Illecita sottrazione di minori, prevista dalla convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980. Irrilevanza della valutazione di rischi connessi al rientro del minore, secondo quanto stabilito dal provvedimento di affidamento.

(Corte di  Cassazione, Sezione Prima Civile, Sentenza 21 ottobre 1999, n. 13657)

…, omissis …

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso ai sensi dell’art.7 della legge 15 gennaio 1994, n.64, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna, dietro richiesta della cittadina norvegese L. F. rivolta alle autorità del proprio Paese ed intesa ad ottenere il rientro immediato in patria della figlia minore (omissis), che la madre assumeva esserle stata affidata con il provvedimento di divorzio emanato dalla competente autorità giudiziaria dello stesso Paese e quindi sottratta per avere il padre S. B., al termine del periodo di vacanza previsto per il 31 agosto 1997, trattenuto la bambina presso la sua abitazione di Rimini, chiedeva al medesimo Tribunale apertura in via d’urgenza del procedimento di cui al richiamato art.7.

Il giudice adito, con decreto emesso il 13.11.1997, in accoglimento ricorso, ordinava che la minore fosse immediatamente riaffidata alla madre, assumendo che il padre non avesse fornito la dimostrazione della sussistenza di un fondato rischio per la minore stessa di venire esposta, per il fatto del suo ritorno, al rischio di inconvenienti fisici e psichici o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile, tanto più che la prova del preteso squilibrio mentale della genitrice, oltre che contraddetta dalla documentazione medica versata in atti, risultava mancare anche soltanto in via presuntiva, avendo il B. medesimo reputato tali condizioni non preclusive dell’affidamento della bambina alla F. e non essendo state queste ultime di ostacolo ad un regolare mantenimento dei rapporti padre-figlia.

Avverso il richiamato decreto, il B. propone ricorso per cassazione, illustrato da memoria, deducendo due articolati motivi di gravame, ai quali resiste la F. con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di impugnazione, lamenta il ricorrente, in relazione al disposto dell’art.360, n.3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione di norme di diritto, deducendo particolarmente:

a) la violazione e l’erronea applicazione dell’art.3 della Convenzione dell’Aja del 1980, nel senso che il giudice a quo non avrebbe affatto analizzato se tra la mancata riconsegna della bambina e l’iniziativa della madre di attivare la procedura di rimpatrio fosse intercorso o meno un periodo “eccessivo” di trattenimento della minore tale da farlo considerare illecito, né avrebbe tenuto conto della circostanza che esso ricorrente, nel trattenere la figlia presso di sé, ha inteso esclusivamente esercitare i diritti-doveri di genitore munito di responsabilità parentale congiunta, onde la propria condotta risulterebbe scriminata per avere egli agito nella convinzione di evitare alla figlia un incombente pericolo di grave pregiudizio;

b) la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 della Convenzione di New York del 1989, dell’art.13, comma secondo, della Convenzione dell’Aja sopra richiamata e dell’art.7, comma terzo, della legge n.64 del 1994, nel senso che il primo giudice, prima ancora di non avere dato corso all’audizione della bambina, avrebbe omesso qualsiasi valutazione in merito alla capacità di discernimento della stessa, che, pure, risultava altrimenti comprovata emergendo la volontà di questa di vivere con il padre;

c) l’erronea applicazione e interpretazione dell’art.13, terzo comma, della Convenzione dell’Aja del 1980, nel senso che il giudice a quo avrebbe erroneamente attribuito valore di piena prova alle informazioni fornite dai Servizi Sociali Norvegesi, sottratte ad ogni forma di controllo internazionale, ritenendole a tal punto vincolanti da vanificare le opposte argomentazioni del B. e da non attribuire la dovuta valenza alle allegazioni di quest’ultimo, ovvero dell’unica parte processuale sulla quale incombe l’onere relativo.

Il motivo non è fondato.

