Legittima la sospensione disciplinare per l’avvocato che propone al cliente di produrre documentazione falsa (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 26 maggio – 16 luglio 2015, n. 14905)

Svolgimento del processo

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Treviso inflisse all’avv. M.M. la sanzione disciplinare di due mesi di sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per aver proposto alla propria assistita, al fine di rimediare all’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivatole da un sinistro stradale, di utilizzare un avviso di ricevimento relativo ad altra richiesta risarcitoria indirizzata alla medesima compagnia di assicurazione in relazione ad altro sinistro, così da documentare falsamente di avere interrotto il termine di prescrizione.

Il ricorso avverso la suddetta decisione è stato respinto dal Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia del 25 luglio 2014, che ora la M. impugna per cassazione attraverso sei motivi.

La ricorrente ha depositato memoria per l’udienza.

Motivi della decisione

Il primo motivo censura la decisione (art. 360 n. 5 c.p.c.) per avere omesso il giudice disciplinare di procedere all’ascolto della registrazione del colloquio avvenuto tra cliente e professionista, benché tale ascolto fosse stato disposto con apposita ordinanza.

Il secondo motivo censura la sentenza per “violazione del principio di esaustività e sufficienza della prova –Contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e sostiene che i giudici disciplinari avrebbero dovuto riconoscere che la frase proferita dalla professionista non era sufficiente a far emergere alcun tipo di responsabilità; laddove, poi, tale frase fosse stata comunque considerata sconveniente, essi avrebbero dovuto astenersi dal condurre ulteriore istruttoria e procedere con l’inflizione di una sanzione formale. 

Il terzo motivo sostiene la “violazione del principio di esaustività della prova – Motivazione solo apparente”, il CNF avrebbe citato le frasi “a metà oppure a frammenti, snaturando così il loro vero significato, attribuendo significati simili ad espressioni di diverso contenuto”.

Il quarto motivo censura l’omesso esame delle altre dichiarazioni rese dall’incolpata nel corso della conversazione, nonché l’omessa valutazione della rilevanza o meno della dichiarazione in merito alla copertura assicurativa.

Il quinto motivo censura l’omesso esame delle circostanze poste a sostegno dell’illegittimità della scelta della sanzione comminata, sostenendo che la sentenza non avrebbe tenuto conto dell’incensuratezza dell’incolpata, della sufficienza della sanzione formale e del fatto che le sanzioni interdittive sono riservate agli avvocati che commettono illeciti penalmente rilevanti.

Il sesto motivo censura la sentenza per non aver motivato in ordine all’equità della sanzione applicata.
Con la memoria depositata ex art. 378 c.p.c. la ricorrente sostiene poi che, in virtù del terzo comma dell’art. 56 della legge n. 247 del 2012 (Nuova disciplina dell’Ordinamento della Professione Forense) l’azione disciplinare in questione sarebbe prescritta, essendo trascorsi sette anni e mezzo dalla commissione del fatto.

La professionista ritiene che la nuova disciplina, in quanto più favorevole all’incolpato, sia applicabile anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della suddetta nuova disciplina e pone la questione di legittimità costituzionale dell’art. 65, comma 5 della legge n. 247 del 2012 nella parte in cui non prevede l’applicabilità di tutte le norme deontologiche (e non solo quelle contenute nel codice deontologico) ai procedimenti in corso.

La tesi è infondata.

Basti citare in proposito Corte cost. n. 236 del 2011, la quale afferma che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità; sicché, il principio di retroattività in mitius, non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato.

Passando all’esame dei motivi di ricorso, occorre rilevare che essi, congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati. Sono inammissibili laddove, esulando del tutto dai limiti per il quale è previsto il controllo di legittimità, chiedono di fatto alla Corte di cassazione il riesame degli elementi probatori emersi agli atti ed un nuovo e favorevole giudizio sul merito della controversia; senza, peraltro, soddisfare gli oneri di specificità e di autosufficienza (in particolare, è fatto riferimento all’integrale testo della conversazione registrata tra cliente e professionista, senza neppure specificamente indicarne i brani il cui esame sarebbe stato decisivo ai fini della diversa soluzione della controversia) che rendono, appunto ammissibili i rilievi critici alla sentenza impugnata.

La stessa intitolazione dei motivi, peraltro, dimostra l’estraneità delle critiche rispetto al modulo d’impugnazione in concreto sperimentato.

Per il resto, i motivi sono infondati laddove lamentano vizi della motivazione, siccome il giudice, attraverso una motivazione congrua e logica (che qui non è neppure necessario ripetere) rende conto delle ragioni in base alle quali è pervenuto a rendere il giudizio di responsabilità dell’incolpata ed a determinare la sanzione inflitta.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto, senza alcun provvedimento sulle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte di cassazione a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.