositate memorie illustrative.

La controversia è stata discussa alla pubblica udienza del 4.3.2015.

2. La motivazione della sentenza impugnata. La CTR Lombardia ha motivato la decisione ritenendo che la documentazione agli atti di causa per il periodo dal 2003 al 2008 apparisse idonea a giustificare gli investimenti immobiliari effettuati nel periodo (si trattava di rimborsi di finanziamenti effettuati in precedenza a favore di due società, oltre ai redditi dichiarati in somme cospicue, per importi complessivi che risultavano congrui per giustificare gli investimenti), in ragione di movimentazioni bancarie desunte dagli estratti-conto allegati in copia all’ appello incidentale di parte contribuente.

3. Il ricorso per cassazione

3.1. Il ricorso per cassazione è sostenuto con unico motivo e si conclude – previa indicazione del valore della lite in € 132.108,20- con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con ogni consequenziale pronuncia anche in ordine alle spese di lite.

Motivi della decisione

4. Il motivo dell’impugnazione.

Con il motivo unico di impugnazione (improntato alla violazione dell’art.38 comma 6 del DPR n.600/1973 e dell’art.2697 cod. civ.) la ricorrente si duole del fatto che il giudice del merito abbia ritenuto sufficiente da parte del contribuente -ai fini di vincere la presunzione di legge- la prova di percezione di adeguati redditi esenti o di redditi già soggetti a ritenuta alla fonte ai fini di giustificare gli incrementi patrimoniali, senza richiedere anche la necessaria prova del concreto impiego di detti redditi nell’effettuazione delle spese, mediante la specifica dimostrazione dell’impiego proprio di quelle somme che ne avevano costituito il frutto.

La censura appare infondata e da disattendersi.

La parte ricorrente menziona a sostegno della propria doglianza la pronuncia di questa Corte n.6813/2009 (massimata come di seguito:”In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall’art. 38, sesto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 non riguarda la sola disponibilità di redditi ovvero di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, ma anche l’essere stata la spesa per incrementi patrimoniali sostenuta proprio con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, e non già con qualsiasi altro reddito dichiarato”), orientamento al quale hanno poi aderito Cass. sez.5 n.23785 del 24.11.2010, Cass. sez.6-5, Ordinanza n.2010 del 29.1.2014 e -solo come premessa argomentativa ai fini della reiezione dell’impugnazione proposta dall’Agenzia- Cass. sez. 5, Sentenza n.3111 del 12.2.2014, orientamento che non può avere qui seguito e costituire condivisibile ricostruzione esegetica della disciplina normativa invocata a supporto del motivo di impugnazione.

E ciò, non soltanto perché il testo del comma sesto del menzionato art.38 (nella versione applicabile ratione temporis, antecedente alla recente novella introdotta dall’art.22 del D.L. n.78/2010) non contempla affatto un tale “contenuto necessario” dell’onere di prova che incombe a carico della parte contribuente per effetto dell’inversione disposta dalla norma (“Il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”), così che esso si estenda alla dimostrazione della stretta correlazione tra spese e somme derivanti da redditi esenti o già soggetti a ritenuta alla fonte, ma anche perché vi sono argomenti logici, a valenza di interpretazione sistematica, che depongono a sfavore di un così rigoroso tenore dell’onere di prova.

Da un canto, la tesi che ha trovato accoglimento nella pronuncia dianzi menzionata finirebbe per spostare il baricentro della prova contraria addossata al contribuente dall’ambito della “astratta compatibilità” tra spese/tenore di vita e reddito fiscalmente non rilevante al vero e proprio nesso causale tra le due connesse entità, e ciò fino ad imporre al contribuente un rigore probatorio capace di confinare con la probatio diabolica: ed infatti, se il danaro è l’ente fungibile per eccellenza, riuscire a tenerne tracciati i percorsi, quasi alla stregua di quanto è imposto per i prodotti alimentari nel sistema di tutela delle denominazioni d’origine, appare davvero evenienza troppo ardua.

Ciò appare immediatamente percepibile con riferimento alla modalità dell’accertamento redditometrico “puro” (non essendoci davvero modo per comprovare “come” sia stata sostenuto l’onere economico della disponibilità di beni o servizi a godimento perdurante nel tempo o periodicamente ricorrente, specie perché si tratta di una spesa presunta in ragione di dati di normalità economica e non necessariamente sostenuta in pecunia o valori correnti, e comunque non fisicamente identificata), ma non può risultare meno vero anche in riferimento alla modalità di accertamento redditometrico “sintetico”, atteso che è del tutto conforme alla logica che il contribuente possa avere adoperato per i suoi acquisti di beni e servizi proprio i redditi che sono stati puntualmente dichiarati, sapendo di poter poi contare (per affrontare le residue ed ordinarie esigenze della vita) su quelli fiscalmente irrilevanti o comunque già oggetto di prelievo alla fonte.