Per quel che concerne, infatti, il profilo sub a), giova innanzi tutto notare come l’oggetto della Convenzione sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori (d’ora innanzi denominata, per brevità, “la Convenzione”), aperta alla firma all’Aja il 25 ottobre 1980 e resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 1994, n.64, in relazione allo scopo stesso, enunciato nel preambolo, di “proteggere il minore, a livello internazionale, contro gli effetti nocivi derivanti da un suo trasferimento o mancato rientro illecito”, possa essere agevolmente individuato nell’esigenza di assicurare la tutela dell’affidamento dei minori quale situazione di mero fatto da reintegrare con l’immediato ritorno di questi nello Stato di loro abituale residenza essendo irrilevante l’esistenza di un titolo giuridico o di una pronuncia sull’affidamento (Cass. 20 marzo 1998, n.2954; Cass. 23 giugno 1998, n.6235), ovvero nella predisposizione delle misure idonee ad assicurare senza indugio il rientro dei minori illecitamente sottratti, nonché nel rendere possibile ed effettivo l’esercizio sia del diritto di custodia (o di affidamento) del diritto di visita (art. 1 della Convenzione), nel senso, rispettivamente, secondo quanto non si è mancato di sottolineare anche in dottrina, che l’immediato ripristino della situazione precedente alla sottrazione costituisce la condizione primaria per tutelare l’interesse del minore il quale resta soggetto durante il periodo di “kidnapping” alle tensioni derivanti dallo stato di conflittualità emotiva connesso al mutamento delle figure parentali di riferimento e che la decisione dell’autorità adita investe esclusivamente la tutela dell’affidamento violato impedendo quindi qualsiasi decisione sul merito del diritto di custodia (ovvero sulla spettanza stessa dell’affilamento) se non previa ricostituzione dello stato di fatto, relativo al minore, risultante dal titolo legittimo del paese da cui il medesimo sia stato sottratto.

In questa chiave, è agevole comprendere come la disposizione contenuta nell’art.3, primo comma, lettera a), della Convenzione non consenta alcun margine di discrezionalità nell’apprezzamento dell’illiceità del trasferimento o del mancato rientro di un minore (tanto meno nei termini voluti dall’odierno ricorrente circa la necessità di valutare altresì l’ampiezza del periodo di trattenimento e di riconoscere rilievo a quest’ultimo esclusivamente là dove “eccessivo”, così da non potere invece considerare antigiuridico il trattenimento stesso nel caso in cui sia intercorso un modesto lasso di tempo tra la mancata riconsegna e l’attivazione della procedura di rimpatrio), atteso che l’illecito in argomento si realizza quando (e per il solo fatto che) il trasferimento o il mancato ritorno conseguente all’esercizio del diritto di visita avvengano in violazione dei diritti di custodia o di affidamento attribuiti al titolare (persona fisica o giuridica) in conformità alla legge dello Stato di abituale residenza del minore (art.3, primo comma, lettera “a”, della Convenzione), onde, quante volte, come nella specie, l’esercizio del richiamato diritto di visita sia stato specificatamente regolamentato nel provvedimento giudiziale di affidamento posto a base dell’istanza di rimpatrio nel senso che ne siano state fissate in termini precisi le modalità e la durata, è palese che si dovrà ritenere illecito il mancato rientro del minore qualora (e nel momento stesso in cui) tale rientro non avvenga alla scadenza stabilita e la mancata riconduzione del minore medesimo nel paese di residenza si protragga oltre detta scadenza, indipendentemente, poi, dalla lunghezza (maggiore o minore) del ritardo, la quale, semmai, rileva ai soli fini di cui all’art.12 della Convenzione, ovvero nel senso che l’Autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato dove il minore si trova, qualora sia stata adita trascorso un periodo superiore ad un anno a decorrere dal trasferimento o dal mancato rientro, deve ordinarne il ritorno alla sola condizione che non sia dimostrato che il minore stesso si è integrato nel suo nuovo ambiente.

