Licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 1 giugno 2018, n. 14088)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

…, omissis …

Fatti di causa

1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 24 ottobre 2013, in parziale riforma della decisione di primo grado, respinse le domande proposte da A.P. nei confronti della A.F.I. Srl volte a far riconoscere l’illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo in data 12 febbraio 2010, con le conseguenti pronunce reintegratone e risarcitorie; la Corte milanese per il resto confermò la sentenza di primo grado, che aveva già respinto le ulteriori domande proposte dal P., condannando quest’ultimo alle spese del doppio grado.

Con sentenza n. 6254 del 31 marzo 2016 questa Corte ha rigettato il ricorso per cassazione proposto in via principale dal P. ed ha dichiarato estinto il giudizio relativamente al ricorso incidentale perché rinunciato dalla società.

2. Per la revocazione di tale sentenza avanza ricorso A.P. “ex art. 391 bis e 395 c.p.c.” con quattro motivi. Ha resistito la società con controricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c..

Ragioni della decisione

1. Opportuno premettere i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’ipotesi di revocazione di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c..

Invero tale ipotesi sussiste se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.

Pacificamente per questa Corte tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997; v. poi Cass. SS.UU. n. 561 del 2000; Cass. SS.UU. n. 15979 del 2001; Cass. SS.UU. n. 23856 del 2008; Cass. SS.UU. n. 4413 del 2016).

Pertanto in generale l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa (tra le ultime v. Cass. n. 14656 del 2017).

In particolare, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 22569 del 2013; n. 4605 del 2013, n. 16003 del 2011) fuoriesce dal travisamento rilevante ogni errore che attinga la interpretazione del quadro processuale che esso denunziava, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità.

Inoltre non è idoneo ad integrare errore revocatorio l’ipotizzato travisamento, da parte della Corte di cassazione, di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione (Cass. n. 14108 del 2016; Cass. n. 13181 del 2013).

Tali principi costantemente ribaditi dalla giurisprudenza di legittimità vengono del tutto trascurati o male intesi dalla parte ricorrente che con essi non si confronta adeguatamente, per cui l’invocata revocazione non merita accoglimento.

2.1. Il primo motivo di ricorso si articola in quattro censure, tutte relative al quinto motivo dell’originario ricorso per cassazione del P. con cui questi lamentava il rigetto da parte dei giudici di merito delle domande relative alla richiesta di risarcimento del danno per asserite condotte vessatorie che sarebbero state poste in essere dalla datrice di lavoro, motivo giudicato in parte inammissibile ed in parte infondato dalla sentenza di questa Corte n. 6254 del 2016.

Con la prima censura si eccepisce che la Cassazione sarebbe incorsa nel “gravissimo errore” di ritenere non prodotta una precedente sentenza del Tribunale di Livorno nonostante vi fossero plurimi elementi dai quali “arguire” che invece detta sentenza era stata prodotta nel corso del giudizio ed era stata comunque necessariamente letta dai giudici del Tribunale di Milano.

La censura è priva di pregio per un duplice ordine di ragioni, ciascuna di esse sufficiente a respingerla.

Come di recente ribadito dalla pronuncia delle SS.UU. n. 23306 del 2016 ricordata dalla stessa parte ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., “l’errore di percezione deve … riguardare un fatto, vale a dire un evento esterno al processo e che deve essere rappresentato e ricostruito all’interno di questo come elemento di una fattispecie da sussumere nel successivo giudizio di diritto; sicché l’errore che cade sugli atti e i documenti della causa non è rilevante in se stesso, ma solo nella misura in cui si risolve in un errore di percezione di un fatto”.

Nella specie si lamenta invece la mancata considerazione di un atto – una sentenza appunto – che inevitabilmente racchiude in sé una molteplicità di elementi, senza individuare quale tra i fatti in essa riportati assumerebbe, di per sé solo, essenziale valenza ai fini dell’errore revocatorio.

