Maresciallo maggiore dell’Arma condannato per peculato perde il grado e la pensione.

(Corte di Cassazione civile, sez. unite, sentenza 6 maggio 2016, n. 9146)

…, omissis …

Considerato in fatto;

La Corte dei Conti – sezione giurisdizionale d’appello – per la regione siciliana, pronunciando in materia pensionistica, riformava la sentenza della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti Per la predetta regione e rigettava il ricorso di L.S., già maresciallo maggiore aiutante dell’Arma dei carabinieri, d’impugnazione dei provvedimenti emessi dal Ministero della Difesa e dal Centro Nazionale amministrativo dell’Arma dei Carabinieri, con i quali veniva disposta l’interruzione della corresponsione della pensione che gli era stata liquidata in ragione dell’avvenuto congedo per inabilità fisica assoluta e permanente con decorrenza 28 gennaio 2005 e l’avvio della procedura di recupero dei ratei nel frattempo erogati.

A fondamento del decisum la Corte dei Conti, dopo aver rilevato che alla base degli impugnati provvedimenti l’Amministrazione aveva posto la sanzione disciplinare, irrogata con effetti dal 28 gennaio 2005, della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari conseguente alla condanna penale definitiva per il reato di peculato militare rilevava che non era sindacabile innanzi alla Corte dei Conti, in funzione di giudice competente in materia pensionistica, l’illegittimità e/o l’inefficacia della sanzione disciplinare, trattandosi di provvedimento concernente lo status giuridico di militare.

Sicchè essendo il titolo della risoluzione del rapporto quella della perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari e non per inabilità fisica e permanente, per la quale erano previsti requisiti minimi pensionistici più favorevoli rispetto al regime ordinario, andava applicato siffatto ultimo regime, rispetto al quale il L. non aveva conseguito i prescritti requisiti di servizio utile e di età.

Avverso questa sentenza il L. ricorre in cassazione ex art. 111 Cost., u.c. e art. 360 c.p.c., n. 1, sulla base di un unico motivo.

Le parti intimate non svolgono attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente rilevato che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato o inammissibile, come è il presente ricorso alla stregua di quanto di seguito precisato, è superflua la fissazione di un termine per la rinnovazione della notifica del ricorso nei confronti del Ministero della Difesa eseguita presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato anzichè presso l’Avvocatura generale dello Stato, atteso che detta concessione si risolverebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723, S.U. 22 marzo 2010 n. 6826,Cass. 13 ottobre 2011 n. 21141, Cass. 17 giugno 2013 n. 15106 e S.U. 18 novembre 2015 n. 23542).

Passando all’esame del ricorso va precisato che con l’unico motivo parte ricorrente denuncia violazione della L. n. 2248 del 1865, art. 12, allegato E, del R.D. n. 703 del 1933, artt. 14 e 16, del R.D. n. 1124 del 1934, artt. 62-64, del R.D. n. 1038 del 1933, artt. 71-89, del R.D. n. 1214 del 1934, artt. 13 e 62.

Sostiene il ricorrente che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza, la giurisdizione sulla decorrenza degli effetti del provvedimento disciplinare appartiene alla Corte dei Conti, in quanto trattasi di atto che incide in via diretta ed immediata non già sullo status di militare in servizio, bensì sul suo trattamento pensionistico.

Il ricorso è palesemente inammissibile.

Invero è giurisprudenza conforme di queste Sezioni Unite la regula iuris secondo la quale la Corte dei Conti, in sede di giurisdizione esclusiva sui provvedimenti inerenti al diritto, alla misura ed alla decorrenza della pensione dei pubblici dipendenti (nonchè degli altri assegni che ne costituiscono parte integrante), ha il potere-

dovere di delibare gli atti amministrativi intervenuti nel pregresso rapporto d’impiego, inerenti allo status del dipendente ed al suo trattamento economico, al fine di stabilirne la rilevanza sul trattamento di quiescenza, ma non può decidere, neppure in via incidentale, sulla legittimità di detti atti, trattandosi di questione pregiudiziale che è devoluta alla giurisdizione del giudice del rapporto d’impiego, ove gli atti medesimi siano ancora impugnabili, e che resta preclusa, quando essi siano divenuti definitivi in conseguenza di mancata impugnazione (o di giudicato).

L’inosservanza da parte della Corte dei Conti del suddetto divieto, in quanto attinente ai limiti esterni delle sue attribuzioni giurisdizionali, è denunciabile con ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (S.U. 7 agosto 2009 n. 18076, S.u. aprile 2010 n. 8317 e S.U. 3 novembre 2011 n. 22730).

Applicando i richiamati principi al caso di specie emerge che correttamente la Corte dei Conti ha declinato la propria giurisdizione relativamente alla pretesa inefficacia del provvedimento disciplinare in base al quale è stato mutato il titolo di risoluzione del rapporto di lavoro.

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Nulla deve disporsi in ordine alle spese del presente giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensive.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio.

Ai seggi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civile, il 8 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2016