Mai cantare vittoria per una condanna generica al risarcimento del danno, questo può essere totalmente escluso nel prosieguo del giudizio di liquidazione.

La pronuncia di condanna generica al risarcimento comporta soltanto la verifica in merito alla potenzialità del danno, tuttavia, la concreta esistenza dello stesso deve essere verificata nella successiva fase, quella dinnanzi al giudice della liquidazione, il quale pertanto può negare la sussistenza del danno, senza incorrere nella violazione del giudicato formatosi in merito all'”an“.

Logica conseguenza di ciò è che, in caso di impugnazione della successiva condanna operata nel giudizio di liquidazione, il giudice d’appello può interamente riesaminare la statuizione senza con ciò incappare nel vizio di ultra-petizione. 

Tale principio è stato ribadito nella sentenza n. 5252, resa dalla I sezione della Corte di Cassazione, in data 16.03.2016.

Con atto di citazione un imprenditore esercente di una cava di pozzolana, evocava in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, il Comune all’interno del quale era ubicata l’anzidetta cava, al fine di sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti in dipendenza del mancato rilascio dell’autorizzazione all’estrazione del materiale di cava, provvedimento autorizzato resosi necessario in virtù dell’entrata in vigore di una nuova legge regionale in materia.

Resisteva il Comune, opponendo che l’autorizzazione era stata rilasciata, sia pure successivamente, tuttavia, il Tribunale, con sentenza non definitiva lo condannava al risarcimento dei danni subiti “a causa dell’errore e dei ritardi effettuati nell’espletamento della pratica” che, nel conseguente giudizio venivano quantificati nella misura di € 220.000,00 con relativa condanna al pagamento in virtù di successiva statuizione definitiva.

La Corte d’Appello di Roma, successivamente investita del gravame, rigettava sia l’appello principale del Comune, che quello incidentale dell’imprenditore vittorioso in primo grado.

In disparte le altre questioni, il giudice di secondo grado riteneva che, in relazione all’esistenza stessa del diritto al risarcimento, nulla poteva essere eccepito, in considerazione della mancata impugnazione della sentenza generica di condanna, sulla quale pertanto si sarebbe formato il giudicato, essendo devoluto l’incardinato giudizio d’appello solo alla verifica della corretta determinazione del danno, conseguente all’impugnazione della sentenza definitiva di liquidazione dello stesso.

Chiede la cassazione della sentenza il Comune, con ricorso affidato a sei motivi, tra i quali, per quello che interessa in questa sede, quello relativo alla violazione dell’art. 278 c.p.c. che, se correttamente interpretato, avrebbe fatto sì che prima il Tribunale, e poi la Corte d’Appello, avrebbero dato ingresso nel giudizio inerente la liquidazione del danno, alle questioni relative all’esistenza dell’an, non precluse dalla mera condanna generica, quand’anche non impugnata.

La Corte di Cassazione ritiene fondate le censure.

La stessa, infatti, richiamando i propri precedenti ritiene come: “la pronuncia di condanna generica al risarcimento presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo del danno, rimanendo l’accertamento della concreta esistenza dello stesso riservato alla successiva fase, con la conseguenza che al giudice della liquidazione è consentito di negare la sussistenza del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudicato formatosi sull'”an”. Sicché, qualora la sentenza di primo grado venga specificamente impugnata in ordine alla liquidazione del danno, contestandosi che di esso sia stata fornita la prova, il giudice di appello – senza incorrere in ultrapetizione ove, all’esito di tale revisione, escluda l’esistenza di qualsiasi danno – è investito del potere di riesaminare nella sua interezza la statuizione concernente il “quantum debeatur” (cfr. Cass. 21428/2007; 15335/2012; 15595/2014)“.

Una tale pronuncia, prosegue la Suprema Corte: “si configura, invero, come una mera “declaratoria iuris” da cui esula qualunque accertamento in ordine alla misura e alla concreta sussistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi sull'”an” non preclude al giudice della liquidazione di negare la sussistenza stessa del danno (cfr. ex plurimis, Cass. 2875/1992; 27723/2005; 9043/2012)“, a maggior ragione, il giudice del gravame, ben può riesaminare la decisione nel suo complesso, anche con riferimento all’esistenza del vero e proprio diritto al risarcimento, anche qualora ad essere impugnata sia la sola sentenza del giudice della liquidazione e non quella parziale, precedente, di condanna generica.

La ragione dell’anzidetto principio, che a prima vista potrebbe sembrare irragionevole, risiede nel fatto che – per come ricordato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità – la condanna generica al risarcimento del danno presuppone solo un accertamento potenziale in merito alle possibili conseguenze pregiudizievoli del fatto ritenuto dannoso.

Pertanto, l’anzidetta condanna generica risulta basata solo su un giudizio probabilistico e di astratta potenzialità, senza alcuna effettiva prova in merito al danno effettivamente subito che, al contrario, deve essere fornita nel successivo giudizio per la liquidazione, nel corso del quale ben può mancare l’anzidetta prova, laddove, in difetto di tale deduzione probatoria, ben può conseguire il rigetto della domanda nel merito.

Si presti attenzione, però, il giudizio sottoposto al vaglio della Suprema Corte, atteneva comunque ad un unico processo nel quale è stata sì emessa una condanna generica con sentenza parziale tuttavia, il giudizio è proseguito, fino alla pubblicazione di una condanna definitiva.

Diverso, pertanto, è il caso in cui le sentenze, quella generica e quella di liquidazione, vengano emesse in due distinti processi, in tal caso, infatti, i principi sopra espressi non possono trovare applicazione.

Tanto è vero che, la medesima Corte di Cassazione ha, a più riprese, evidenziato come in caso di richiesta di ricognizione dell’an debeatur autonoma rispetto all’accertamento del quantum, possono verificarsi due diverse ipotesi: “a) se nel medesimo processo viene dapprima pronunciata condanna al risarcimento, e quindi viene disposta la prosecuzione del giudizio per l’accertamento del “quantum” ai sensi dell’art. 278, primo comma, cod. proc. civ., il passaggio in giudicato della sentenza non definitiva sull'”an” preclude la possibilità di contestare, nel prosieguo del giudizio, i presupposti del risarcimento, quali l’esistenza del credito o la proponibilità della domanda; b) se, invece, il giudizio si è limitato all’accertamento dell'”an”, rinviando ad un nuovo e separato giudizio l’accertamento del “quantum”, quest’ultimo sarà del tutto autonomo rispetto al primo, con la conseguenza che il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica al risarcimento non genera effetti vincolanti, per il giudice del “quantum”, né sull’esistenza del credito né sulla proponibilità della domanda” (Cass. civ., 24.04.2014, n. 9290. Nello stesso senso: Cass. civ., 15.07.2008, n. 19453; Cass. civ., 31.07.2006, n. 17297; Cass. civ., 25.02.2002, n. 2724; Cass. civ., 06.11.2000, n. 14454).

Pertanto, il discrimine tra l’effettiva formazione del giudicato e, pertanto, sulla necessità o meno di impugnare la sentenza di condanna generica, è dato dalla contestualità, o meno, del giudizio sul quantum.

In altri termini, se la sentenza di condanna generica risulta non definitiva, il che sta a significare che nel medesimo giudizio verrà emessa una successiva sentenza definitiva, non sorge l’esigenza di impugnare autonomamente anche la sentenza non definitiva, perché il giudicato si formerà solo con il decorso del termine necessario ad impugnare l’ultima sentenza.

Viceversa, qualora la condanna generica consegua ad un giudizio autonomo che, pertanto, demanderà ad un successivo ma, soprattutto, distinto giudizio la quantificazione del danno, con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica, non sarà più possibile contestare l’an debeatur nel giudizio di liquidazione.