L’omicidio e lo stalker sono due reati ben diversi ed in sede di condanna il primo non assorbe il secondo (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 14 maggio 2019, n. 20786).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASA Filippo – Presidente –

Dott. BINENTI Roberto – Consigliere –

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI ROMA;

nel procedimento a carico di:

P.V. nato a (OMISSIS);

inoltre:

R.C.;

R.A. IN PROPRIO ED IN QUALITA’ DI ESERC. LA POTESTA’ GENITORIALE SUI MINORI R.L. E R.R.;

R.M.;

T.V.;

T.L.;

D.P.A.;

G.A.;

ASSOCIAZIONE “DIFFERENZA DONNA”;

avverso la sentenza del 10/05/2018 della CORTE ASSISE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE SANTALUCIA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore TOCCI STEFANO;

Il Proc. Gen. conclude per l’annullamento con rinvio per il ricorso del PG limitatamente alla pena e in riferimento al ricorso di P.V. conclude per il rigetto.

Uditi i difensori delle parti civili:

– avv. Stefania Iasonna illustra le argomentazioni a difesa delle parti civili da lei rappresentate come da conclusioni rassegnate unitamente a nota spese da distrarsi, per le p.c. R.C. e T.L., a carico dell’Erario.

– avv. Nicodemo Gentile, a difesa della parte civile D.P.A., rappresenta le conclusioni a cui si riporta che deposita unitamente a nota spese da distrarsi a carico dell’Erario; allega decreto di ammissione al G.P. emesso dal Tribunale di Roma il 20.1.17.

– avv. Maria Teresa Manente, per la parte civile Associazione Differenza Donna ONG, insiste per l’inammissibilità in subordine per il rigetto del ricorso del P. come riportato nelle conclusioni che deposita unitamente a nota spese da distrarsi a carico dell’Erario.

Udito il difensore del ricorrente avv. Giancarlo Tortorici, il quale espone il contenuto dei motivi di ricorso riportandosi agli stessi e alle memorie aggiuntive già depositate.

Svolgimento del processo

1. La Corte di assise di appello di Roma ha rideterminato in anni trenta di reclusione la pena inflitta a P.V. confermandone la responsabilità, già accertata con sentenza del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva irrogato la più grave pena dell’ergastolo, per i seguenti delitti:

– delitto di omicidio di D.P.S., con la quale aveva intrattenuto una relazione affettiva, aggredendola da tergo e strangolandola con inaudita ferocia, con una fortissima pressione dell’avambraccio posizionato a pinza sul collo della vittima, azione protrattasi per circa cinque minuti, fatto commesso in (OMISSIS);

– delitto di atti persecutori, per avere con condotte reiterate minacciato e molestato D.P.S., con numerosi contatti telefonici ed informatici e richieste insistenti di incontri in modo tale da cagionarle un perdurante stato di ansia e paura oltre che il timore per la propria incolumità, fatto commesso in (OMISSIS);

– delitto di distruzione di cadavere, perchè nelle circostanze di tempo e di luogo dell’omicidio, dopo aver cagionato la morte di D.P.S., distruggeva parte del cadavere della ragazza dandogli fuoco dopo averlo cosparso con alcool, contenuto in una tanica custodita all’interno della sua autovettura, fatto commesso in (OMISSIS):

– delitto di danneggiamento seguito da incendio, perchè, dopo essersi procurato una bottiglia molotov costruita artigianalmente, si recava nei pressi dell’abitazione di G.A., nuovo fidanzato di D.P.S., allo scopo di danneggiare l’autovettura in uso a questi, parcheggiata lungo la pubblica via, dandole fuoco, fatto commesso in (OMISSIS).

La Corte di assise di appello ha ridotto la pena nella misura prima indicata avendo dichiarato l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio, a norma dell’art. 84 c.p., comma 1.

In ragione della contestata aggravante del delitto di omicidio, costituita dal fatto che è stato commesso dall’autore degli atti persecutori, ha rilevato che non può applicarsi la disciplina del concorso formale di reati quando la legge considera come elementi costitutivi o circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero di per sè fattispecie autonoma.

Ha quindi confermato la sussistenza, oltre che dell’aggravante appena indicata, anche delle altre, ossia la premeditazione, l’approfittarsi della minorata difesa e la futilità e abiezione del motivo omicida.

2. Nelle prime ore del mattino del (OMISSIS) fu rinvenuto il cadavere parzialmente carbonizzato di D.P.S. lungo (OMISSIS) dopo che la visione di un’autovettura in fiamme, posizionata a circa 300 metri e che si scoprì essere quella della madre della vittima, aveva determinato l’intervento dei vigili del Fuoco.

Il giudizio di primo grado ha accertato la responsabilità di P.V. che, prima dell’omicidio, aveva commesso reiterate condotte di minaccia e molestia nei confronti di D.P.S., con numerosi contatti telefonici ed informatici, con controllo dei suoi contatti attraverso il monitoraggio dei suoi accessi su Whatsapp.

