Il Tribunale del Riesame di Milano scarcera un clandestino: «Vendere droga è la sua sola fonte di sostentamento».

Nel diritto processuale penale italiano, il riesame, previsto e disciplinato dall’art. 309 del codice di procedura penale, è un mezzo d’impugnazione concesso al destinatario di una misura cautelare coercitiva e al suo difensore, e segue ad una richiesta dall’indagato o dal suo difensore.

L’organo competente è il Tribunale del riesame, una sezione apposita, non costituita nei capoluoghi più piccoli, del Tribunale del capoluogo del distretto di Corte d’appello nel caso di misura cautelare personale, di solito custodia cautelare, oppure nel caso di misura cautelare reale, sequestro di beni, il Tribunale territorialmente competente in base alla Procura della Repubblica che ha emesso il provvedimento di sequestro.

Il termine per presentare la richiesta di riesame è in entrambi i casi di dieci giorni.

La presentazione dei motivi è eventuale, perché è un mezzo d’impugnazione totalmente devolutivo.

Se proposti, possono essere presentati sia in contemporanea alla richiesta sia successivamente, prima dell’apertura della discussione, in questo caso possono essere anche altri aspetti rispetto a quelli già presentati.

Gli atti relativi al procedimento devono essere trasmessi dall’autorità giudiziaria procedente al tribunale entro cinque giorni, il quale decide entro dieci giorni dalla ricezione degli atti.

Si tratta di termini perentori, se non vengono rispettati, la misura cautelare disposta perde efficacia.

Il provvedimento sulla misura è immediatamente efficace.

L’Appello è disciplinato dall’articolo 310 del codice di procedura penale, che recita testualmente:

Fuori dei casi previsti dall’articolo 309 comma 1, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi.

Si osservano le disposizioni dell’articolo 309 commi 1, 2, 3, 4 e 7. Dell’appello è dato immediato avviso all’autorità giudiziaria precedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale l’ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda. Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall’articolo 127. Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne la copia. Il tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti.

L’esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l’appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva”.

Il riesame viene proposto entro dieci giorni dall’esecuzione della misura, ed è un mezzo con il quale si chiede la verifica di legittimità e di merito dell’ordinanza.

Può essere motivato oppure no, ed è un mezzo totalmente devolutivo.

Se anche sono indicati i motivi il Tribunale delle libertà non è vincolato.

Prevede termini perentori brevi, la quale violazione è sanzionata con la perdita di efficacia della misura.

Entro dieci giorni è necessario presentare la richiesta, il Tribunale chiede al Pubblico Ministero di ttrasmettere immediatamente e non oltre cinque giorni gli atti a carico e discarico, pena la perdita di efficacia della misura, ed entro dieci giorni dalla trasmissione degli atti il Tribunale deve decidere e depositare la motivazione della decisione, pena la perdita di efficacia della misura.

Le decisioni che può prendere il Tribunale sono:

dichiarare inammissibile il riesame, perché proposto fuori termine o da un soggetto non legittimato o perché riguarda un provvedimento per il quale non si può disporre il riesame

Annullare l’ordinanza che ha disposto la misura cautelare.

Riformare in melius il provvedimento o confermare ordinanza.

Essendo l’impugnazione devolutiva, il giudice del riesame non è vincolato ai motivi disposti dall’indagato, il Tribunale potrebbe ritenere infondati i motivi e annullare ordinanza per motivi diversi o confermarla ancora per motivi sempre diversi.

Nell’Appello si devolve al giudice quello che risulta nei motivi di impugnazione, che ci devono essere a pena di inammissibilità.

Sono previsti dieci giorni per la presentazione e venti giorni per la decisione, però qui si tratta di termini ordinatori, e il ritardo non produce conseguenze processuali.

Le decisioni di Riesame e di Appello sono ricorribili per Cassazione.

C’è obbligo di motivazione con esclusivamente per motivi di legittimità (ex art.606 c.p.p.), l’unico di merito è quello previsto dalla lettera “e”.

C’è la possibilità di fare il ricorso “per saltum”, saltando cioè il riesame e andando direttamente in Cassazione.

Il termine è di trenta giorni per decidere, ma anche qui è un termine ordinatorio, se la decisione non arriva entro trenta giorni la misura continua ad avere efficacia.

In materia di misure cautelari, una situazione di errore allo stato degli atti, durante le indagini può cambiare e portare a proscioglimento.

