Misure di sicurezza per l’infermo di mente e per il seminfermo di mente – Criteri di scelta – Condizioni per l’applicazione delle misure detentive (Corte Costituzionale, sentenza 23 luglio 2015, n. 186).

SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1,
lettera b), del decreto-legge 31  marzo  2014,  n.  52  (Disposizioni
urgenti  in  materia  di  superamento  degli  ospedali   psichiatrici
giudiziari), convertito, con modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge  30  maggio  2014,  n.  81,  promosso  dal  Tribunale  di
sorveglianza  di  Messina  nel  procedimento  di   sorveglianza   nei
confronti di M.S., con ordinanza del 16 luglio 2014, iscritta  al  n.
247 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 2015. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24  giugno  2015  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Tribunale di sorveglianza di Messina, con ordinanza del 16
luglio 2014 (r.o. n. 247 del 2014), ha sollevato, in riferimento agli
artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, primo  comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  5  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, e all'art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti
dell'uomo, proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni  Unite  a
New  York  il  10  dicembre  1948,  una  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31
marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti  in  materia  di  superamento
degli   ospedali   psichiatrici    giudiziari),    convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 maggio  2014,  n.
81,  «nelle  parti  in  cui  stabilisce  che   l'accertamento   della
pericolosita'  sociale  "e'  effettuato  sulla  base  delle  qualita'
soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui
all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale"  e  che
"non  costituisce  elemento  idoneo  a  supportare  il  giudizio   di
pericolosita' sociale  la  sola  mancanza  di  programmi  terapeutici
individuali"».
     Il  Tribunale  di  sorveglianza  premette  di  essere   investito
dell'appello avverso l'ordinanza del 28 febbraio 2014, con  la  quale
il Magistrato di sorveglianza di Messina aveva rigettato l'istanza di
revoca anticipata della misura di sicurezza detentiva della  casa  di
cura e di custodia, prevista fino al 3 maggio 2015 nei  confronti  di
una  persona  internata  nell'Ospedale  psichiatrico  giudiziario  di
Barcellona Pozzo di Gotto. 
    In seguito alla sentenza irrevocabile della  Corte  d'appello  di
Palermo, che aveva condannato M.S. alla pena di quattro anni  e  otto
mesi  di  reclusione  per  il  reato  di  tentato  omicidio,  con  la
diminuente di cui all'art. 89 del codice penale ritenuta  equivalente
all'aggravante di aver agito con crudelta' e alla recidiva reiterata,
e aveva applicato al medesimo la misura della casa di cura e custodia
per due anni, la Procura della Repubblica di Palermo aveva chiesto al
Magistrato  di  sorveglianza  di  procedere  all'accertamento   della
pericolosita'  sociale  del   condannato,   al   fine   di   disporre
l'applicazione della citata misura di  sicurezza.  Il  Magistrato  di
sorveglianza di Palermo,  in  seguito  a  un  complesso  esame  della
vicenda individuale, familiare, sociale, psichiatrica  e  giudiziaria
di M.S. e dopo avere considerato il  delitto  contestato,  alla  luce
della  sentenza  di  condanna  e  delle  risultanze  peritali,  aveva
disposto, con ordinanza dell'8  ottobre  2012,  l'applicazione  della
misura di sicurezza detentiva della casa di cura e  custodia  per  la
durata di due anni. 
    Nell'ordinanza si dava atto che  il  condannato  soffriva  di  un
disturbo diagnosticato come «discontrollo degli impulsi  in  soggetto
con esiti di trauma cranico», tale da incidere  «sulla  capacita'  di
intendere e volere dello stesso, con conseguente  applicazione  della
diminuente prevista dall'art. 89  c.p.».  Inoltre  si  precisava  che
nella  patologia  riscontrata  era  insito   un   «forte   grado   di
pericolosita', posto che, specie se associata  all'assunzione,  anche
minima, di sostanze alcoliche (cui il M. e' dedito) puo' dar luogo  a
reazioni molto violente e incontrollate» e si aggiungeva che M.S. era
senza  fissa  dimora,  senza  occupazione,  e  privo  di   punti   di
riferimento familiare. 