Era pure riuscito, facendo accesso all’account Facebook della vittima a carpire i confatti e le comunicazioni riservate, sì che lei aveva dovuto cambiare password. Tra il (OMISSIS) l’aveva ripetutamente e ossessivamente contattata sul cellulare imponendole di rispondergli immediatamente; alla mancata risposta aveva contattato D.V.M. e G.A. per sapere dove e con chi fosse (OMISSIS).

Durante quella notte si era appostato sotto casa di D.V.M. per sorprendere S. e imporle la sua presenza, quindi, non appena l’aveva vista in compagnia del suo nuovo ragazzo, G.A., l’aveva aggredita e strattonata per un braccio, costringendola a salire sulla sua autovettura, da cui poi scendeva in lacrime e visibilmente scossa.

In quell’occasione le aveva detto che le avrebbe reso la stessa sofferenza che lui stava subendo per causa sua e l’aveva terrorizzata a tal punto che, tornata a casa, non era riuscita a dormire.

3. Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito il proposito omicida sorse proprio quella notte, quando P. scoprì la relazione sentimentale che S. aveva intrapreso con G.A..

Il (OMISSIS) l’autovettura di G.A. fu danneggiata ad opera di ignoti e giorni dopo, il 28 maggio, la stessa autovettura fu oggetto di altro danneggiamento seguito da un incendio posto in essere da P.V. che aveva appiccato il fuoco mediante uno straccio intriso di liquido infiammabile inserito in una bottiglietta collocata sotto la ruota dell’autovettura.

Quel giorno stesso S. inviò un messaggio audio ad G.A. per comunicargli: di aver chiesto a P. se avesse lui danneggiato l’autovettura di G., ricevendo risposta negativa; di avergli detto che non voleva più vederlo a causa del comportamento che aveva tenuto in precedenza; di avergli contestato di essersi accorta che controllava i suoi accessi su Whatsapp attraverso un’altra utenza telefonica, circostanza che P. aveva confermato.

In quella stessa occasione P. le disse che era in cura presso una psicoterapeuta, circostanza che poi risultò falsa, perchè si rendeva conto che aveva dei problemi che non era in grado di gestire.

4. Dalle dichiarazioni testimoniali della madre, delle amiche della vittima e di G.A. è stato accertato che P. aveva insistentemente manifestato un sentimento di possesso nei confronti di S., controllandone la vita e i movimenti.

Fu anche accertato che il (OMISSIS) P. si era recato presso l’Università frequentata da S. e ne aveva seguito i movimenti, spostandosi poi presso le abitazioni di G., della D.V. e della stessa S..

Qualche ora prima dell’omicidio P.V. postò un messaggio su Facebook dal seguente contenuto: “quando il marcio è radicato nel profondo ci vuole una rivoluzione, tabula rasa. Diluvio universale”.

Nei giorni precedenti l’omicidio P. aveva acquistato del liquido infiammabile che aveva poi suddiviso in due bottigliette da mezzo litro, l’una utilizzata contro la vettura di G. e l’altra portata con sè la notte dell’omicidio e utilizzata per incendiare l’autovettura e il cadavere di S..

5. La Corte di assise di appello ha confermato la sussistenza della premeditazione ritenendo che il proposito omicida sorse la notte tra il (OMISSIS) e che la premeditazione si sia sviluppata in modo progressivo secondo un piano cadenzato in varie fasi. P.V. si convinse giorno dopo giorno che l’unica soluzione alla perdita del dominio su S. fosse la sua uccisione e studiò le occasioni e le opportunità dell’attuazione del proposito criminoso, provvedendo ad un’adeguata organizzazione dei mezzi e alla predisposizione delle modalità di esecuzione.

Il fatto che la vittima fu uccisa all’esito di una lite può al più fare ipotizzare l’esistenza della premeditazione condizionata, ossia che P. condizionò l’attuazione del proposito omicida alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, in particolare alla sua mancata volontà di interrompere la relazione con G. e tornare da lui.

5.1. In ordine all’aggravante dei motivi abietti e futili ne ha ritenuto la sussistenza distinguendo la gelosia, che non può essere considerata motivo futile, da quella che si accompagna all’intento punitivo di chi esercita sulla vittima il proprio dominio possessorio.

L’imputato esercitò su S. un vero e proprio dominio possessorio, attuando delle dinamiche punitive ogniqualvolta ne sospettava comportamenti che lo ferivano.

5.2. Circa poi l’aggravante della minorata difesa, la Corte di assise di appello ha osservato che il delitto fu commesso a notte inoltrata, tra le ore 4.20 e le ore 4.34.

Pur a voler ritenere che (OMISSIS) è trafficata anche in quell’orario, come si evince dal fatto che in quello scorcio di tempo transitarono due persone, Pa. e Gi., che videro P. e la vittima discutere animatamente, è da osservarsi che il cadavere fu rinvenuto in un’ansa della strada e segnalato soltanto da un passante, F.L., che aveva notato delle sterpaglie in fiamme.