Secondariamente, è da escludere che l’esercizio della potestà parentale, ove pure congiunto, possa costituire causa di esclusione dell’antigiuridicità della condotta dell’agente scriminando questa là dove l’agente medesimo abbia agito nella convinzione di evitare un incombente pericolo di grave pregiudizio per il minore, atteso che l’attribuzione congiunta della potestà sulla prole ad entrambi i genitori non esclude la configurabilità dell’illecito de quo a carico del genitore che sottragga il figlio (minore) all’altro cui questo sia stato legalmente affidato, essendo la stessa Convenzione a prevedere, all’art.13, primo comma, lettera b), che l’autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto non è tenuta ad ordinare il ritorno del minore qualora la persona, istituzione o ente che si oppone al ritorno dimostri che sussiste un fondato rischio, per il minore medesimo, di essere esposto, per il fatto del suo rientro, a pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile, ciò che, peraltro, postula la prova dell’esistenza di una situazione obiettiva (e non meramente putativa), della quale, nella specie, la decisione impugnata si è data carico con apprezzamento di fatto incensurabile sotto le specie della violazione di legge non ravvisandosi in ogni caso il vizio della mancanza di motivazione (la quale si verifica nei casi di radicale carenza di essa, o del suo estrinsecarsi in argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi – c.d. motivazione apparente -, o fra di loro inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili).

Per quanto attiene, poi, al profilo su b), conviene notare come sia la Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con la legge 27 maggio 1991, n.176, sia la Convenzione dell’Aja del 1980, sia, infine, la legge n.64 del 1994, non prevedano affatto l’indiscriminata possibilità per il minore di esprimere liberamente la sua opinione (da venire quindi debitamente considerata) su ogni questione che lo interessa e di essere in particolare ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, risultando al contrario tutto quanto precede espressamente subordinato, secondo un apprezzamento evidentemente discrezionale, alla capacità di discernimento del minore stesso ovvero alla sua età e al suo grado di maturità (art.12, primo comma, della Convenzione di New York), o, di nuovo, alla sua età e al suo grado di maturità (art.13, secondo comma, della Convenzione dell’Aja), o, infine, ad una generica valutazione di opportunità da effettuare caso per caso (art.7, terzo comma, della legge 64/1994).

Poiché, nella specie, è lo stesso ricorrente a dare conto del fatto che la minore, all’epoca della decisione impugnata, aveva “tre anni e sette mesi”, non è dubbio che la mancata audizione della medesima da parte del giudice a quo non si sia risolta in alcuna violazione di legge, né in quanto tale, essendo come detto siffatta audizione semplicemente eventuale e non anche necessaria al pari di quelle della persona presso cui si trova il minore, del pubblico ministero e della persona che ha presentato la richiesta (art.7, terzo comma, della legge 64/1994), né sotto le specie della totale mancanza di motivazione al riguardo, posto che:

a) l’età stessa della minore, secondo le nozioni di comune esperienza ed in mancanza comunque di idonea dimostrazione del contrario da parte dell’interessato che risulti esser stata fornita davanti al Tribunale per i Minorenni, si palesa incompatibile con il raggiungimento di un grado di maturità e con il possesso di una capacità di discernimento tali da rendere opportuna la considerazione del suo parere, sconsigliandone anzi l’audizione al fine di evitare l’insorgere di traumi psichici che una simile età può rendere pericolosi e che sarebbero del tutto ingiustificati non essendo comunque la minore medesima da ritenere in grado di compiere scelte libere e razionali, idonee a prevalere sulla presunzione del suo interesse a ritornare presso il soggetto affidatario, nella sua abituale residenza (Cass. 18 gennaio 1997, n.507, in ordine all’insufficienza di un’età di “sei” anni; Cass. 15 novembre 1997, n. 11328);

b) in questo senso, il difetto di motivazione censurato dal ricorrente è assimilabile ad un implicito (ma inequivoco) apprezzamento, di per sé insindacabile nei termini della violazione di legge sopra indicati, circa l’insussistenza di una siffatta opportunità.

Per quanto, infine, concerne il profilo sub c), si osserva che l’ultimo comma dell’art.13 della Convenzione dell’Aja impone all’Autorità richiesta, nel valutare le circostanze di cui allo stesso articolo (e, quindi, con riferimento al caso di specie, quelle di cui alla lettera “b” del primo comma), di tenere conto delle informazioni fornite dall’Autorità centrale o da ogni altra Autorità competente dello Stato di residenza del minore, riguardo alla sua situazione sociale, cosicché non è dubitabile che la pronuncia impugnata dovesse, come esattamente ha fatto, tenere conto di dette informazioni, pena, in caso contrario, la violazione dell’ultimo comma del richiamato art. 13.

