Io non ho paura, racconti di un contadino abruzzese.

Carmine Forcella è un gigante buono. Oggi si fatica a immaginarlo con la divisa dell’Arma che ha vestito per oltre trent’anni. L’ha onorata con straordinaria operatività e con grande fiuto investigativo.

Un giorno i pentiti di ’ndrangheta e di mafia hanno deciso che doveva pagarla. Hanno tentato di incastrarlo e per lui è iniziata la battaglia più dura. Vinta. Ma il prezzo è stato alto.

Ne parliamo in lungo e in largo. Sul tavolo c’è il libro che ha scritto: “Io non ho paura”, nel quale racconta tutta intera la sua vicenda. Ma su date e fatti, questo è impressionante, non ha bisogno di aprire una sola pagina. Sono tutti impressi a fuoco nella mente. Una qualità che ha contribuito a salvarlo.

Quando il piccolo Carmine nacque, ultimo di undici figli, a Collotti, minuscola frazione di Atri, in provincia di Teramo, la levatrice arrivò sulla biga trainata da un cavallo.

Era il 1946 e i tedeschi se n’erano appena andati. Quel bambino giocava con il coperchio di una gavetta militare abbandonata e faceva il contadino. A diciassette anni la svolta, il viaggio a Roma con una valigia di cartone per diventare carabiniere.

Dopo il corso fu assegnato a Piadena, nel Cremonese. «Arrivai la sera del 29 settembre 1965 con il treno mosso ancora da una locomotiva a vapore. La nebbia si tagliava a fette». Il resto erano nugoli di zanzare. La stazione dell’Arma era composta da due carabinieri, uno dei quali era lui, più il comandante.

Lì Forcella conobbe la futura moglie, Aurora, un’insegnante. «Mi aiutò molto nella preparazione al corso sottufficiali. La mia base culturale era scarsa. Il primo tema che Aurora mi diede da fare era un commento al film “Il posto delle fragole”. Quando lo lesse, riempì il foglio di segnacci rossi e blu… Ciononostante mi impegnai per classificarmi tra i primi cinquanta e arrivai 15°».

Un traguardo importante era tagliato. Dopo un breve periodo come istruttore a Firenze, arrivò la destinazione di Milano. Il 20 maggio 1972 Carmine capitò per la prima volta a Como: «Era una giornata splendida. Dissi in cuor mio: “Da qui non mi muovo più”». Una settimana più tardi prendeva servizio nel nucleo radiomobile del capoluogo lariano.

Una rapina all’ufficio postale di Bregnano seguita dall’intuizione di Forcella che un informatore avesse la pista giusta per l’ottimo maresciallo Luciano Arrigucci gli valse ben presto il passaggio al nucleo investigativo.

Tante le azioni sul campo, assieme ad altri colleghi bravi come Severino Traglia e Mario De Luca. Tra queste, in occasione di un’altra rapina, la cattura di un bandito armato di pistola con un gran cazzotto che gli costò anche la frattura di una mano. «Erano gli anni della crisi energetica petrolifera. Finiva il contrabbando classico con le bricolle – rievoca oggi – Gli spalloni si riciclavano nel traffico di stupefacenti».

Era anche l’epoca dei sequestri di persona: Erika Ratti, Diego Bruga, Giovanni Stucchi, Cristina Mazzotti? «Andai nel carcere di Parma a parlare con uno dei rapitori di Stucchi nella speranza che dicesse dov’era il corpo dello sfortunato industriale. Non lo rivelò perché un “fine pena mai” garantisce comunque la vita. Non così per chi “canta”».

Intanto Carmine Forcella approdò alla polizia giudiziaria della Procura, dove operò dal 1976 al 1985. Fece il concorso e divenne maresciallo. La vita stava per riservargli una prima grande prova: la morte della moglie dopo settanta giorni di malattia. La figlioletta della coppia, Simona, aveva soltanto quattro anni. Al papà chiese: «Se troveranno la medicina per la mamma, potrà tornare con noi??».

Poi verrà il trasferimento a Cantù e, in breve, il comando del nucleo operativo radiomobile: «In otto anni e mezzo il bilancio fu di 750 arresti». Era forte la squadra, era ottimo il metodo, era bravo Forcella, che diventerà maresciallo maggiore aiutante, con i gradi rossi.

Troppo bravo, alla luce di quanto poi accadde. Scovò arsenali di armi, arrestò giovani bombaroli, pescò falsari e rapinatori, smascherò una moglie assassina che parlava al passato del marito che, in teoria, non doveva sapere morto.

Stroncò trafficanti di droga, risolse casi di morti ammazzati. Fino alla grande mazzata. «Un pentito dei Fiori di San Vito (la grande operazione anti-’ndrangheta, ndr) – racconta – decise che mi doveva gambizzare perché a causa mia lui e i suoi non lavoravano più. Cercò il mio indirizzo di casa e quello della scuola di mia figlia.

Arrestato, decise di gambizzarmi con le parole». Risultato: il 15 giugno 1994, al mattino presto, Carmine Forcella subì una perquisizione domiciliare e personale. L’accusa era pesante come un macigno: associazione mafiosa.

Si aprì così il precipizio di un girone infernale. Venne meno la stima di molti. Anche i superiori scaricarono quel maresciallo prima tanto osannato e delle cui brillanti operazioni contro la criminalità organizzata si erano avvantaggiati.
Più pentiti ora lo accusavano. Lui ingaggiò la lotta più difficile, durata sei anni, dal 1994 al 2000, quando venne prosciolto da ogni accusa e l’incubo finì: «Andai in pensione fin dal 1994. Contrastai tutto e tutti. Io non ci stavo a essere sacrificato sull’altare del pentitismo.

Non dubitai quasi mai del risultato finale. Ebbi pace solo quando trovai giustificazione alle prime dichiarazioni di chi mi accusava: eliminare chi gli dava fastidio».

Oggi Carmine Forcella può andare a testa alta e si è tolto anche lo sfizio di querelare chi lo aveva calunniato e di scrivere qualche letterina a chi si era subito liberato di lui, o peggio aveva contribuito ad accreditarne malefatte inesistenti.

«Ho dovuto riconoscere il diritto di dubitare a chi mi stava di fronte – dice oggi onestamente – Ma ho anche avuto manifestazioni di solidarietà. Ne cito due. Il pretore Luigi Volpez, quando ero fresco accusato, mi disse: “Adesso andiamo in piazza a prendere l’aperitivo”.

Non è cosa da tutti. E il maggiore dei carabinieri, Pietro Di Censo, comandante della compagnia di Cantù, venne a Milano, mi abbracciò e mi baciò davanti a tutti. Come a dire: “Questa è una persona seria”».

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