Peraltro, come si ricava dalle immagini videoregistrate acquisite in atti, la vittima fu privata dall’imputato, negli attimi precedenti il delitto, non solo del telefono cellulare ma, verosimilmente, anche delle chiavi dell’autovettura, Infatti, pur visibilmente agitata, mentre P. si trovava nella propria autovettura per prendere la bottiglia di alcool, la ragazza non chiamò aiuto nè tentò di fuggire con la sua autovettura e si limitò a tentare di attirare l’attenzione di passanti e di abbozzare una fuga a piedi.

5.3. La Corte di assise di appello ha poi confermato anche la sussistenza dell’aggravante della commissione degli atti persecutori, per quanto prima riassunto.

6. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso il procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma e i difensori di P.V..

7. Il procuratore generale presso la Corte territoriale ha dedotto vizio di violazione di legge. Il delitto di atti persecutori, di cui è stata accertata la sussistenza, non può essere assorbito in quello di omicidio qualificato dall’aggravante dell’essere stato commesso dall’autore del precedente.

Quel che aggrava il reato di omicidio non è la contestuale commissione di atti persecutori, ma il fatto che l’autore dell’omicidio sia o sia stato anche autore di atti persecutori, nei confronti della medesima persona, come la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire per il caso, sovrapponibile, di lesioni personali qualificate dalla stessa aggravante.

8. Il difensore di P.V. ha articolato più motivi.

8.1. Con il primo motivo ha dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. La sentenza impugnata è incorsa in contraddizione affermando che la volontà omicida sorse nella notte tra il (OMISSIS) e che la premeditazione si sviluppò in maniera progressiva durante un periodo in cui l’imputato condizionò l’attuazione del proposito criminoso al fatto che la vittima non recedesse dalla relazione sentimentale intrapresa.

Non v’è prova che P.V. cercò di far tornare S. sulla propria decisione e non v’è prova che egli fu l’autore del danneggiamento dell’autovettura di G..

E’ frutto di un ulteriore travisamento della prova, al pari di quelli appena ora menzionati commessi sia dal giudice di primo che da quello di secondo grado, ritenere che P. disse a S. di essere in cura, essendosi limitato a dire, di essere stato da un’analista.

Del pari travisata è la prova che l’alcool fosse stato acquistato al duplice fine di incendiare l’autovettura di G. e di utilizzarlo per il cadavere di S..

Per quanto poi attiene al post su Facebook del (OMISSIS), il tempo in cui si colloca esclude la sussistenza della premeditazione, atteso il brevissimo lasso temporale tra la pubblicazione e l’azione criminosa e l’assenza nel frattempo di ogni preordinazione di mezzi.

8.2. Con il secondo motivo hanno dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. La Corte di assise di appello ha ritenuto sussistente il motivo futile con l’affermazione che la condotta dell’imputato travalicò i confini della gelosia ed esercitò sulla vittima un vero e proprio dominio possessorio.

In questa valutazione ha considerato solo ed esclusivamente una parte della messaggistica in atti tra l’imputato e la vittima, omettendo di dare adeguato rilievo a tutta la messaggistica contenuta nell’hard disk della copia forense.

La Corte territoriale ha affermato l’esistenza di un dominio possessorio sulla base di una mera presunzione e con motivazione illogica e avulsa dalle risultanze istruttorie. L’imputato mai precluse a S. di fare le proprie libere scelte. Certamente avvertiva una forte gelosia, anche paronoica, che lo spingeva a cercare di saper dove e con chi fosse S., ma in nessun modo risulta che l’avesse mai punita o minacciata di farlo per le sue condotte.

8.3. Con il terzo motivo hanno dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione. L’omicidio avvenne sulla pubblica via, seppure in orario notturno, ove in quel momento transitavano varie autovetture e S. era ben visibile ai passanti, alcuni dei quali la videro mentre discuteva con P..

Non ha rilievo, per l’affermazione della sussistenza dell’aggravante della minorata difesa, che il cadavere fu ritrovato in un’ansa della strada.

E’ sfornita di prova, poi, l’affermazione che l’imputato privò S. delle chiavi dell’autovettura e del cellulare. In relazione a quest’ultimo vi è anzi la prova che fu sottratto dopo che S. era deceduta.

Anche sul punto la Corte di assise di appello è incorsa, motivando per relationem, in un travisamento della prova.

8.4. Con il quarto motivo hanno dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione, nella parte in cui è stata affermata la sussistenza degli atti persecutori sia come reato autonomo che come circostanza aggravante. La vittima continuò a fare la vita di sempre, scuola, relazioni con le amiche, hobbies, e quindi non fu sottoposta ad alcuna pressione psicologica. E’ pur vero che si incontrava con G. in luoghi non abitualmente frequentati ma non per nascondersi a P., bensì a D.G., ex ragazzo ed amico di G.A..

S. non aveva paura di P., la cui condotta, pur molesta e minacciosa, non cagionò un perdurante e grave stato di ansia o di paura o tale da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o tale da alterare le abitudini di vita. In una sola occasione, nella notte tra il (OMISSIS), a causa del comportamento di P.S. avvertì uno stato di ansia, ma ciò non basta per configurare il reato.

