Minacce a mezzo Facebook.

(Corte di Cassazione, Sez. V Penale, sentenza 19 aprile 2016, n. 16145)

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 1 – 19 aprile 2016, n. 16145

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza deliberata il 19/11/2014, la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Chieti aveva dichiarato V.U. colpevole dei reato di minaccia grave, perché, mediante un messaggio inviato sul profilo facebook, minacciava a M.M. un male ingiusto, pronunciando, tra l’altro nei suoi confronti espressioni quali “se mi tolgono il bambino, vi ammazzo”; l’imputato veniva condannato alla pena di mesi 3 di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile.

2. Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione V.U., attraverso il difensore avv. G. Polleggioni, articolando quattro motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.

Il primo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 612 cod. pen.

La Corte di appello ha acriticamente escluso la rilevanza della modalità “a distanza” della minaccia, in quanto inviata attraverso un social network, sia la rilevanza dei tenore, scevro dall’intento effettivo di incutere timore, richiamando, in modo illogico e contraddittorio, l’attinenza dei male minacciato alla sfera familiare e il racconto, del tutto indimostrato, della parte civile.

Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione, la cui sussistenza risulta dimostrata dallo stesso messaggio (“avete rotto a parlare di me … mi dovete lasciare in pace”), mentre il generico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa circa il contesto nel quale è maturato l’episodio integra il vizio motivazionale denunciato.

Il terzo e il quarto motivo denunciano violazione ed erronea applicazione degli artt. 163 e 164 cod. pen., per omessa concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena e omessa motivazione in riferimento alla richiesta formulata nell’atto di appello e non esaminata dalla sentenza impugnata.

Considerato in diritto

Il ricorso è solo in parte fondato.

Il primo motivo non è fondato. Come risulta dalla sentenza di primo grado, che si integra con quella conforme di secondo grado (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 – dep. 05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145), la persona offesa era stata legata all’imputato da una relazione dalla quale era nato un figlio e, come evidenziato dalla Corte distrettuale, nel 2010, a seguito di un grave episodio nel quale era stata minacciata con un coltello, si era trasferita dai propri genitori con il bambino.

In questo contesto si colloca l’episodio in esame, rispetto al quale la Corte di appello ha rilevato che la gravità del male minacciato si ricollega alla sua attinenza alla sfera familiare della vittima (l’imputato, infatti, aveva accusato la stessa persona offesa e i suoi genitori di “creargli problemi” con il figlio), tale da provocare un rilevante turbamento emotivo: nei termini indicati, la Corte di merito ha fatto buon governo del principio di diritto (Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008 – dep. 20/11/2008, De Marco, Rv. 242188; conf., ex plurimis, Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015 – dep. 25/08/2015, Romeo, Rv. 264341) in forza dei quale la gravità della minaccia va accertata – nella prospettiva di verificare se, ed in quale grado, essa abbia ingenerato timore o turbamento nella persona offesa – avendo riguardo a tutte le modalità della condotta e, in particolare, al tenore delle eventuali espressioni verbali (nel caso di specie, come si è visto, di indubbia attitudine alla determinazione del turbamento emotivo della vittima) e al contesto nel quale esse si collocano (caratterizzato dalle pregresse vicende che avevano indotto la persona offesa ad andare a vivere dai genitori e dalle recenti tensioni derivate dalle accuse rivolte dall’imputato con riguardo al figlio).

A fronte degli argomenti della Corte distrettuale, le censure relative al racconto della persona offesa fanno leva su uno svilimento della sua valenza del tutto generico, in quanto privo di correlazione con argomenti e dati probatori puntualmente dedotti, laddove la doglianza sul carattere “a distanza” della minaccia è stata vagliata dalla sentenza impugnata, che l’ha disattesa sulla base dell’incensurabile motivazione richiamata.

Il secondo motivo è inammissibile, in quanto articolato in termini del tutto carenti in ordine alla deduzione del presupposto dell’invocata circostanza attenuante e, segnatamente, dell’ingiustizia del fatto causativo della reazione, tanto più che le sentenze di merito delineano un contesto – anche pregresso – dal quale non emergono indicazioni nel senso invocato dal ricorrente.

Le censure relative alla mancata applicazione della sospensione condizionale della pena meritano, invece, accoglimento, nei termini di seguito indicati.

E’ assorbente, al riguardo, il rilievo che l’atto di appello articolava uno specifico motivo sul punto, motivo non esaminato dalla sentenza impugnata, che si limita ad evidenziare come a carico dell’imputato sussista un precedente specifico.

Di conseguenza, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al punto relativo all’applicazione della sospensione condizionale della pena, con rinvio per nuovo esame alla competente Corte di appello di Perugia, mentre, nel resto, il ricorso deve essere rigettato.

Secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, il parziale accoglimento dell’impugnazione dell’imputato non elimina la condanna, sicché – pur impedita la sua condanna al pagamento delle spese processuali – è consentita la condanna dello stesso alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di impugnazione, in base alla decisiva circostanza della mancata esclusione del diritto della parte civile (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997 – dep. 02/07/1997, Dessimone e altri, Rv. 207946).

Pertanto, il ricorrente deve essere condannato alla spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

L’inerenza della vicenda a rapporti familiari impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla sospensione condizionale della pena e rinvia alla Corte di appello di Perugia per nuovo esame; rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio in favore della parte civile che liquida in complessivi euro 1.800, oltre accessori di legge; oscuramento dati.