    Con la successiva ordinanza del 28 febbraio 2014,  il  Magistrato
di sorveglianza  di  Messina  aveva  rigettato  l'istanza  di  revoca
anticipata della misura di sicurezza, precisando tra l'altro, che non
era stato possibile predisporre per  M.S.  «un  progetto  terapeutico
perche' non [era] possibile la presa in carico, non essendo residente
nel territorio». Con provvedimento dell'11 aprile 2014, la  Direzione
dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di  Gotto,
in considerazione delle stabili  condizioni  psichiche  di  M.S.,  lo
aveva ammesso al lavoro esterno ex art.  21  della  legge  26  luglio
1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della liberta'). 
    Il giudice a quo sottolinea che la  richiesta  del  difensore  e'
volta ad ottenere la revoca  anticipata  della  misura  di  sicurezza
detentiva, anche ai fini del rientro nel paese d'origine, o,  in  via
subordinata, l'applicazione della liberta' vigilata. 
    In  punto  di  rilevanza  della  questione,   il   Tribunale   di
sorveglianza  osserva  che  l'impossibilita'  di  utilizzare  a  fini
prognostici dei fattori essenziali, come le  condizioni  individuali,
familiari e sociali e l'assenza di progetti terapeutici  individuali,
incide «in modo determinante e profondamente distorsivo sul  giudizio
in  corso»,  impedendo  una  valutazione  compiuta   della   concreta
pericolosita' sociale di M.S. e del suo grado attuale.  Questi  aveva
dimostrato condizioni psichiche stabili e aveva tenuto  una  condotta
positiva,  partecipando  alle  attivita'  trattamentali  con  valenza
terapeutica, si' da essere ammesso al lavoro ex art. 21  della  legge
n.  354  del  1975.  La  sua  situazione  individuale,  familiare   e
socio-assistenziale pero'  era  «caratterizzata  in  chiave  negativa
dalla lontananza della famiglia residente in Tunisia, dalla  mancanza
di  concreta  prospettiva  lavorativa  e   risocializzante,   essendo
sprovvisto di permesso di soggiorno in quanto scaduto, nonche'  dalla
mancanza  della  presa  in  carico  da  parte  dei  servizi  sanitari
territoriali in quanto non residente e dall'assenza  di  un  progetto
terapeutico e  socio-riabilitativo».  La  prognosi  di  pericolosita'
risulterebbe  pertanto  impossibile  o  radicalmente  alterata,   non
potendosi   considerare   i   fattori   attinenti   alle   condizioni
individuali,  familiari,  socio-assistenziali  e  sanitarie,  con  la
conseguenza di affidare «ad un volontarismo  giudiziario  arbitrario,
cognitivamente inadeguato e teleologicamente disorientato» la  scelta
sulla misura da adottare. 
    Secondo il Tribunale di sorveglianza, «senza un approccio globale
e multifattoriale, garantito dalla normativa previgente ed interdetto
dalla novella legislativa», casi come quello trattato non  potrebbero
trovare soluzioni adeguate, che soddisfino  in  modo  equilibrato  le
diverse esigenze costituzionalmente rilevanti. 
    In punto di non manifesta infondatezza,  il  giudice  rimettente,
richiamando la sentenza di questa Corte n. 253 del 2003, sostiene che
la    normativa    impugnata     e'     priva     «"[del]l'equilibrio
costituzionalmente necessario" "fra  [...]  le  esigenze  di  cura  e
tutela  della  persona  interessata  e   di   controllo   della   sua
pericolosita' sociale"» e viola numerosi articoli della Costituzione. 
    1. Gli artt. 1 e 4 Cost., perche', escludendo la rilevanza a fini
prognostici delle condizioni di vita individuale, familiare e sociale
dell'internato, imporrebbe di non tener conto  dello  svolgimento  (o
meno) di un'attivita' lavorativa, che, invece, costituisce un potente
fattore di prevenzione criminale e di rieducazione,  con  conseguente
rischio di precludere le possibilita' di  accesso  al  lavoro  e  «di
inibirne l'effettivita' dell'esercizio». 