8.5. Con il quinto motivo hanno dedotto vizio di violazione di legge e difetto di motivazione in punto di diniego delle attenuanti generiche, omettendo di considerare la giovane età, lo stato di incensuratezza, la confessione del fatto, che non può ritenersi tardiva, e il comportamento processuale tenuto.

9. Successivamente il difensore dell’imputato ha depositato memoria difensiva con cui ha replicato alle argomentazioni svolte nel ricorso del procuratore generale, chiedendone il rigetto, ed ha proposto motivi aggiunti.

Ha contestato, con nuove argomentazioni, la sentenza nelle parti in cui ha affermato la premeditazione del delitto e la sussistenza del delitto di atti persecutori.

10. Anche i difensori delle parti civili hanno depositato memoria, sia quelli dei prossimi congiunti della vittima che dell’Associazione Differenza donna Ong, sollecitando la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto del ricorso dell’imputato e l’accoglimento del ricorso del procuratore generale presso la Corte di appello di Roma.

Motivi della decisione

1. Il ricorso del procuratore generale della Corte di appello di Roma merita accoglimento per le ragioni di seguito esposte.

1.1. La tesi per la quale il delitto d’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 assorbe il delitto di atti persecutori è errata.

La Corte di assise di appello ha richiamato la disposizione normativa dell’art. 84 c.p., comma 1, che disciplina il reato complesso, ma non ha considerato che essa regola il caso dell’interferenza di fattispecie e specificamente dei profili oggettivi del tipo normativo.

La menzionata disposizione prescrive che non si applicano le regole sul concorso, reale, di reati se la legge considera “come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti, di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato”.

L’attenzione normativa è riposta sui fatti e per tali devono intendersi, posto che il rapporto è tra fattispecie e quindi tra descrizioni di accadimenti umani, i profili oggettivi e non anche la relazione eminentemente soggettiva tra l’accadimento e il suo autore.

La scelta del legislatore di porre l’accento, nella costruzione dell’aggravante in esame, sulla mera identità del soggetto autore sia degli atti persecutori che dell’omicidio e non sulla relazione tra i fatti commessi non può ritenersi frutto di una casuale modalità espressiva, utilizzata, senza una finalità precisa, in luogo di quella del tipo “se il fatto è commesso in connessione o in occasione”.

Non può quindi leggersi la disposizione come se avesse voluto dire che il delitto di omicidio è aggravato se commesso contestualmente o in occasione della commissione degli atti persecutori.

1.2. Del resto, è sufficiente volgere l’attenzione alla disposizione aggravatrice immediatamente precedente ove il legislatore ha optato per una formula lessicale significativamente diversa, orientata sui fatti, sulle condotte lesive. In essa il disvalore aggiuntivo è rivelato dall’essere il delitto di omicidio compiuto “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 600bis, 600ter, 609bis, 609quater e 609octies c.p.” e quindi dal vincolo di connessione sia pure occasionale che, come si è avuto modo di precisare, fa mantenere autonomia di concorso reale tra i reati in gioco salvo che esso si risolva nella contestualità, e quindi nella sostanziale unità spazio temporale, delle condotte – Sez. 1, n. 29167 del 26/05/2017, Nwajiobi, Rv. 270281 -.

1.3. In riferimento alla previsione che ora è d’interesse, il disvalore aggiuntivo di cui si colora il fatto dell’omicidio è invece posto in diretta derivazione dall’essere l’autore colui che prima, non importa quando, ha oppresso la vittima con atti persecutori, e ciò perchè in tal modo riceve una deplorevole e particolare spinta criminosa proprio dal contesto di sopraffazione in cui si è strutturata la relazione con la vittima.

L’elemento aggravatore è dunque di natura soggettiva, non appartiene alla condotta e alle sue modalità di commissione e quindi non si pone al centro di un rapporto di interferenza tra le fattispecie. Tra esse v’è una relazione di piena compatibilità perchè la commissione degli atti persecutori, reato di natura abituale e a condotta tipizzata, non involge in alcun modo la commissione del fatto di omicidio, reato di natura istantanea e casualmente orientato.

1.4. Gli atti persecutori si sostanziano in minacce e molestie di tale intensità da cagionare uno degli eventi alternativamente previsti che in ogni caso non ledono l’integrità fisica o, peggio, il bene della vita; il delitto di omicidio, invece, ben può prescindere da condotte di tal tipo e si qualifica soltanto per l’evento tipico della morte, del tutto diverso da quelli propri dell’altra fattispecie.

Deve allora ritenersi che, siccome “nella materia del concorso apparente di norme non operano criteri valutativi diversi da quello di specialità previsto dall’art. 15 c.p., che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie” – Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla ed altro, Rv. 269668 -, non si verifica l’assorbimento del delitto di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in assenza di una qualsivoglia affinità strutturale tra le fattispecie.