D’altronde, anche a voler stare alla sola logica del sistema, non si può che rilevare la costruzione accusatoria, nell’accertamento sintetico, si incentra su presunzioni che sono fondate sulla “incompatibilità” tra tenore di vita e reddito dichiarato (il comma 4 dell’art.38 prevede:” l’ufficio può, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato”), sicché la prova contraria non può che tendere a dimostrare l’esatto opposto di questo assunto, e perciò la “compatibilità” tra tenore di vita e reddito dichiarato, compatibilità che non può che essere di genere astratto così da prescindere dalla esatta identificazione del nesso causale tra incassi ed esborsi.

Inoltre, i destinatari dell’accertamento sintetico sono -per definizione- soggetti non obbligati alla tenuta delle scritture contabili, sicché ad essi non si può estendere la logica che presiede agli accertamenti fondati sui riscontri con i conti correnti bancari (tante operazioni, altrettanti riscontri documentali ci devono essere circa la provenienza o la destinazione) e non li si può gravare di fornire la puntuale dimostrazione della correlazione causale tra il loro tenore di vita e la disponibilità di risorse prive di rilevanza fiscale.

D’altronde, più di recente (ma sempre in riferimento alle fattispecie soggette alla disciplina ante novella) questa Corte ha evidenziato che, anche con riferimento agli accertamenti sintetici fondati su spese sostenute per “incrementi patrimoniali”, la prova documentale contraria di cui è onerato il contribuente “riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte e non anche la dimostrazione del loro impiego negli acquisti effettuati”, essendo detta circostanza “idonea, da sola, a superare la presunzione dell’insufficienza del reddito dichiarato” (Cass. sez.5 Sentenza n.6396 del 19.3.2014).

In un’ottica di interpretazione logico-sistematica, la predetta pronuncia giunge alla conclusione che al contribuente è richiesto di semplicemente vincere la presunzione “semplice o legale che sia” che il reddito dichiarato non sia stato sufficiente per realizzare gli acquisti o gli incrementi, con la qual cosa il fatto presuntivo esposto dall’Ufficio cessa di “produrre i propri effetti”.

Per altro verso, ed in un’ottica esegetica di maggiore aderenza al dato letterale normativo, Cass. sez.5 Sentenza n.8995 del 18.4.2014 (poi ripresa da Cass. sez. 5 Sentenza n.17663 del 6.8.2014 e da Cass. sez.5 Sentenza n.25104 del 26.11.2014) ha invece affermato che “la prova documentale contraria ammessa per il contribuente dall’art.38….non riguarda la sola disponibilità di redditi esenti o di redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ma anche l’entità di tali redditi e la durata del relativo possesso che costituiscono circostanze sintomatiche del fatto che la spesa contestata sia stata sostenuta con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta”.

Tuttavia, affrontare qui la soluzione della questione -oggetto del dibattito intrapreso con i due orientamenti da ultimo menzionati- se la prova di entrambe siffatte “circostanze sintomatiche” sia oggetto di un onere necessario ed ineludibile con riferimento ad entrambe le tipologie di accertamento di tipo redditometrico, ovvero se competa al giudice del merito semplicemente fare adeguata e calibrata valutazione delle risultanze di causa (queste si, necessariamente documentali) -al fine di valutare se sia da ritenersi integrata, almeno grazie ad una delle due categorie di circostanza contemplate, la prova contraria che la disciplina di legge addossa alla parte contribuente- appare del tutto frustraneo, atteso che, per quanto rileva ai fini delle specie di causa, resterebbe argomentazione puramente teorica.

Ai fini della soluzione della lite basta infatti ribadire la pura e semplice infondatezza della tesi prospettata dalla parte ricorrente, la quale propone una esegesi normativa che non trova -a parere di questa Corte- riscontro alcuno nella lettera e nella ratio della legge, per tutte le ragioni che sono state poste in evidenza nella presente pronuncia e che costituiscono anche i presupposti argomentativi dei due orientamenti da ultimo enunciati, seppure questi ultimi ne facciano poi derivare esiti parzialmente difformi.

5. Conclusioni Non resta che concludere che l’apprezzamento del giudicante, radicato proprio sulla ritenuta idoneità della prova contraria addotta dal contribuente a dimostrare la compatibilità tra complessivi redditi maturati e le spese effettuate per incrementi patrimoniali, non merita cassazione per le ragioni postulate dalla parte ricorrente.

L’infondatezza dell’unico motivo giustifica l’integrale rigetto del ricorso principale, con conseguente assorbimento di quello incidentale. La regolazione delle spese di lite è improntata al criterio della soccombenza.

P.Q.M. 

Rigetta il ricorso.

Condanna la parte ricorrente a rifondere le spese di lite di questo giudizio, liquidate in € 5.500,00 oltre accessori di legge ed oltre € 100,00 per esborsi.