Incidenti stradali: il danno morale torna autonomo. Passo indietro della Cassazione, addio alle sentenze di San Martino?

La liquidazione del danno morale non deve avvenire secondo automatismi in percentuale al danno biologico, altrimenti si rischierebbe una duplicazione risarcitoria: pertanto, è sempre necessaria una valutazione propria, tramite un accertamento caso per caso dell’esistenza del pregiudizio subito e della sofferenza psicologica patita.
Quanto stabilito dalle Sezioni Unite (sent. 26972/2008) non rappresenta un principio generalizzato, ma solo una esemplificazione.  
Lo afferma la terza sezione civile della Corte di Cassazione, nella sentenza, n. 3260/2016, accogliendo il ricorso di un uomo, rimasto gravemente infortunato a seguito di un sinistro.
Al ricorrente, conducente di una moto, il Tribunale riconosceva oltre 600.000,00 euro quale risarcimento del danno a seguito di un sinistro stradale, ritenendo la responsabilità esclusiva del conducente di un furgone.
In sede di gravame, la Corte d’Appello di Roma ritenne ritenne la responsabilità concorrente dei due conducenti – per due terzi a carico di quello del furgone, per il restante terzo a carico del conducente della moto – determinando il risarcimento nella minor somma di poco più di euro 370.000,00. 
Avverso la suddetta sentenza, il conducente della moto ha proposto ricorso innanzi al Palazzaccio.
Circa la dinamica del sinistro, sostengono  gli Ermellini, la Corte di merito sarebbe pervenuta correttamente al riconoscimento di una responsabilità concorrente del guidatore della moto attraverso una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, che ha messo in collegamento con le conclusioni della consulenza tecnica in ordine alla velocità tenuta dalla moto, valutando criticamente quest’ultima. 
Respinti, quindi, i primi due motivi, resta da analizzare la doglianza riferita alla parte della sentenza che ha rigettato l’appello incidentale del ricorrente volto ad un incremento della quantificazione del danno non patrimoniale riconosciuto.
Il ricorrente contesta la quantificazione che il giudice aveva fatto del danno non patrimoniale sotto il profilo del danno morale soggettivo, che il primo giudice aveva parametrato ad una percentuale (pari quasi a un terzo) del danno non patrimoniale da invalidità permanente, mentre in sede d’appello ne veniva chiesta la riconsiderazione in aumento, poichè il danno morale avrebbe potuto rappresentare 1/2 del danno da invalidità permanente (danno biologico per la lesione dell’integrità psicofisica).
Infatti, le lesioni subite si erano tradotte in postumi permanenti nella misura del 60% (trauma cervicale, lussazione C5 e C6, trauma cranico, tetraplegia), pertanto la somma liquidata a titolo di danno morale soggettiva appariva incongrua considerando la sofferenza psicologica patita nel prendere atto delle proprie condizioni fisiche di grave inabilità (confermate dal riconoscimento dell’invalidità civile al 100% in pendenza di gravame), che ne avevano stravolto le abitudini di vita in età giovanissima.
La Corte d’Appello, nell’affrontare l’appello incidentale, aveva stabilito che secondo l’arresto delle Sezioni Unite (n. 26972 del 2008), il danno morale soggettivo non potesse configurarsi come conseguenza immediata e diretta della durata e dell’intensità della lesione psicofisica, con la conseguenza che – quando non scompare del tutto – postula una “dimostrazione” e motivazione specifica.
Ha poi ritenuto che la sentenza impugnata aveva adottato un meccanismo escluso dalla giurisprudenza di legittimità menzionata, quantificando il danno in rapporto al danno biologico secondo una certa proporzione aritmetica; infine, ha ritenuto chein assenza di appello “principale” andava esclusa l’elevazione richiesta.
Per i giudici di Cassazione, tuttavia, la Corte di merito avrebbe sostanzialmente omesso di decidere in ordine all’appello incidentale proposto, non verificando se esistessero condizioni per valutare la congruità del danno “morale” liquidato e delle condizioni per riconoscerne o negarne l’aumento.
Ciò avveniva, prosegue la Corte, sulla base dell’erroneo presupposto che la liquidazione del danno morale soggettivo fatta dal giudice di primo grado attraverso l’individuazione di una proporzione percentuale del danno da lesione all’integrità fisica (cd. danno biologico) integrava la violazione del principio affermato dalle Sez. Un. citate, secondo il quale il danno morale soggettivo non può configurarsi come  conseguenza immediata e diretta della intensità della lesione psicofisica.
In definitiva, “dalla circostanza che nelle sentenza impugnata era stato utilizzato un metodo di quantificazione equitativa del danno ‘morale’ come frazione del danno biologico, ha fatto derivare l’esistenza di un automatismo (vietato sulla base della giurisprudenza richiamata) tra l’accertamento del danno per lesione del bene salute, costituzionalmente tutelato, (danno biologico) e il riconoscimento automatico della lesione di interessi inerenti la persona non presidiati dal suddetto diritto costituzionale alla salute“. 
In tal modo, quello che nella sentenza delle Sezioni Unite richiamata costituiva una mera esemplificazione, è divenuto, nell’errata interpretazione estrapolativa del giudice di merito, un principio generale consistente nel divieto dell’utilizzo di quel metodo di quantificazione del danno morale in senso stretto. 
In realtà, la Corte di merito avrebbe dovuto verificare quali fossero i pregiudizi patrimoniali risarciti in primo grado con la formula “danno morale” attraverso una quantificazione equitativa, in percentuale al danno non patrimoniale a titolo di lesione dell’integrità psicofisica del danneggiato (conseguenze di un reato che aveva leso il bene costituzionale della salute); poi, se era stata presa in considerazione solo la sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé, dando adeguato rilievo all’intensità e alla durata nei tempo ai fini della quantificazione; ed infine se era stata presa in considerazione la sofferenza morale determinata dal non poter fare, quale sofferenza psicologica patita dal danneggiato nel prendere atto delle proprie condizioni fisiche di grave inabilità, che ne avevano stravolto le abitudini di vita in età giovanissima, con modifica della personalità (che appaiono essere i pregiudizi dei quali l’appellante lamentava la mancata presa in considerazione da parte del giudice di primo grado).
A seguito di tale analisi, i giudici di Cassazione sottolineano il principio di diritto secondo cui “ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l’utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della sentenza delle Sez. Un. n. 26972 del 2008, non comporta che, accertato il primo, il secondo non abbia bisogno di alcun accertamento, perché se così fosse si duplicherebbe il risarcimento degli stessi pregiudizi“.
Aggiunge, invece, che “il metodo suddetto va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l’accertamento con metodo presuntivo, attenendo la sofferenza morale ad un bene immateriale, dell’esistenza del pregiudizio subito, attraverso l’individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo sulla base della necessaria allegazione del tipo di pregiudizio e dei fatti dai quali lo stesso emerge da parte di chi ne chiede il ristoro”.
Accolto il ricorso, la sentenza impugnata è cassata con rinvio.

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