In senso contrario non depone la clausola di riserva, o di sussidiarietà, espressa in esordio dall’art. 612 bis c.p. con la precisazione del “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, perchè essa, al di là della questione circa una sua reale ed effettiva utilità, non può aver riguardo al rapporto con il delitto di omicidio, la cui natura istantanea lo pone al di fuori dell’area di possibile interferenza con il reato abituale di atti persecutori.

1.5. In questa direzione interpretativa si è già collocata la giurisprudenza di legittimità che, senza particolari argomentazioni, ha ritenuto scontata la conclusione appena prima formulata, stabilendo la procedibilità d’ufficio del “reato di atti persecutori connesso con il delitto di lesioni, anche nel caso in cui la procedibilità d’ufficio di quest’ultimo sia determinata dall’aggravante di cui all’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, per essere stato commesso il fatto da parte dell’autore del reato di atti persecutori nei confronti della medesima persona offesa” – Sez. 5, n. 11409 del 08/10/2015, dep. 2016, C, Rv. 266341 -.

2. La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma per un nuovo esame sul punto relativo al trattamento sanzionatorio, alla luce del principio di diritto per il quale l’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma 1, n. 5.1 non assorbe, per difetto di una relazione di specialità tra fattispecie, il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p..

3. Il ricorso proposto nell’interesse di P.V. non merita accoglimento per quanto di seguito si espone.

3.1. Va in premessa ricordato che il controllo della motivazione della sentenza di appello che abbia confermato la precedente sentenza di condanna è condotto tenendo conto della reciproca integrazione delle due decisioni, in ragione del consolidato principio di diritto per il quale “ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione” – Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595 -.

Questo metodo di verifica di adeguatezza della motivazione non significa certo che la sentenza di appello possa omettere l’esame sollecitato con i motivi di impugnazione, ma presuppone che il giudice di appello possa legittimamente avvalersi di quanto già argomentato dal primo giudice la cui decisione conferma, onde evitare, anche ai fini di una maggiore speditezza del controllo, inutili sovrapposizioni e superflue reiterazioni.

3.2. Occorre ancora rammentare, a fronte del fatto che il ricorso richiama, nell’illustrazione degli asseriti vizi della motivazione, la categoria del travisamento della prova, che può parlarsi di travisamento “quando l’errore sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio”, senza peraltro che possa derogarsi al principio della devoluzione che è ancora più stringente in caso di cd. doppia conforme e che possa chiedersi al giudice della legittimità la rivalutazione nel merito del risultato probatorio. – Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207 -.

In nessuno dei plurimi episodi denunciati come travisamento probatorio può apprezzarsi il vizio sì come ora definito, perchè quel che si contesta è piuttosto la lettura, il significato che i giudici di merito hanno ritenuto di trarre dal dato di prova e non viene dedotto, peraltro con la necessaria specificità, che il giudizio di condanna sia fondato su “una prova che non esiste o… un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale” – Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215 -.

4. Il primo motivo è infondato. La Corte di assise di appello ha dato congrua motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante della premeditazione. Ha messo in evidenza alcuni elementi di fatto da cui è logico desumere che nell’imputato maturò una perdurante risoluzione omicida non appena ebbe contezza che D.P.S. aveva intrapreso una relazione sentimentale con altro ragazzo, G.A..

Nella notte tra il (OMISSIS) l’imputato, non appena vide la persona offesa in atteggiamento affettuoso con G.A., ebbe una reazione violenta, aggressiva, irruppe sulla scena urlando la fase “ma bravi”, indicativa della convinzione di aver scoperto una situazione da cui in qualche modo si riteneva offeso e ferito, e afferrò per un braccio la ragazza, costringendola a prendere posto nella sua autovettura.

Quindi, dopo aver cercato di ottenere da S. la conferma che quanto aveva potuto vedere era proprio la verità, esplose la rabbia, si allontanò lasciandola terrorizzata e le inviò messaggi su Whatsapp del seguente tenore: “ti rovino la vita a te e a lui Tu devi soffrire come stai facendo soffrire me…” (fl. 3132).

4.1. E’ allora plausibile e logica la deduzione tratta dai giudici di merito, e cioè che quel momento segnò un punto di svolta nella vicenda che vedeva S. assillata dagli oppressivi controlli dell’imputato. Da lì in avanti l’atteggiamento di quest’ultimo fu improntato a maggior cautela e circospezione, sì da risultare anomalo se raffrontato con quanto accaduto nella notte tra il (OMISSIS).

Come ben evidenziato dalla sentenza impugnata, il (OMISSIS), ossia il giorno prima dell’omicidio, l’imputato ebbe una conversazione con S., improntata più all’inganno che allo scontro aggressivo: le disse, a fronte della contestazione dei suoi plurimi inaccettabili comportamenti, che si era recato presso un analista, circostanza invero falsa, e negò di essere l’autore del danneggiamento dell’autovettura di G.A. del (OMISSIS), tacendo poi dell’incendio della stessa autovettura che proprio quel giorno, all’alba, aveva causato (fl. 56).

Insomma, cercò di rappresentarsi assai meno pericoloso, non la investì con le stesse minacciose frasi che aveva utilizzato qualche giorno prima, quando si era infuriato per via della scoperta della nuova relazione amorosa di S., ma tenne un comportamento cauto, proprio al fine, come messo in evidenza dalla sentenza impugnata, di tranquillizzarla, in modo che lei non tenesse alte le difese.

Nel frattempo, però, a dispetto dell’ammissione di aver dei problemi che non sapeva gestire tanto da rivolgersi ad un analista, si era procurato del liquido infiammabile, in parte utilizzato per incendiare l’autovettura di G., e in parte conservato per poi farne uso, da lì a qualche ora, per incendiare l’autovettura e il cadavere di S., segno questo della programmazione criminale di quel che da lì a breve avrebbe compiuto (fl. 56).

Quando poi, proprio la notte dell’omicidio, vide nuovamente S. in compagnia di G., non assunse lo stesso atteggiamento palesemente aggressivo tenuto qualche giorno prima ma rimase appostato sotto l’abitazione di G. e attese che S. andasse via, per poterla seguire senza che G. si facesse ostacolo al suo proposito (fl. 56).

4.2. Inoltre, è significativo della persistenza del proposito omicida il messaggio postato qualche ora prima dell’omicidio su Facebook, una frase gravida del tragico senso che avrebbe da lì a breve impresso a quella nottata, all’ultimo incontro con S.; l’annuncio, secondo la plausibile ricostruzione dei giudici di merito, della conclusione del piano criminale che aveva ideato, con quell’oscuro riferimento al marcio radicato nel profondo, alla necessità di una rivoluzione, e quindi di un’azione di totale sovvertimento della situazione in cui si era trovato, per poter fare tabula rasa, così annientando le fonti del suo malessere e farne seguire una catastrofe liberatoria, un nuovo diluvio universale (fl. 45).

4.3. E non è ancora tutto. L’imputato tese un vero e proprio agguato a S., l’attese appostato sotto l’abitazione di G. per circa cinquanta minuti, nel seguirla a bordo dell’autovettura prese una scorciatoia, la intercettò e appena dopo si scontrò volontariamente contro la sua autovettura per poterla fermare (fl. 44).

Quindi, dopo aver discusso, la uccise stringendole con violenza il collo con il braccio posizionato a mò di pinza, e ciò per un lasso temporale certo non breve, di circa quattro-cinque minuti, anch’esso rivelatore dell’assenza di un dolo d’impeto e, di contro, di una volontà predeterminata di uccidere (fl. 47).

4.4. Alla luce di questi dati oggettivi della vicenda ben si può inferire, come hanno fatto i giudici di merito, il carattere premeditato dell’omicidio, ricorrendo entrambe le condizioni che danno struttura all’aggravante, ossia “un apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso, tale da consentire una ponderata riflessione circa l’opportunità del recesso (elemento di natura cronologica) e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzione di continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine (elemento di natura ideologica)” – Sez. U, n. 337 del 18/12/2008, dep. 2009, Antonucci e altri, Rv. 241575 -.

4.5. Si può anche ipotizzare che l’imputato cercò sino alla fine di strappare a S. l’assenso a dargli l’opportunità di restare ancora nella sua vita, come le aveva chiesto nell’incontro del (OMISSIS) ricevendo un secco rifiuto (fl. 50), ma, come ha correttamente rilevato la Corte di assise di appello, non viene meno la possibilità di configurare la premeditazione, atteso che “non osta… il fatto che il soggetto agente abbia condizionato l’attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto a far recedere la più precisa e ferma risoluzione criminosa del reo. (Fattispecie in cui l’omicidio era stato programmato per il caso in cui la vittima avesse ribadito il rifiuto di riallacciare il rapporto di convivenza con il reo)” – Sez. 1, n. 19974 del 12/02/2013, Zuica, Rv. 256180; v., anche, Sez. 1, n. 1079 del 27/11/2008, dep. 2009, Lancia, Rv. 242485, secondo cui “sussiste l’aggravante della premeditazione anche quando l’agente abbia risolutivamente condizionato il proposito criminoso al mancato verificarsi di un determinato evento ad opera della vittima. (Fattispecie in cui la decisione di commettere l’omicidio era stata programmata dall’imputato per il caso in cui la vittima avesse opposto l’ennesimo rifiuto alla richiesta di rinunziare alla domanda di separazione)”.

4.6. E’ invece illogica l’argomentazione di ricorso, secondo cui la premeditazione dovrebbe essere negata sulla base dell’osservazione che proprio da quei profili del fatto da cui essa viene desunta se ne dovrebbe ricavare l’inesistenza per l’assenza di avvedutezza in capo all’agente che, attraverso il messaggio postato su Facebook e altre gravi disattenzioni, avrebbe finito con il disseminare il percorso ricostruttivo degli investigatori di una pluralità di tracce ai suoi danni.

L’illogicità risiede nella premessa non compiutamente svolta, che vorrebbe individuare la premeditazione solo quando l’azione si arricchisca di tratti di callidità che rivelino una spiccata propensione criminale e in particolare la capacità di tener conto, con largo anticipo, dell’esigenza di sottrarsi alle indagini, di sviarle o quanto meno di non agevolarle.

La premeditazione, invero, non si caratterizza anche per questi aspetti, sì che essa ben può essere ritenuta quando l’agente, che pure abbia maturato un risoluto e duraturo proposito criminoso, si mostri sprovveduto, incurante del rischio di rendere visibile la sua azione o incapace di occultarla.

E’ dunque corretta l’affermazione della sentenza impugnata dell’irrilevanza della deduzione difensiva che la notte dell’omicidio l’imputato era in servizio presso un luogo videosorvegliato e che utilizzò per l’agguato e quindi l’uccisione di S. la sua autovettura, che era dotata di GPS, il che rendeva tracciabili i suoi movimenti, qualificando questi aspetti della vicenda come indici rivelatori al più della ingenuità dell’imputato nella programmazione del crimine (fl. 57).

5. Il secondo motivo è manifestamente infondato. La giurisprudenza di legittimità ha sì affermato che l’aggravante dei motivi abietti non può essere ritenuta se la spinta criminosa si esaurisca in sentimenti di pura gelosia, ma ha pure chiarito che l’aggravante ricorre se l’autore del fatto ha agito per “spirito punitivo nei confronti della vittima”, per intolleranza alla “insubordinazione di questa, considerata come propria appartenenza” – Sez. 5, n. 35368 del 22/09/2006, P.M. in proc. Abate, Rv. 235008; v., anche, Sez. 1, n. 1489 del 29/11/2012, dep. 2013, Titta, Rv. 254269 -.

La Corte di assise di appello ha argomentato correttamente su queste premesse, rilevando che l’imputato aveva sottoposto la vittima a un serrato continuo controllo, con appostamenti, intrusioni telematiche e contatti telefonici in modo da poter sapere con chi si incontrasse, dove si trovasse, sia di giorno che di notte, rimproverandola duramente non appena rilevava comportamenti che gli apparivano indice della volontà della persona offesa di sottrarsi al suo dominio.

Il rapporto che l’imputato aveva instaurato era di sopraffazione e di possesso, non potendo tollerare che S. avesse una vita di relazione a cui lui restava estraneo (fl. 58,59).

La sentenza impugnata ha dato così adeguatamente conto di come sarebbe improprio parlare nel caso in esame di sentimenti di gelosia, trattandosi invero della volontà di instaurare e mantenere una situazione di dominio sulla persona che pretendeva di possedere.

6. Il terzo motivo è del pari manifestamente infondato. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “ai fini della sussistenza dell’aggravante della minorata difesa, non è necessario che le circostanze di tempo, di luogo o di persona, previste dall’art. 61 c.p., n. 5), abbiano impedito o reso impossibile la difesa privata, essendo sufficiente che la stessa sia soltanto ostacolata” – Sez. 1, n. 50699 del 18/05/2017, B., Rv. 271592 -.

Sulla base di tale principio ha poco rilievo stabilire se la via lungo la quale fu consumato l’omicidio era trafficata anche in quell’ora notturna e se esso fu commesso, invece che in una rientranza della strada al riparo dalla vista dei passanti, in un luogo di visibilità non altrimenti ostacolata, perchè quel che la sentenza impugnata ha opportunamente sottolineato è che D.P.S., per quanto avesse avvertito l’incombente pericolo, non fu nelle condizioni di cercare aiuto nè di scappare, perchè all’evidenza era stata privata del telefono cellulare e delle chiavi della sua autovettura. Fece sì un tentativo di fuggire a piedi ma proprio le condizioni di luogo e di tempo impedirono che quel tentativo potesse avere esito (fl. 59-60).

7. Il quarto motivo è infondato. La sentenza impugnata ha compiutamente argomentato, oltre che in ordine alle reiterate condotte di minacce molestie, che dettero luogo ad un costante ed oppressivo dispositivo di controllo sui movimenti e sulle relazioni sociali di S., anche circa l’evento causato da tali condotte.

7.1. E’ affermazione consolidata nella giurisprudenza di legittimità che “il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di danno consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di pericolo, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva” – Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015, P.C. in proc. G., Rv. 262517 -.

Gli eventi indicati dalla norma incriminatrice non devono verificarsi cumulativamente per aversi la consumazione del reato, dato che sono alternativamente previsti. Si è infatti precisato che “ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori è sufficiente la consumazione anche di uno solo degli eventi alternativamente previsti dall’art. 612 bis c.p.” – Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015, A., Rv. 265231 -.

7.2. Entro queste coordinate interpretative la sentenza impugnata ha descritto i tratti salienti della vicenda, mettendo in evidenza che D.P.S. fu costretta a modificare le sue abitudini di vita, evitando di incontrarsi con G.A. in luoghi ed orari in cui potevano essere sorpresi da P. (fl. 61), quindi dovette cambiare la password di accesso all’account Facebook non appena scoprì gli accessi abusivi perpetrati da P. (fl. 26).

Ancora, i controlli opprimenti e possessivi di P. ebbero una tale incidenza da causarle sentimenti di forte paura, sostanzialmente terrorizzandola sì da impedirle di prendere sonno la notte, tra il (OMISSIS), in cui piombò nel luogo in cui si era appartata con G.A., strattonandola e imponendole di seguirlo (fl. 31, 32).

A tal proposito è utile ricordare quanto affermato dal giudice di primo grado che ha avuto cura di richiamare le dichiarazioni testimoniali di G.A.. Questi ha riferito che D.P.S., dopo l’aggressione del (OMISSIS) mostrò inquietudine per il fatto che P. era apparentemente scomparso. A distanza di qualche giorno, e specificamente il (OMISSIS), S. confidò la sua preoccupazione a G. proprio perchè temeva che, dietro quell’apparente e strano silenzio, P. potesse tramare qualcosa ai loro danni ed esternò la paura che avrebbe potuto ucciderli entrambi. Chiarì pure, a G. che le chiedeva perchè mai non troncasse ogni rapporto con P., che “aveva paura a lasciarlo perchè temeva che lui l’ammazzasse” (fl. 12 della sentenza di primo grado).

7.3. Ed è questa la chiave di lettura dei comportamenti della vittima, che, sebbene impaurita, non si negò ad un incontro a casa sua con P., proprio la sera successiva, non già per un chiarimento di riappacificazione in vista di una ripresa della relazione, dato che fu risoluta a rifiutare ogni proposta in tal senso di P., che le chiedeva di non escluderlo dalla sua vita (fl 18 della sentenza di primo grado), ma perchè si illudeva, evitando una rottura traumatica del rapporto, di poter gestire meglio una situazione che le creava ansia e inquietudine.

Non incorre pertanto in alcuna illogicità o incoerenza la sentenza impugnata per le parti in cui non valorizza, come il ricorrente vorrebbe, gli aspetti della relazione tra D.P.S. e P.V. ad un primo esame incompatibili con un atteggiamento rigoroso di rifiuto di ogni contatto che, in una valutazione astratta delle vicende umane, dovrebbe porsi quale naturale reazione ai sentimenti di paura che l’altro è in grado di suscitare.

Come ben messo in evidenza dal giudice di primo grado, la ragazza era fortemente impaurita, e lo era a tal punto che, quando era in compagnia di G.A., avvertiva la necessità di evitare che lui potesse incontrarli, e quindi si allontanava dal quartiere, l’Eur, proprio per sfuggire ogni occasione di incontro (fl 12 della sentenza di primo grado).

Che il comportamento di D.P.S. fosse diretto a celare, a parenti e amici, la gravità del comportamento di P.V. (fl. 15 della sentenza di primo grado) nulla toglie alla possibilità di apprezzamento delle condotte da questi poste in essere nei termini in cui la loro oggettiva consistenza ne rivela, senza necessità di indagare oltre su quel che causarono nello stato d’animo della persona offesa, i tratti tipici della persecuzione penalmente rilevante.

Va sul punto ricordato, da un lato, che per l’affermazione del reato non si “richiede l’accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori – e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti – abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima…” – Sez. 5, n. 16864 del 10/01/2011, C., Rv. 250158 -; e, dall’altro, che “la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante” – Sez. 5, n. 24135 del 09/05/2012, G., Rv. 253764 -.

8. Il quinto motivo è manifestamente infondato. La Corte di assise, di appello ha motivato congruamente la decisione di non concedere le attenuanti generiche, in ragione di un approfondito esame del comportamento susseguente dell’imputato, in specie di quello processuale, ponendo in essere un’attività di depistaggio e rendendo una confessione, priva di valutazione critica di quanto compiuto, soltanto a fronte dei dati emersi in maniera incontrovertibile dall’attività di indagine (fl. 63).

E’ appena il caso di richiamare, per evidenziare la palese inadeguatezza dei rilievi di ricorso, il principio di diritto per il quale “in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione” – Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 -.

9. Il ricorso di P.V. deve pertanto essere rigettato. Consegue al rigetto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e la condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili costituite, che sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

In accoglimento del ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma.

Rigetta il ricorso di P.V. che condanna al pagamento delle spese processuali.

Condanna, inoltre, il P. alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalle parti civili R.A., in proprio e nella qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale, R.L., R.R., R.M., T.V. e G.A., che liquida in complessivi Euro 8.750,00, oltre accessori di legge.

Condanna, ancora, il P. alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili R.C. e T.L., che liquida in complessivi Euro 1.400,00, oltre accessori di legge, nonchè dalla parte civile D.P.A., che liquida in Euro 2.400,00, oltre accessori di legge, disponendo, per le tre suindicate partici civili, il pagamento in favore dello Stato.

Condanna, infine, il P. alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile “Associazione differenza donna Ong”, che liquida in Euro 2.400,00, oltre accessori di legge, disponendone il pagamento in favore dello Stato.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 12 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2019