Ci sono situazioni nelle quali l’evoluzione delle indagini consente di verificare che quella persona non è responsabile per quel fatto di reato.

Questo prevedere meccanismi di riparazione, e vale per le misure custodiali, cioè gli arresti domiciliari e la detenzione.

Si ha riparazione per ingiusta detenzione, cioè si ha diritto ad un equo indennizzo.

Questo si trova nel codice di rito:

“ogni persona vittima di arresto e detenzione ingiusti, ha diritto ad un equo indennizzo” e poi si trova nella Convenzione Europea all’art.5.

L’ingiustizia può essere:

a) sostanziale, (art.314 comma 1 ), quando la misura è stata applicata a chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile; ha diritto ad equa riparazione

b) formale (art.314 comma 2), prosciolto o condannato quando risulti che il provvedimento è stato mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità, c’è valutazione al momento nel quale viene disposta la misura, anche qui si può ottenere equa riparazione.

Il requisito dell’ingiustizia sostanziale è stato ampliato dalla sentenza n.219/2008 della Corte Costituzionale.

Il caso riguardava una persona che era già in custodia ed era stata successivamente condannata con pena inferiore rispetto a quella già scontata.

La Corte parte dall’idea che una riparazione patrimoniale non è molto rispetto alla limitazione della libertà personale, anche essendo l’unica modalità risarcitoria.

La ratio è di applicare un principio solidaristico, il provvedimento era di per sé lecito al momento, ma all’esito del giudizio si verifica che c’è stato un pregiudizio ingiusto.

Questo impone un meccanismo risarcitorio.

La Corte ritiene che non vi sia possibilità di negare meccanismi solidaristici anche in un caso di simile.

C’è l’obbligo costituzionale di indennizzare il pregiudizio, e oggi c’è diritto alla riparazione anche in questa ipotesi e si mira a risarcire un sacrificio della libertà che si è verificato a posteriori eccessivo.

L’art. 314 stabilisce:

qualora non abbia dato luogo a concorso di causa per dolo o colpa grave”.

Ad esempio un indagato che si avvale della facoltà di non rispondere non è dolo ma colpa grave, oppure un indagato che fornisce circostanze false è dolo e quindi si può escludere l’equa riparazione.

L’equiparazione riguarda anche le ipotesi di detenzione subite in caso di arresto in flagranza o fermo.

La richiesta di riparazione (ex art.315) deve essere proposta entro due anni da quando la sentenza è diventata irrevocabile da parte di chi vi abbia interesse, o l’archiviazione è inoppugnabile.

La richiesta è fatta alla Corte di Appello che decide in camera di consiglio.

L’art. 314 prevede che la riparazione deve essere equa.

Ci possono essere varie componenti di danno:

danno morale, o danni economici quantificabili,danno non patrimoniale non quantificabile sui quali agisce la valutazione equitativa da parte del giudice.

Della diversità di situazioni il giudice deve tenere conto in relazione alla quantificazione dell’entità dell’indennizzo.

La riparazione è prevista esclusivamente per le misure custodiali, altre misure che possono avere anche conseguenze simili sul piano del danno morale, non sono suscettibili di riparazione.

Fonte: Diritto.it

Quanto sopra, in premessa;

Il tribunale di Milano scarcera un clandestino «Vendere droga è la sua sola fonte di sostentamento»

Milano I giudici del Tribunale del riesame di Milano, concordando con l’avvocato difensore, il 18 luglio hanno fatto cadere le accuse a suo carico sentenziandone la scarcerazione per «assenza di gravi indizi».

Gli stessi indizi che, invece, il 27 giugno, dopo il giudizio per direttissima, avevano portato il gambiano 31enne Buba C. in cella a San Vittore, bollandolo come pusher recidivo e particolarmente operoso di una delle zone al momento più calde dello spaccio milanese quando, per la seconda volta in quattro giorni (la prima era stata il 23 giugno, ndr) era stato sorpreso a vendere ecstasy in via dei Transiti, periferia nord della città, dalla squadra investigava dei commissariati di polizia di «Greco Turro» e «Villa San Giovanni».