La censura non è poi dotata della necessaria decisività, in quanto la sentenza che dovrebbe essere revocata riconosce altra ed autonoma ragione di inammissibilità del quinto motivo nella mancata contestazione della “decisiva ed ulteriore ratio decidendi contenuta nella sentenza impugnata in ordine alla mancanza di prova dei danni conseguenti al dedotto mobbing”. In altre parole questa Corte non ha fondato la statuizione di inammissibilità sulla sola mancata produzione della sentenza di Livorno, ma anche su di una ulteriore ragione.

Orbene è principio pacifico che “in tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione per errore di fatto, nel caso in cui la declaratoria di inammissibilità, contenuta nella sentenza revocanda, si regga su due autonome rationes decidendi, una sola delle quali revocabile perché viziata da errore percettivo, la permanenza della seconda comporta il venir meno del requisito indispensabile della decisività dell’errore revocatorio, ossia dell’idoneità a travolgere la ragione giuridica sulla quale si regge la sentenza impugnata, che, ex art. 395 n. 4 c.p.c., è richiamato dall’art. 391-bis c.p.c. per la revocazione delle sentenze della Cassazione” (da ultimo v. Cass. n. 25871 del 2017; in precedenza: Cass. n. 7413 del 2013).

Analoghe ragioni di inammissibilità colpiscono la seconda doglianza del primo motivo, con la quale si lamenta che questa Corte avrebbe erroneamente affermato che non era stata dimostrata “la richiesta di prova” perché “gli atti difensivi del P. in appello non erano stati prodotti”, mentre si deduce che “l’atto di appello del dott. P. doveva necessariamente fare parte del fascicolo di ufficio, del quale era stata puntualmente richiesta la trasmissione”.

Ancora una volta ci si duole di pretesi errori su atti, per di più processuali, e non su fatti, e cioè – per dirla con le SS.UU. n. 23306 del 2016 richiamate dallo stesso ricorrente – su “verità o non verità di specifici dati empirici, idonei a dar conto di un accadimento esterno al processo”.

Inoltre il denunciato errore non avrebbe in ogni caso carattere decisivo perché la sentenza revocanda ha ritenuto comunque infondato il motivo, argomentando che “la Corte milanese ha esaminato la questione della sussistenza del mobbing, motivatamente escludendolo sulla scorta di ampia e logica motivazione” e tale giudizio non è certo suscettibile di revocazione.

Nella terza censura si eccepisce che l’impugnata sentenza di questa Corte non avrebbe tenuto conto che vi erano state istanze istruttorie “ritualmente rinvenibili nel giudizio” disattese sia in primo grado che in appello “atte a dimostrare i pregiudizi subiti a causa della condotta tenuta da AA.”.

Con la quarta censura del primo motivo di revocazione ci si duole che per le istanze istruttorie concernenti l’aspetto del risarcimento dei danni “non vi era stata alcuna decadenza, proprio perché le stesse non erano state ammesse dal Tribunale”.

Tali generiche doglianze, congiuntamente scrutinagli, sono radicalmente inidonee a configurare un decisivo errore revocatorio, per il noto principio espresso da questa Corte secondo cui il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; conformi: Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011), mentre nella specie alcuno dei capitoli di prova testimoniale non ammessi dai giudici di merito si riferisce a fatti dotati di tale carattere di decisività.

In punto di decisività infatti, ai fini dell’errore revocatorio, occorre ancora una volta ribadire (in termini da ultimo Cass. n. 24283 del 2016 in motivazione) che “tale requisito ricorre allorché vi sia un necessario nesso di causalità tra l’erronea supposizione e la decisione resa; nesso che deve risultare sulla base della sola sentenza nel senso che in essa sussista una rappresentazione della realtà in contrasto con gli atti e i documenti processuali regolarmente depositati (cfr. Cass. n. 11657 del 2006; Cass. n. 75 del 1999).

Tale causalità va intesa in senso non già storico, ma logico-giuridico, nel senso che non si tratta di stabilire se il giudice che ha emesso il provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di stabilire se la decisione della causa avrebbe dovuto essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità, appunto, logico-giuridica (Cass. n. 6881 del 2014; Cass., n. 3935 del 2009; Cass. n. 6367 del 1996)”.

2.2. Con il secondo mezzo di gravame si fa “richiesta di revocazione della sentenza in relazione a quanto statuito in relazione al primo ed al secondo motivo di ricorso”.

Si afferma essere “oggettivamente incontestabile che la S.C. non ha esaminato alcuni atti processuali” per cui “la Cassazione non poteva giudicare la fondatezza delle censure”; in particolare ancora ci si duole che non sia stata esaminata la sentenza del Tribunale di Livorno.

Quanto a quest’ultima si rinvia all’inammissibilità evidenziata nel punto che precede; in ogni caso il motivo non è accoglibile perché non enuclea quale sia il fatto storico la cui verità sia incontrastabilmente esclusa e non rientra nell’area dei vizi revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (da ultimo: Cass. n. 20635 del 2017) né tanto meno l’omesso esame di atti difensivi (da ultimo: Cass. n. 791 del 2017).

2.3. Parimenti non può trovare accoglimento il terzo motivo di revocazione perché non specifica adeguatamente il fatto sicuramente non veritiero affermato da questa Corte tale da imporre la revocazione della sentenza, sostenendosi piuttosto che “la S.C. abbia compiuto un errore di fatto laddove non ha fornito una diretta risposta al quesito che era stato proposto dal Dott. P.”.

Si duole che la Cassazione non abbia “considerato, a causa della mancata disamina dell’atto di appello, che comunque vi erano indirizzi di posta elettronica comunicati dai difensori ai rispettivi ordini, che a loro volta erano disponibili da parte degli uffici Giudiziari”.

Questa Corte non risponde a “quesiti”, essendo stato da tempo abrogato l’art. 366 bis c.p.c., né costituisce certo errore revocatorio il mancato esame di argomentazioni difensive e la circostanza di cui viene evidenziata la mancata disamina appare del tutto trascurabile, priva dell’essenzialità necessaria affinché tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa esista quel nesso causale tale che, senza l’errore, la pronuncia sarebbe stata diversa.

2.4. Conclama la noncuranza dei principi espressi da questa Corte in materia di errore revocatorio l’ultimo mezzo di impugnazione, articolato in relazione a quanto statuito con la sentenza n. 6254 del 2016 con la declaratoria di inammissibilità del quarto motivo dell’originario ricorso per cassazione.

Si deduce che “la Suprema Corte si è limitata ad affermare che il motivo sarebbe in contrasto con il novellato art. 360, n. 5, c.p.c., ma non viene in alcun modo – neppure con una parola – motivata la decisione di tale statuizione”.

Ancora una volta non si enuclea il fatto su cui sarebbe fondata la decisione della revocanda sentenza la cui verità è incontrastabilmente esclusa, né tantomeno il fatto inesistente la cui verità sarebbe invece positivamente stabilita.

Piuttosto ci si limita a proporre l’insoddisfazione per la risposta adottata dalla S.C., che non ha nulla a che vedere con l’errore revocatorio ex art. 391 bis e 395 c.p.c., non potendo costituire il ricorso per revocazione in cassazione un ulteriore grado di giudizio, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo – come più sopra ricordato – il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità.

Peraltro la risposta data dalla sentenza non condivisa è del tutto adeguata rispetto ad un motivo di ricorso originario che inammissibilmente censurava in sede di legittimità la valutazione di attendibilità di testimonianze, apprezzamento che appartiene al dominio esclusivo del giudice del merito.

Pertanto era più che sufficiente richiamare la formulazione novellata dell’art. 360, co. 1, n.5, c.p.c., che tale sindacato preclude innanzi a questa Corte, unitamente all’indicazione di una pronuncia delle Sezioni unite (la n. 19881 del 2014 menzionata al punto n. 2 della sentenza revocanda alla quale il punto n. 4 rinvia), sol che la si legga.

3. Conclusivamente il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza secondo legge liquidate come da dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso per revocazione. Condanna A.P. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.