Circa, poi, la pretesa efficacia esclusiva che sarebbe stata attribuita dal giudice a quo alle medesime informazioni riconoscendo a queste valore vincolante di piena prova in contrasto con le allegazioni offerte dall’odierno ricorrente, è da notare come il convincimento dello stesso giudice quanto all’insussistenza delle condizioni di cui all’art.13, primo comma, lettera b), della Convenzione, sia stato raggiunto sulla base non soltanto delle informazioni provenienti dall’autorità amministrativa di Bergen (relazione socio ambientale in data 28.10.1997), ma altresì di ulteriori elementi (così, la relazione della psicologa e dell’assistente sociale incaricate dal Ministero di Grazia e Giustizia, le vicende della separazione tra i genitori e le certificazioni provenienti dai medici norvegesi), onde non è dubbio che di tali informazioni il Tribunale per i Minorenni abbia (debitamente) fatto uso, ai fini della formazione del proprio convincimento, in concorso “paritario” con gli ulteriori elementi sopra richiamati, senza cioè minimamente attribuire alle medesime informazioni un valore peculiare o addirittura poziore rispetto al materiale probatorio di provenienza “interna” (Cass. 23 settembre 1998, n.9499) e senza quindi incorrere in alcun modo nella violazione di legge denunziata dal ricorrente.

Con il secondo motivo di impugnazione, lamenta quest’ultimo, in riferimento all’art.360, n.5, c.p.c., l’omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia, deducendo in specie:

a) l’omessa motivazione in ordine al mancato esame di documenti e allegazioni dedotti da esso ricorrente quanto alle condizioni fisiche della minore, allo stato di salute psichica della madre di questa e alla situazione sociale della minore medesima a Rimini presso il padre;

b) la contraddittorietà della motivazione, nonché l’insufficienza e l’illogicità della stessa relativamente alla relazione socio-ambientale del 28.10.1997 redatta dai servizi sociali di Bergen ed alla relazione dell’8.11.1997 redatta dai servizi sociali italiani su disposizione dell’Autorità centrale.

Il motivo non è fondato.

Per quanto, infatti, concerne il profilo sub a), conviene premettere che il mancato esame e la mancata valutazione di documenti sono riconducibili al vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia là dove trattisi di documenti idonei a fornire la prova di un fatto che, se tenuto presente dal giudice del merito, avrebbe necessariamente dovuto condurre ad una decisione diversa da quella adottata, risultando cioè tale da invalidare, secondo un giudizio di certezza e non di mera probabilità, i presupposti sui quali è fondato il convincimento del medesimo giudice (Cass. 14 marzo 1992, n.3173; Cass. 3 settembre 1994, n.7631; Cass. 17 gennaio 1996, n.340; Cass. 15 maggio 1997, n.4310).

Nella specie, la documentazione che il ricorrente indica non essere stata esaminata dal Tribunale per i Minorenni (e di cui alle pagine da 11 a 14 del ricorso), vuoi per la sua provenienza (trattandosi cioè di attestazioni rilasciate da specialisti privati), vuoi per il suo contenuto (quale risulta dal riassunto fattone nel ricorso stesso e relativo ai problemi di salute della minore, alle condizioni psichiche della madre di questa ed alla situazione sociale della minore medesima a Rimini, presso il padre), non si palesa tale da indurre di per sé la dimostrazione della sussistenza del presupposto richiesto dall’art.13, primo comma, lettera b), della Convenzione, a ciò ostando sia gli elementi di segno contrario (particolarmente per quanto attiene allo stato di salute della bambina e alle condizioni psichiche della madre) desumibili dagli atti espressamente posti a fondamento della decisione impugnata, sia, in ogni caso, il rilievo secondo il quale l’esistenza di quei determinati disturbi fisici e psichici in capo, rispettivamente, alla minore e alla madre che risultano dalla documentazione invocata dall’odierno ricorrente, come pure la presenza di una conveniente situazione sociale della minore stessa a Rimini presso il padre, risultano privi del carattere della decisività, ovvero inidonei a fornire, in quanto tali e sulla base di un rapporto di causalità necessaria, la prova della sussistenza del fondato rischio per la predetta di venire esposta a pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile, a cagione del suo ritorno, mancando in specie la dimostrazione del difetto di siffatti pericoli anteriormente all’illecita sottrazione e ravvisandosi invece la dimostrazione dell’esistenza delle situazioni denunciate dal ricorrente anche prima del mancato rientro, onde l’impossibilità di riguardare i suddetti pericoli come eziologicamente legati al rimpatrio della minore.

Circa, poi, il profilo sub b), si osserva:

1) che del tutto corretta (e niente affatto contraddittoria) si palesa l’affermazione del giudice a quo secondo la quale il padre della bambina non avrebbe fornito la dimostrazione della sussistenza del presupposto di cui al richiamato art. 13, primo comma, lettera b), della Convenzione, atteso che gli argomenti di seguito esposti dal Tribunale per i Minorenni suffragano esattamente il convincimento opposto all’assunto dell’odierno ricorrente, sì che appare del tutto ragionevole la predetta affermazione là dove stia a significare, come esattamente sta a significare, la riconosciuta prevalenza degli elementi posti a fondamento della decisione rispetto a quelli offerti dal B.;

2) che neppure è ravvisabile contraddizione nel fatto che il giudice del merito si sia riferito, al fine di motivare l’insussistenza del rischio di pregiudizio per la minore, agli accordi tra i genitori in sede di separazione ed alle dichiarazioni rese dal B. all’udienza davanti allo stesso giudice, atteso che detti elementi posseggono indubitabilmente una loro intrinseca ragionevolezza e, che, comunque, non sono stati posti a fondamento della decisione in via esclusiva ma in concorso con gli ulteriori elementi documentali sopra richiamati;

3) che non è censurabile, sotto il profilo della pretesa insufficienza e illogicità della motivazione, il preminente valore attribuito a quanto asserito nella relazione socio ambientale in data 28.10.1997 redatta dai servizi sociali di Bergen (le cui dichiarazioni il giudice del merito si sarebbe limitato ad accogliere “acriticamente”), atteso che, secondo quanto già accennato, la considerazione di tali informazioni è comunque imposta dall’ultimo comma dell’art. 13 della Convenzione, laddove la decisione impugnata non ha in ogni caso riconosciuto alcun valore preminente alle informazioni medesime, essendo stato il convincimento del giudice di merito ricavato piuttosto dall’insieme degli elementi probatori dianzi richiamati e dovendosi quindi ammettere che la lamentata prevalenza, rispetto alle allegazioni del B., sia stata semmai attribuita dal Tribunale per i Minorenni non già alla relazione in argomento bensì al complesso degli elementi posti da detto giudice a fondamento della decisione;

4) che, riguardo alla relazione in data 8.11.1997 redatta dai servizi sociali italiani su disposizione dell’Autorità centrale, sia parimenti da escludere la configurabilità del denunciato vizio di insufficienza e illogicità della motivazione, atteso che da nessuno degli elementi prospettati dal ricorrente (di cui alla pagina 20 del ricorso) e contenuti nella relazione stessa emerge la dimostrazione della sussistenza degli estremi del pericolo per la minore nei termini previsti dall’art.l3, primo comma, lettera b), della Convenzione, laddove, d’altra parte, il vizio in parola neppure può dirsi integrato dalla mancata considerazione delle valutazioni operate dai servizi sociali italiani circa la “bontà” della situazione sociale della quale la minore godrebbe a Rimini presso il padre, dal momento che, di nuovo, la convenienza di una simile situazione non è evidentemente di per sé tale da postulare necessariamente la presenza di pericoli fisici o psichici per la minore, o comunque di una condizione intollerabile, legata al fatto del suo rientro, secondo il disposto del richiamato art.13, primo comma, lettera b), potendo semmai detta situazione essere posta a fondamento di un’eventuale, futura richiesta che, per i motivi sopra accennati, abbia per oggetto la modifica del regime stesso dell’affidamento e l’attribuzione di questo al padre piuttosto che alla madre.

Il  ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

La sorte delle spese del giudizio di cassazione segue il dettato dell’art.385, primo comma, c.p.c., liquidandosi dette spese in lire 2.671.400, di cui lire 2.500.000 per onorario.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione in favore della controricorrente delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in lire 2.671.400, di cui lire 2.500.000 per onorario.