Anzi, seppur assai discutibili, nelle motivazioni al rilascio il Riesame ha voluto trovare anche alcuni «alibi» alla condizione di fuorilegge del gambiano che, già in precedenza, gli era costata, sempre a Milano, due denunce per il medesimo reato (prima di quella del 23 giugno, infatti, ce n’era stata un’altra esattamente cinque mesi prima, il 23 gennaio) e un analogo arresto datato 19 novembre 2016.

È così che l’africano – respinto dalla Svizzera come clandestino e fotosegnalato per la prima volta in Italia due anni fa a Como, con precedenti penali per spaccio, altre due denunce tra quest’anno e il 2017 rispettivamente per falsa attestazione sull’identità personale e per ricettazione – secondo i giudici milanesi che decidono per il rilascio dei detenuti, farebbe lo spacciatore perché, scrivono, non avendo «(…) alcun provento derivante da attività lavorativa, lo spaccio appare l’unico modo per mantenersi».

E non è tutto. I giudici del Tribunale del riesame ammettono che ci sia «un concreto e attuale pericolo di reiterazione di analoghi reati, tenuto conto dei precedenti specifici, l’ultimo dei quali risale a pochi giorni prima dell’arresto» (e qui elencano anche le denunce che avevano già colpito Buba C.).

Così concludono: «Posto che il reato è stato commesso a Milano» e che le impronte sono tutte relative «a fatti commessi in questa città, va applicato il divieto di dimora nei territori del Comune di Milano, onde ad allontanare il ricorrente dal contesto territoriale in cui ha operato». Come se davvero fossero così ingenui da poter anche lontanamente sperare che un tipo del genere si possa fare degli scrupoli a tornare in un luogo che gli è stato precluso.

La parte più grave però è sicuramente la seguente.

I giudici del Riesame accolgono il ricorso perché, anche se in direttissima si è deciso che Buba C. doveva andare in carcere, il tribunale ordinario a loro parere avrebbe ragionato in maniera errata.

«Il dato ponderale» (cioè le 5 pastiglie di ecstasy, ndr) – infatti per questi magistrati – è molto contenuto».

Scordando come anche una sola pastiglia di questa sostanza psicoattiva possa significare morte sicura.

Infine concludono le loro motivazioni al rilascio del gambiano cantandosela e suonandosela. «I limiti di pena previsti dall’articolo 73, comma 5 della legge 309 del 1990 (che parla proprio di reati di lieve entità, ndr) non consentono la custodia cautelare in carcere» scrivono i giudici.

Che tradotto significa: «poiché per noi del Riesame si tratta proprio di un reato da nulla, il gambiano, come dice la legge a proposto dei crimini irrilevanti, in carcere non ci può stare».

Ora un dato: solo le squadre investigative dei commissariati «Greco Turro» e «Villa San Giovanni» e nel solo nel mese di giugno in via dei Transiti hanno arrestato un gruppo di 10 gambiani, un sudanese e un giovane del Mali. Tutti pusher tra i 20 e i 25 anni. E, guarda un po’, tutti richiedenti asilo.

Fonte il Giornale.it

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Vale ancora la pena, con indagini che richiedono giorni, mesi o anni per raccogliere delle prove che possano mettere fine allo spaccio di sostanze stupefacenti quando, poi, un Tribunale del Riesame scarcera un trafficante di “morte” giustificando che tale attività, per lo spacciatore, è l’unica che gli permette di sopravvivere (siffatta giustificazione aprirebbe le porte a tutti coloro che, non trovandosi in condizioni di trovarsi un lavoro, sono giustificati nel compiere reati penali quali rapine, furti, scippi pur di raggranellare qualche euro).

Se è vero che noi siamo tenuti a rispettare le leggi nelle nostre attività investigative, qualunque esso sia, è altrettanto vero che gli stessi Giudici, nel loro ruolo decisionale, devono attenersi alle leggi (art. 101 comma 2 Costituzione) applicandola e non interpretandola a proprio piacere.

Se la Costituzione, che è legge fondamentale a cui tutti i cittadini devono obbedire, stabilisce che la legge governa e prevale sul volere dei magistrati ciò significa che impone il divieto per gli stessi di discostarsi dal dettato normativo.

Insomma il potere interpretativo delle leggi può sussistere solo come ultima ratio ossia quando una controversia non può essere decisa sulla base di precisa disposizione di legge.

Ed anche in tal caso il giudice deve fare ricorso in primo luogo a disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe e, se è il caso resta ancora dubbio deve comunque attenersi ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato.