L’equa riparazione applicabile al procedimento esecutivo (Corte di Cassazione Civile, sez. VI-2, sentenza 27.04.2015 n. 8540).

I procedimenti giudiziari sono sottoposti al principio della ragionevole durata del procedimento, ma sono addebitabili allo stato unicamente i ritardi addebitabili al Giudice o ad altri soggetti della procedura, non alle variabili indipendenti.

In particolare I terzi che vengono in contatto con la controversia possono determinare un ritardo valutabile ai fini dell’equo indennizzo, se soggetti del procedimento, tuttavia tali non sono gli offerenti all’acquisto nell’esecuzione, che non hanno alcun ruolo pubblico, ma solo interesse personale.

Nel procedimento esecutivo è ancora contestato il diritto ad un indennizzo per il debitore (in effetti riconosciuto nel caso concreto, anche se in misura inferiore alle aspettative con un capo della sentenza passato in giudicato, dunque questa sentenza non si è occupata della questione), con sentenze in entrambe le direzioni (per la positiva Cass. n. 6459/12; per la negativa, Cass. nn. 26267/13 e 17153/13), in quanto viene escluso un diritto automatico all’indennizzo ed è stato ritenuto che  il debitore nel possesso dei beni si avvantaggia della procedura e non può quindi vantare il diritto ad alcun risarcimento.

Certamente è applicabile il diritto all’equa riparazione per I creditori e per il debitore spossessato del bene, ma anche nel possesso, secondo la giurisprudenza più larga, che afferma indi sussistente il patema d’animo e la sofferenza anche per tale parte processuale.

In merito al conteggio della durata del processo e più precisamente sulla computabilità nella durata irragionevole del tempo necessario per le aste, anche numerose, andate deserte, è stato escluso il diritto all’indennizzo, in quanto tale ritardo non è imputabile al giudice o suoi ausiliari, ma ad eventi indipendenti alla potestà statuale.

Viene anzitutto stabilita una differenza epistemica tra procedimento giudiziale ordinario ed esecutivo, in quest’ultimo la parte liquidativa è sottratta alla volontà del giudice e dei suoi ausiliari e la relative durata non può essere ad essi imputata e dunque considerate ai fini dell’equo indennizzo. Tale fase del processo è infatti sostitutiva della volontà della parte, ma sottoposta all’intervento di terzi (veramente tali ed estranei al processo) che rendono possibile la realizzazione del procedimento secondo l’interesse personale, se ed in quanto sussistente, che viene a realizzare, senza esserne vincolati, l’interesse pubblico del procedimento alla liquidazione del bene.

Il tempo necessario ai vari esperimenti di vendita non va quindi computato ai fini della ragionevole durata del procedimento, se vengono seguite le procedure di legge, nè vi è alcun obbligo del giudice di operare diversamente ai fini di una maggiore celerità, del tutto opinabile (nel caso concreto la parte ricorrente riteneva necessaria una nuova perizia, che invece avrebbe fatto regredire il procedimento alla fase precedente).

La Corte ribadisce come non vi sia dunque alcun automatismo tra durata del procedimento ed indennizzo, che pur non essendo un risarcimento e non essendo soggetto al più rigido concetto della colpa, deve pur sempre essere imputabile allo Stato.

Deve dunque essere sussistente un nesso di causalità, sull’’irragionevole durata del procedimento, non presente per le fasi indipendenti dall’autorità del giudice o suoi ausiliari, laddove riferibili a terzi estranei, così come quelle addebitabili alle parti.

Sul quantum, infine, nel vigore della legge ante 2012, il Tribunale ha liquidato somme inferiori a quelle ritenute eque dalla giurisprudenza CEDU, ossia del minimo di € 750,00 (pur restando entro gli attuali limiti di € 500), e la Suprema Corte ha ritenuto la legittimità della quantificazione, stante il diritto dovere del giudice di adattare l’indennizzo al caso concreto, peraltro ammesso anche dalla Corte sovranazionale, che lo ha applicato in casi specifici.

sentenza

sul ricorso 26796/2013 proposto da:

R.R., R.G.S., R.M.R. in proprio e nelle rispettive qualità di eredi di M.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GREGORIO VII n. 466, presso lo studio dell’avvocato MARINA FLOCCO, che li rappresenta e difende, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA (OMISSIS) in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

e contro

PROCURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 1334/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO del 24.4.2013, depositato il 14/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/01/2015 dal Consigliere Relatore Dott. FEUCE MANNA;

udito per i ricorrenti l’Avvocato Paolo Buscemi (per delega avv. Marina Flocco) che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con decreto del 14.5.2013 la Corte d’appello di Catanzaro, in parziale accoglimento della domanda, condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di R.R., G. S. e M.R., in proprio e quali eredi di M. E., un equo indennizzo ex lege n. 89 del 2001. Presupposto, un processo esecutivo di durata irragionevole, risultante da più pignoramenti immobiliari riuniti, instaurato a carico dei ricorrenti e della predetta de cuius nell’agosto del 1990 e ancora in corso alla data (8.8.2012) di proposizione del ricorso. In particolare, la Corte calabrese liquidava complessivamente per R.R. e G. S. Euro 8.700,00, e per R.M.R. Euro 6.000,00.

La Corte territoriale, valutava in quattro anni la durata ragionevole della procedura, fino alla data dell’ordinanza di vendita, non essendo il lasso temporale successivo ascrivibile all’amministrazione della giustizia, ma alle condizioni del mercato immobiliare. Quindi, quantificava la durate eccedente in 9 anni e 8 mesi quanto alla posizione di R.R. e G.S., e in 7 anni e 6 mesi quanto a R.M.R. e a M.E.. Riteneva, al riguardo, che l’atteggiamento non pienamente collaborativo degli esecutati nel corso della procedura (essi non avevano depositato alcun rendiconto periodico della gestione degli immobili pignorati, di cui erano custodi, ed avevano richiesto la sospensione del processo ai sensi della L. n. 44 del 1999, art. 20), mostrava il loro scarso interesse ad una pronta definizione della procedura, e con ciò l’esiguità del patema per la dilatazione dei tempi processuali.

Pertanto, stimava congruo l’importo di Euro 600,00 per ogni anno di ritardo.

Per la cassazione di tale decreto R.R., G. S. e M.R. propongono ricorso, affidato a due motivi, cui ha fatto seguito il deposito di memoria in prossimità dell’udienza.

Resiste con controricorso il Ministero.

Motivi della decisione

1. – Il primo motivo prospetta la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e ss. e artt. 6 e 13 CEDU, in connessione con il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul fatto decisivo e controverso della durata del processo addebitabile all’organizzazione giudiziaria; il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Sostiene parte ricorrente che la ricostruzione operata dalla Corte territoriale viola l’art. 2, comma 2, legge Pinto perchè tende ad escludere o ad omettere l’analisi della sola responsabilità dell’amministrazione pubblica successiva al periodo di pendenza della procedura esecutiva dal 2004 al 2012 (epoca, quest’ultima, di presentazione del ricorso per equa riparazione), “sull’assurda prospettazione che successivamente al 2004 siano state regolarmente tenute le vendite forzose con assiduità e continuità”. Tale accertamento, prosegue parte ricorrente, non può ritenersi conforme al dettato normativo, essendo stati omessi i necessari approfondimenti peritali diretti a verificare concretamente il mercato immobiliare locale in cui si sono svolti gli esperimenti d’asta, utilizzando gli strumenti anche pubblicitari più opportuni alla realizzazione della vendita. Infatti, il giudice dell’esecuzione è arbitro della procedura, che deve gestire in maniera dinamica se del caso adeguando l’ordinanza di vendita volta per volta alle mutate condizioni dei beni immobili e del relativo mercato. Nella specie, la Corte territoriale non ha considerato che dalla lettura degli atti del processo esecutivo emerge che a partire dal 2004 il giudice dell’esecuzione non solo ha disposto rinvii per la vendita superiori a quanto previsto dagli artt. 569 e ss. c.p.c., ma altresì ha rinviato la procedura nel 2005 per conseguire l’integrazione della consulenza estimativa dei beni pignorati, ed ancora nel 2007 per accertare il diritto dei creditori intervenuti di procedere sulla base delle vendite già occorse per dieci su ventisette unità immobiliari pignorate. Sostiene, quindi, parte ricorrente che il giudice dell’esecuzione debba rispondere dell’irragionevole durata del processo determinata dall’infruttuosa ripetizione degli esperimenti di vendita, in quanto effettuati sotto il governo delle regole che egli stesso ha posto e che non ha provveduto a modificare.

1.1. – Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

1.1.1. – Inammissibile lì dove, trascurando la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile, in base al 3 comma della medesima norma, ai provvedimenti pubblicati dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, e dunque dall’11.9.2012), pretende ancora sindacabile col ricorso per cassazione il vizio d’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

Nè la doglianza può essere convertita nel diverso vizio contemplato dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 che rende censurabile per cassazione il solo omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia: cfr. Cass. S.U. n. 8053/14). Il fatto storico, essendo allegato e dunque tematizzato (id est, incluso nel thema decidendum o nel thema probandum), non va confuso con i singoli aspetti della complessiva ricostruzione fattuale, idonei a inclinare in un senso piuttosto che in un altro la valutazione del medesimo fatto controverso, ma ritenuti dal giudice recessivi rispetto ad altre emergenze. In tal caso non si configura un omesso esame del tema storico, ma solo un apprezzamento di merito non conforme alle aspettative della parte ricorrente, apprezzamento che, del resto, era insindacabile anche a tenore del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

E’ questo il caso di specie, ove si consideri che il fatto controverso è costituito dalla quantificazione del ritardo nel definire il processo esecutivo, e che esso ha indiscutibilmente formato oggetto d’esame da parte della Corte distrettuale.

Quest’ultima ha osservato, per la parte di durata processuale che ancora rimane oggetto di controversia, che “successivamente all’emissione dell’ordinanza di vendita in data 20.4.2004 non risultano ritardi imputabili alla gestione della procedura, in quanto i bandi di vendita sono stati emessi con regolarità e senza intervalli ingiustificati, tant’è che ben 10 lotti sono stati alienati. Che poi i residui immobili non siano stati ancora aggiudicati e trasferiti è vicenda riferibile alle condizioni di mercato e come tale non imputabile all’organizzazione giudiziaria”.

1.1.2. – Fermo e non scalfito, per le ragioni appena esposte, l’accertamento di fatto contenuto nel decreto impugnato, va osservato che la censura è, poi, infondata quanto alla denunciata violazione di legge.

Applicata al processo esecutivo di espropriazione forzata, la garanzia di durata ragionevole ex art. 6, par. 1 CEDU e art. 111 Cost., comma 2 è stata esaminata da questa Corte essenzialmente sotto i due profili dell’autoresponsabilità del creditore procedente (v. Cass. nn. 26376/11, 18249/04 e 15611/02, in tema di mancato deposito della documentazione ipocatastale per il periodo di tempo anteriore alla L. n. 302 del 1998), e della posizione del debitore esecutato, che sebbene parte (non già nel senso del diritto processuale interno, ma ai soli fini in questione) non è necessariamente percosso dagli effetti negativi di un’esecuzione forzata, di durata irragionevole, atteso che dall’esito finale di tale processo egli ritrae essenzialmente un (giusto) danno.

Nel caso in esame non occorre stabilire se ciò nonostante il debitore esecutato abbia diritto o non, in linea di principio, all’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001 (sul punto la giurisprudenza di questa Corte non è ancora univoca: per l’affermazione del diritto, v. Cass. n. 6459/12; per la negativa, v.

Cass. nn. 26267/13 e 17153/13; per una soluzione intermedia, cfr.

Cass. n. 23630/13, la quale valorizza l’atteggiamento tenuto in concreto dal debitore per favorire o meno l’esito della procedura, ma tuttavia appare riferita ad un’ipotesi affatto peculiare). Infatti, per il giudicato interno formatosi sul diritto degli odierni ricorrenti all’equa riparazione per la durata stimata irragionevole dalla Corte territoriale, la questione non può più essere oggetto di dibattito.

Ciò che è necessario stabilire, invece, è se ai fini dell’equa riparazione l’organizzazione giudiziaria debba rispondere dei tempi dell’espropriazione immobiliare (ma cambiando ciò che v’è da cambiare il discorso vale anche per quella mobiliare), che si siano protratti oltre il ragionevole a causa del susseguirsi di esperimenti di vendita infruttuosi non per fatto del giudice o di un suo ausiliario, ma per mancanza di offerenti.

1.1.2.1. – Tale problematica si articola in due questioni.

La prima è se sia enucleabile ex ante e in termini generali, a somiglianza di quanto avviene per il processo dichiarativo, una durata standard dell’espropriazione immobiliare che includa (oltre a ogni altra attività) anche gli eventuali molteplici tentativi di vendita (siano essi effettuati senza o con incanto), necessitati dalla natura dei beni (espropriagli in uno o più lotti) o dalle contingenti condizioni del mercato. La seconda, che ne consegue solo in caso affermativo, è se una tale durata possa essere variamente aumentata, secondo le difficoltà concrete incontrate dalla procedura e non ascrivibili al giudice dell’esecuzione o a un suo ausiliario.

Per la comprensione del problema occorre considerare innanzi tutto che processo dichiarativo e processo esecutivo scontano differenze intuitive a livello sia effettuale che epistemico. Il giudizio di cui consta l’uno e che è assente nell’altro predica un potere di controllo qualitativamente diverso da parte del giudice. Il giudizio è dialogico, nasce dalla precomprensione dei possibili livelli di giuridicità della domanda e, pertanto, prima ancora di formularlo il giudice è in grado di prevedere e di selezionare autonomamente quanto gli occorre conoscere. L’espropriazione è essenzialmente sostituzione coattiva della volontà del debitore, tant’è che anche dopo l’alienazione del bene pignorato il giudice dell’esecuzione compie in luogo di lui tutti gli atti necessari al trasferimento del bene all’acquirente (art. 164 disp. att. c.p.c.).

Ma proprio per questo il giudice dell’esecuzione non può conseguire, in termini di tempo e di ricavo, più di quanto il debitore stesso non riuscirebbe a realizzare, l’uno come l’altro non potendo dominare la disponibilità di terzi a rendersi acquirenti. Con la fondamentale differenza, però, che il giudice dell’esecuzione, per il munus publicum che esercita, non ha facoltà di vendere i beni pignorati con modalità libere nè a prezzo vile.

1.1.2.2. – Il tema di una durata media del processo esecutivo – che è comune alle non meno complesse procedure esecutive concorsuali, in relazione alle quali è stata elaborata una durata massima di sette anni (v. per tutte e da ultimo Cass. n. 9254/12) – è stato appena lambito dalla giurisprudenza di questa Corte per le procedure individuali immobiliari (cfr. Cass. n. 13739/11, la quale sostiene che la durata standard triennale è applicabile al processo dichiarativo, ma non anche a quello di espropriazione forzata immobiliare, avuto riguardo in quel caso alle diverse e confliggenti posizioni del creditore istante, di quelli intervenuti e del debitore).

Non risulta, invece, direttamente affrontata e risolta la questione della dilazione dei tempi di liquidazione dei beni pignorati dovuta alle variabili indipendenti del mercato immobiliare, sicchè non è mai stato enunciato espressamente il principio che l’organizzazione giudiziaria se ne debba fare carico. Problema, questo, inalterato, che si siano verificati o meno per la frazione processuale precedente ritardi addebitabili alla gestione della procedura. La mancanza di offerenti per le dinamiche del mercato immobiliare non è etiologicamente collegabile (secondo le consuete regole dell’equivalenza causale adeguata) agli eventuali ritardi accumulati dalla procedura esecutiva prima della fase di liquidazione, di talchè l’indennizzabilità del ritardo pregresso non è ragione per ammettere l’indennizzo di quello successivo a prescindere dalle relative cause.

1.1.2.3. – La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. a) convertito in L. n. 134 del 2012 (applicabile ratione temporis alla fattispecie, in quanto il ricorso per equa riparazione è stato proposto l’8.8.2012, e dunque prima del termine iniziale di efficacia della modifica legislativa, decorrente dal trentesimo giorno successivo a quello d’entrata in vigore della legge di conversione), stabilisce che nell’accertare la violazione il giudice valuta la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione.

Il tenore della disposizione non lascia adito a dubbi di sorta sul fatto che anche la condotta di terzi, siano essi “autorità” (come recita il testo originario) o “soggetti” (come dispone il testo attuale, che appare frutto non di una diversa volontà precettiva, ma solo di una formulazione normativamente più corretta), può incidere sulla durata ragionevole del processo e sul relativo giudizio che il giudice dell’equa riparazione è chiamato ad operare. Ma si deve trattare, appunto, di terzi “chiamati” a concorrere o a contribuire alla definizione del processo, cioè di persone fisiche, enti o organismi che assumano in esso una determinata veste. E che proprio per questo possono essere soggetti al potere sollecitatorio, comminatorio e sanzionatorio del giudice.

In tale novero non rientrano tutti coloro i quali potrebbero presentare offerte d’acquisto nel subprocedimento di vendita, poichè solo l’offerta di partecipazione, avendo natura giuridica di domanda giudiziale, costituisce l’offerente come soggetto partecipe al processo.

Se ne deve trarre la logica conseguenza che le frazioni processuali non dipendenti nè dal giudice, nè dalle parti, nè da terzi nell’accezione presupposta dall’art. 2, comma 2 cit., ma dal difetto di interesse di quanti potrebbero inserirsi nel processo esecutivo concorrendo a realizzarne lo scopo, fuoriescono dalla sfera di controllo dell’autorità giudiziaria e, pertanto, non sono computabili ai fini della durata irragionevole. E dunque non sono nemmeno oggetto di valutazione nel più ampio e complessivo contesto della durata totale.

Pertanto, la durata standard dell’espropriazione immobiliare non può includere i tempi tecnici imposti dall’iterazione dei tentativi di vendita andata deserta per mancanza di offerenti, sicchè detti esperimenti, se correttamente e tempestivamente effettuati, devono essere sottratti dal tempo complessivo della procedura su cui operare il giudizio di durata ragionevole (per cui resta assorbito l’interrogativo ulteriore posto supra nel par. 1.1.2.1.).

1.1.2.4. – La giurisprudenza di questa Corte sulla generale finalità della L. n. 89 del 2001 e sulla natura della responsabilità dello Stato in materia, escludendo che l’equa riparazione sia la conseguenza ineluttabile dell’oggettivo superamento di un lasso temporale predefinito come ragionevole per lo svolgimento dell’attività giurisdizionale, conferma la conclusione appena raggiunta.

Sebbene formatosi con riferimento al diverso problema del diritto dell’erede al conseguimento dell’equa riparazione iure proprio e iure successionis, l’orientamento di questa Corte è fermo nell’affermare che il sistema sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali (cfr. ex pluribus, Cass. nn. 13803/11, 23416/09 e 2983/08).

Del pari costante l’affermazione per cui il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, avendo carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., nè presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione configurandosi, non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico (Cass. n. 8712/06; conformi nn. 18150/11,18455/05,14885/02,11987/02 e 11046/02).

Il diritto all’indennizzo, dunque, consegue necessariamente ad una lesione, che sebbene non debba essere provocata dalla condotta di un agente che versi in uno stato soggettivo di colpa, deve esprimere l’inosservanza di norme d’azione imposte all’apparato giudiziario statuale dall’art. 6, par. 1 CEDU e dall’art. 111 Cost., comma 2. La Convenzione e la Costituzione impongono in tempi ragionevoli l’effettività e non il risultato ultimo della tutela, il quale può dipendere da fattori terzi non dominabili dallo Stato.

1.1.2.5. – Ed infatti anche la Corte di Strasburgo rifugge da ogni cieco automatismo tra ritardo nel soddisfacimento di un diritto e responsabilità dello Stato. Nel rilevare, in materia di ritardo nel pagamento di una somma spettante a un creditore insinuatosi in una procedura di liquidazione coatta amministrativa (caso F.L. c/ Italia, sentenza 20.12.2001, ric. n. 25639/94), che la causa principale del ritardo non era la lunghezza o la natura della procedura di liquidazione, ma piuttosto la mancanza di risorse finanziarie del debitore e la difficoltà di recuperare i suoi crediti, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha concluso che ciò non era addebitarle allo Stato. Quest’ultimo, pertanto, non aveva infranto l’equilibrio che deve esistere in materia tra la protezione del diritto dei singoli al rispetto dei beni e le esigenze dell’interesse generale, per cui doveva escludersi la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione (a identiche conclusioni la Corte EDU è pervenuta nel caso Saggio c/ Italia, sentenza 25.10.2001, rie.

n. 41879/98, del tutto analogo e riguardante una procedura di amministrazione straordinaria).

1.1.2.6. – La tesi di parte ricorrente, che fa leva sul potere di governo che il giudice dell’esecuzione esercita sulla procedura, e sul conseguente preteso suo obbligo di approfondire gli accertamenti peritali e di adeguare l’ordinanza di vendita volta per volta alle mutate condizioni dei beni immobili e del relativo mercato, non ha miglior sorte sotto il profilo dell’esercizio esigibile del ministero esecutivo.

E’ lo stesso processo d’esecuzione a prevedere, quali rimedi nel caso manchino domande di assegnazione e l’incanto sia andato deserto, l’amministrazione giudiziaria o l’emissione di una nuova ordinanza di vendita a prezzo base inferiore di un quarto a quello precedente (art. 591 c.p.c.). Il giudice che si avvalga dell’una o dell’altra alternativa opera (come avvenuto nel caso di specie) nel rispetto delle cadenze processuali; mentre, semmai, far regredire il processo alla fase precedente l’ordinanza di vendita rinnovando la nomina dell’esperto stimatore, sarebbe operazione di oltremodo dubbia correttezza tecnico-giuridica (oltre che. probabilmente foriera di ben più gravi ritardi).

2. – Col secondo motivo è allegata la violazione o falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2, artt. 6 e 13 CEDU e art. 2056 c.c., in connessione col vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul fatto decisivo e controverso della misura dell’indennità liquidata. Sostiene parte ricorrente che non v’è prova del fatto che gli odierni ricorrenti abbiano omesso, in sede esecutiva, di rendicontare l’uso dei beni pignorati, e che la procedura è rimasta sospesa solo per sei mesi.

In ogni caso, conclude parte ricorrente, attenendosi ai criteri fissati dalla Corte EDU i giudici d’appello avrebbero dovuto liquidare l’importo di Euro 1.000,00 per ogni anno di ritardo.

2.1.- Anche tale motivo non ha pregio.

Richiamato quanto considerato supra al par. 1.1.1. in ordine all’inammissibilità della censura di vizio motivazionale, deve rilevarsi per il resto che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. nn. 18617/10 e 17922/10).

Nel caso di specie, la Corte d’appello nell’applicare l’importo di Euro 600,00 per ogni anno di ritardo, si è attenuta ai criteri elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (v. decisioni Volta, et autres c. Italia, del 16 marzo 2010 e Falco et autres c. Italia, del 6 aprile 2010) e recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. nn. 14753/10, 3271/11 e 5914/12), che consentono, semmai, di liquidare importi anche di soli Euro 500,00 annui.

Ne deriva che la somma riconosciuta in favore degli odierni ricorrenti non lede minimamente il principio di adeguatezza del ristoro stabilito dalla Corte di Strasburgo.

3. – In conclusione il ricorso va respinto.

4. – La sia pur parziale novità della questione affrontata nell’esaminare il primo motivo d’impugnazione, legittima l’integrale compensazione delle spese.

5. – Rilevato che dagli atti il processo risulta esente, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese.