Lite tra medici per gestire un paziente. La dottoressa gli ha proibito di muoversi, il collega lo ha autorizzato a scendere dal letto. Le contestazioni fatte dalla donna ai parenti dell’uomo ricoverato in reparto suscitano la reazione del medico.

(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 28 giugno 2016, n. 26853)

Fatto e diritto

N.M.M., parte civile costituita nel procedimento a carico di I.M.E., ricorre, a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale Avv. Concetta Petrossi, avverso la sentenza 2.4.15 del Tribunale di Campobasso che ha confermato la pronuncia assolutoria del locale giudice di pace, per il reato di cui all’art. 594 c.p., perché il fatto non costituisce reato.

Lamenta la ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’impugnata sentenza, con il primo motivo violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. per essere stato il ragionamento del giudice di secondo grado incentrato solo sull’esame della frase pronunciata dall’imputato, trascurando gli, senza dare conto della fonoregistrazione effettuata casualmente dalla N. ed acquisita agli atti, da cui era desumibile l’incidenza offensiva dell’espressione, pronunciata dall’imputato intervenuto in un confronto che la d.ssa N. stava avendo con i genitori di un paziente in ragione del comportamento imprudente da quest’ultimo tenuto in quanto incurante della diagnosi di .

Il tono borioso del dr. I., il suo totale disinteresse dell’opinione medica della d.ssa N., l’essere l’imputato intervenuto alla presenza di infermieri e personale medico, erano elementi che aggravavano il senso offensivo della affermazione, ma il giudice di appello – lamenta la ricorrente con il secondo motivo – aveva confermato la sentenza assolutoria riferendosi al solo valore della frase, avulsa dal contesto complessivo della vicenda, senza considerare – ci si duole con il terzo motivo – che tali elementi comportamentali evidenziavano nell’imputato .

Osserva la Corte che il presente ricorso è articolato su censure in fatto – che precludono l’annullamento senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (in seguito all’abrogazione del reato di cui all’art.594 c.p., intervenuta con l’art.7 del d.lgs. n.7/16), con conseguente legittimità ed interesse, da parte della odierna ricorrente, a coltivare il giudizio in sede civile, perché i motivi reo attengono a considerazioni di merito che oltretutto hanno trovato congrua ragione giustificativa nei due precedenti gradi di giudizio, con relativa manifesta infondatezza delle doglianze oggi avanzate, che si atteggiano come reiterative delle censure mosse dalla difesa della parte civile alla sentenza di primo grado.

La sentenza impugnata, infatti, ha ben considerato proprio il contesto in cui i fatti si sono svolti, cioè il reparto di neurochirurgia dell’Ospedale Cardarelli di Campobasso presso cui lo I. e la N. prestavano servizio come medici, riconducendo correttamente l’atteggiamento complessivo di I.M.E. più che a un intento denigratorio nei confronti della collega, piuttosto ad un giudizio inopportuno e negativo, ma in sé non sconveniente né riprovevole.

Il giudice di appello ha sul punto evidenziato come l’intervento dello I. sia dipeso solo dal rimprovero rivolto dalla N. al paziente – per essersi questo alzato dal letto imprudentemente, a giudizio della odierna parte civile, in considerazione della diagnosi che lo riguardava -, il quale ultimo però proprio dallo I. era stato autorizzato a ciò.

Ed allora, lungi dall’essere stato lo I. animato da una volontà discriminatoria nei confronti della N. in quanto donna, come perspicuamente rilevato dal giudice di appello, l’espressione < ma vai … vai a casa >, pronunciata dall’imputato dopo aver chiesto alla collega spiegazioni sul perché aveva mosso rimproveri ai parenti del paziente alzatosi dal letto, correttamente è stata inquadrata – proprio complessivamente considerando il contesto in cui è maturata – come una reazione al ‘rimprovero’ della N., senza che potesse essere caricata di quel valore offensivo della persona e della sua dignità morale o addirittura di quella carica discriminatoria paventata dalla ricorrente.

Alla inammissibilità del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che reputasi equo determinare in € 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.