    2. L'art. 2 Cost., in quanto la disposizione censurata, imponendo
al giudice rigidi vincoli che non consentono l'apprezzamento  globale
della   situazione   concreta   della   persona,   con    conseguente
impossibilita' o grave difficolta' nella scelta della misura idonea a
fronteggiare la pericolosita'  sociale,  esporrebbe  a  gravi  rischi
«diritti e beni fondamentali delle persone e della comunita'». 
    3. Il principio di  ragionevolezza  espresso  dall'art.  3  Cost.
Secondo il giudice a quo, infatti, rimettendo in  liberta'  individui
«ritenuti  fino  a  ieri   pericolosi   o   molto   pericolosi»,   si
vanificherebbero le  finalita'  di  difesa  sociale  e  terapeutiche.
Inoltre, si introdurrebbe  una  forma  mascherata  e  surrettizia  di
«presunzione legislativa di pericolosita' (o di non  pericolosita')»,
senza una valida giustificazione scientifica. Infine, non consentendo
di tenere conto delle condizioni di  vita  individuali,  familiari  e
sociali  attuali,  «ancorche'   criminogene   ed   anzi,   anche   se
favorevoli»,   la   norma   impugnata   richiamerebbe   «un   modello
criminologico     tendenzialmente     "unifattoriale"     di     tipo
individualistico»,  invece  che  multifattoriale,  si'  da   spezzare
l'unita' organica del giudizio  prognostico  esaltata  dall'art.  133
cod. pen. 
    Secondo il Tribunale rimettente, una volta escluse le  condizioni
previste dall'art. 133, secondo comma, numero 4), cod. pen.,  e  rese
di per se' irrilevanti ai fini  giudiziali  le  risorse  terapeutiche
territoriali,  residuerebbero  i  fattori  prognostici  immutabili  e
cristallizzati come la gravita'  del  fatto  di  reato,  i  motivi  a
delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la condotta e  la  vita
antecedenti al reato e la  condotta  contemporanea  al  reato,  e  si
ridurrebbero «i fattori prognostici modificabili in progress come  il
carattere del reo previsto dal n. 1  e  la  condotta  susseguente  al
reato  prevista  dal   n.   3,   tuttavia   ormai   devitalizzati   e
decontestualizzati in quanto sganciati dalle condizioni di cui al  n.
4,  che  costituiscono  il  pendant  necessario  di  ogni   dinamismo
evolutivo della personalita' di un  soggetto,  del  suo  carattere  e
della sua condotta». 
    Sarebbe riscontrabile una  violazione  dell'art.  3  Cost.  anche
sotto il profilo della irragionevole ed ingiustificata disparita'  di
trattamento di casi simili, «giacche' nei confronti degli  imputabili
la  pericolosita'  sociale  continua  ad   essere   accertata   nella
globalita' ed interezza dei fattori prognostici, mentre nei confronti
degli inimputabili e  dei  semimputabili  tale  accertamento  risulta
"dimidiato"». 
    4. Gli artt. 25 e 27 Cost., in quanto riducendo la base cognitiva
del giudizio prognostico e prevedendo la durata massima delle  misure
di sicurezza detentive commisurata  al  limite  edittale  della  pena
prevista per  il  reato  corrispondente,  sarebbero  attribuite  alle
misure di  sicurezza  delle  «valenze  retributive  e  punitive»  che
dovrebbero  essere  loro  estranee.  Inoltre  la   nuova   normativa,
disciplinando le misure di sicurezza in corso di  applicazione  o  di
esecuzione, in relazione a reati commessi prima della sua entrata  in
vigore, rischierebbe di  violare  il  principio  di  irretroattivita'
delle disposizioni penali  sfavorevoli,  dato  che  l'esclusione  del
giudizio prognostico delle condizioni di cui  all'art.  133,  secondo
comma, numero 4), cod. pen., «e' ambivalente e potenzialmente  contra
reum e quindi in malam partem». 
    5. Gli artt. 29,  30  e  31  Cost.,  in  quanto  la  disposizione
censurata, imponendo di ignorare l'ambiente  familiare,  costituente,
sia «un potente fattore di prevenzione criminale, in presenza di  una
famiglia sana, accogliente e capace, sia, invece, un potente  fattore
criminogeno, in presenza di una  famiglia  disastrata  o  incapace  o
addirittura dedita al crimine», lederebbe i diritti della famiglia. 
    6. L'art. 32 Cost., in quanto «la rimessione  in  liberta'  o  in
liberta' vigilata, per effetto della  nuova  normativa,  di  soggetti
affetti da patologie psichiatriche  e  bisognevoli  di  assistenza  e
cure, sebbene in condizioni di vita individuale, familiare e  sociale
controindicate, se non criminogene, ed  in  assenza  di  un  progetto
terapeutico individuale», esporrebbe tali  soggetti  al  «rischio  di
commettere non solo  atti  eterolesivi,  ma  anche  atti  autolesivi,
pregiudicando la  loro  salute  ed  il  loro  diritto  a  trattamenti
terapeutici e socio-riabilitativi adeguati». 
    7. L'art. 34  Cost.,  in  quanto,  escludendo  il  rilievo  delle
condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, numero 4), cod.  pen.,
e conseguentemente della frequenza scolastica, la normativa impugnata
lederebbe  «il  diritto  del  soggetto  all'istruzione   scolastica»,
considerato che la scuola, costituendo un  essenziale  strumento  del
trattamento penitenziario, educativo, risocializzante e  terapeutico,
«assume speciale valenza pedagogica e riabilitativa nei confronti dei
soggetti affetti da patologie psichiatriche». 
    8. L'art. 77 Cost., in quanto, nell'ambito dell'iter  legislativo
della conversione di un decreto-legge  che  dispone  la  proroga  del
termine di  chiusura  degli  ospedali  psichiatrici  giudiziari,  non
potrebbe  ravvisarsi  la  necessita'  e   l'urgenza   di   introdurre
«modifiche strutturali di istituti  secolari  come  la  pericolosita'
sociale», indirettamente stravolti dall'intervento  riformatore,  che
spezzerebbero  «il  nesso  di  "interrelazione   funzionale"   e   di
"sostanziale omogeneita'" tra decreto-legge e legge di conversione». 
    9. Infine l'art. 117,  primo  comma,  Cost.,  ed  in  particolare
l'art. 3 della  Dichiarazione  universale  dei  diritti  dell'uomo  e
l'art. 5 della CEDU, che  tutelano  il  diritto  alla  sicurezza,  in
quanto la disposizione censurata esporrebbe a gravi rischi  non  solo
la sicurezza dei cittadini italiani, ma anche la sicurezza di tutti i
cittadini  che   dalle   Convenzioni   internazionali   riceverebbero
protezione giuridica e che, per le  piu'  varie  ragioni,  potrebbero
trovarsi nel territorio dello Stato italiano. 
    2.- Nel giudizio di legittimita' costituzionale e' intervenuto il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che  la  questione
sia dichiarata infondata. 
    Secondo  l'Avvocatura,  le  nuove  disposizioni  mirerebbero   ad
eliminare le  condizioni  giuridiche  che  potrebbero  consentire  la
conferma  dei  giudizi  di   pericolosita'   sociale   di   internati
trascurati, o comunque, non presi in carico  dal  Servizio  sanitario
nazionale, pur  a  fronte  di  quadri  clinici  adeguati  rispetto  a
percorsi terapeutici e riabilitativi extramurari. 
    Entrambe le limitazioni del  giudizio  di  pericolosita'  sociale
censurate costituirebbero norme di favore  a  tutela  della  liberta'
della  persona.  La  novella,  pertanto,  non   giustificherebbe   le
interpretazioni  contra  reum,  paventate  dal  giudice   rimettente.
L'esclusione della rilevanza delle «condizioni  di  cui  all'articolo
133, secondo comma, numero 4, del codice penale» rappresenterebbe una
soluzione, costituzionalmente giustificata,  diretta  a  «scongiurare
violazioni ai diritti di liberta'» dell'infermo o del  seminfermo  di
mente, le cui condizioni di svantaggio sociale potrebbero  essere  il
pretesto per una rimodulazione del tutto particolare del confine  tra
liberta' e custodia. 
    L'Avvocatura  inoltre  sottolinea  che  nella   Relazione   sulle
condizioni di vita e di cura all'interno degli Ospedali  psichiatrici
giudiziari,  approvata  nel  2011  dalla   Commissione   parlamentare
d'inchiesta sull'efficacia  e  l'efficienza  del  Servizio  sanitario
nazionale istituita dal Senato, si era  affermata  la  necessita'  di
porre un argine al fenomeno delle proroghe sistematiche della  misura
di  sicurezza,  basate   su   una   dilatazione   del   concetto   di
pericolosita', in quanto sovente la proroga  della  misura  risultava
disposta  non  gia'  in  ragione  di  una  condizione  soggettiva  di
persistente pericolosita', ma per la carenza di  un'adeguata  offerta
di strutture residenziali e riabilitative esterne. La disposizione di
cui al comma 4 dell'art. 3-ter del decreto-legge 22 dicembre 2011, n.
211 (Interventi urgenti per il  contrasto  della  tensione  detentiva
determinata dal  sovraffollamento  delle  carceri),  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 17 febbraio 2012, n.
9,  che  prevede  che  «le  persone  che  hanno  cessato  di   essere
socialmente pericolose  devono  essere  senza  indugio  dimesse»,  si
riferirebbe proprio a situazioni di tale tipo, cosi' come ad esse  si
riferirebbe la disposizione impugnata. 
    La difesa dello Stato ritiene inesistente  anche  la  prospettata
violazione dell'art. 77 Cost., in quanto  la  disposizione  censurata
sarebbe volta ad arginare il fenomeno dei  soggetti  internati  negli
ospedali psichiatrici giudiziari o nelle case di cura  "dimissibili",
e tuttavia non dimessi per cause non attribuibili alla loro  condotta
ma a inefficienze  dei  servizi  di  salute  mentale  pubblici.  Tale
finalita' sarebbe coerente con l'oggetto del decreto-legge, diretto a
fissare il  termine  per  la  chiusura  degli  ospedali  psichiatrici
giudiziari e a dare inizio al  nuovo  sistema  di  trattamento  delle
persone non imputabili o semimputabili socialmente pericolose. 
    La novella si sarebbe data carico di tutelare la  liberta'  e  la
salute  dell'infermo  o  del  seminfermo  autore  del  reato  con  la
predisposizione, anche nell'interesse della sicurezza collettiva,  di
una serie di misure  volte  a  prestare  un'adeguata  assistenza  sul
territorio, evitando nel contempo  il  pregiudizio  di  un  ulteriore
periodo restrittivo. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 16 luglio 2014 (r.o. n. 247 del  2014),  il
Tribunale di sorveglianza di Messina  ha  sollevato,  in  riferimento
agli artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77  e  117,  primo
comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 5 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955
n. 848, e all'art.  3  della  Dichiarazione  universale  dei  diritti
dell'uomo, proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni  Unite  a
New  York  il  10  dicembre  1948,  una  questione  di   legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31
marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti  in  materia  di  superamento
degli   ospedali   psichiatrici    giudiziari),    convertito,    con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 maggio  2014,  n.
81,  «nelle  parti  in  cui  stabilisce  che   l'accertamento   della
pericolosita'  sociale  "e'  effettuato  sulla  base  delle  qualita'
soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui
all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale"  e  che
"non  costituisce  elemento  idoneo  a  supportare  il  giudizio   di
pericolosita' sociale  la  sola  mancanza  di  programmi  terapeutici
individuali"». 
    Ad avviso del giudice rimettente, la normativa impugnata  avrebbe
violato: 
    1. gli artt. 1 e 4 Cost., in quanto, escludendo  la  rilevanza  a
fini prognostici delle condizioni di vita  individuale,  familiare  e
sociale dell'internato, imporrebbe di non tener conto  dell'attivita'
lavorativa,  che,  invece,  costituisce  «un   potente   fattore   di
prevenzione criminale, ove  il  lavoro  onesto  e'  presente»,  e  di
rieducazione, con conseguente rischio di precludere  le  possibilita'
di accesso al lavoro e «di inibirne l'effettivita' dell'esercizio»; 
    2. l'art. 2  Cost.,  in  quanto  la  disposizione  censurata  non
consente  l'apprezzamento  globale  della  situazione  concreta   del
soggetto, con la  conseguente  difficolta'  di  scegliere  la  misura
idonea a fronteggiare la pericolosita'  sociale,  esponendo  a  gravi
rischi diritti e beni delle persone e della comunita'; 
    3. il principio di  ragionevolezza  espresso  dall'art.  3  Cost.
Secondo il giudice a quo, infatti, rimettendo in  liberta'  individui
«ritenuti  fino  a  ieri   pericolosi   o   molto   pericolosi»,   si
vanificherebbero le  finalita'  di  difesa  sociale  e  terapeutiche.
Inoltre, non consentendo di tenere conto  delle  condizioni  di  vita
individuali, familiari e sociali attuali, «ancorche'  criminogene  ed
anzi, anche se favorevoli», la normativa impugnata richiamerebbe  «un
modello  criminologico  tendenzialmente   "unifattoriale"   di   tipo
individualistico»,  invece  che  multifattoriale,  si'  da   spezzare
l'unita' organica del giudizio prognostico esaltata dall'art. 133 del
codice penale. Sussisterebbe la violazione dell'art.  3  Cost.  anche
sotto il profilo della irragionevole ed ingiustificata disparita'  di
trattamento di casi simili, «giacche' nei confronti degli  imputabili
la  pericolosita'  sociale  continua  ad   essere   accertata   nella
globalita' ed interezza dei fattori prognostici, mentre nei confronti
degli inimputabili e  dei  semimputabili  tale  accertamento  risulta
"dimidiato"»; 
    4. gli artt. 25 e 27 Cost., in quanto riducendo la base cognitiva
del giudizio prognostico e prevedendo la durata massima delle  misure
di sicurezza detentive commisurata  al  limite  edittale  della  pena
prevista  per  il  reato  corrispondente,  la   normativa   impugnata
attribuirebbe alle misure di sicurezza delle «valenze  retributive  e
punitive»,   che   dovrebbero   essere   loro   estranee;    inoltre,
disciplinando le misure di sicurezza relative a reati commessi  prima
della sua entrata in vigore, sarebbe in contrasto con il principio di
irretroattivita'  delle  disposizioni  penali  sfavorevoli,   perche'
l'esclusione  dal  giudizio  prognostico  delle  condizioni  di   cui
all'art. 133, secondo comma , numero 4), cod. pen., «e' ambivalente e
potenzialmente contra reum e quindi in malam partem»; 
    5. gli artt. 29, 30 e 31 Cost., in quanto la normativa impugnata,
imponendo di ignorare l'ambiente familiare, che  costituirebbe,  «sia
un potente fattore di  prevenzione  criminale,  in  presenza  di  una
famiglia sana, accogliente e capace, sia, invece, un potente  fattore
criminogeno, in presenza di una  famiglia  disastrata  o  incapace  o
addirittura dedita al crimine», lederebbe i diritti  della  famiglia,
impedendole di svolgere i suoi compiti; 
    6. l'art. 32 Cost., perche'  «la  rimessione  in  liberta'  o  in
liberta' vigilata, per effetto della  nuova  normativa,  di  soggetti
affetti da patologie psichiatriche  e  bisognevoli  di  assistenza  e
cure, sebbene in condizioni di vita individuale, familiare e  sociale
controindicate, se non criminogene, ed  in  assenza  di  un  progetto
terapeutico individuale», esporrebbe tali  soggetti  al  «rischio  di
commettere non solo  atti  eterolesivi,  ma  anche  atti  autolesivi,
pregiudicando la loro salute»; 
    7. l'art. 34 Cost., in  quanto,  escludendo  la  rilevanza  delle
condizioni di cui all'art. 133, secondo comma, numero 4), cod.  pen.,
e  conseguentemente  della  frequenza  scolastica,  sarebbe  leso  il
diritto  all'istruzione,  particolarmente  significativo  perche'  la
scuola  costituisce   un   essenziale   strumento   del   trattamento
penitenziario, educativo, risocializzante e terapeutico; 
    8. l'art. 77 Cost., in quanto, nell'ambito dell'iter  legislativo
della conversione di un decreto-legge  che  dispone  la  proroga  del
termine di  chiusura  degli  ospedali  psichiatrici  giudiziari,  non
potrebbe  ravvisarsi  la  necessita'  e   l'urgenza   di   introdurre
«modifiche strutturali di istituti  secolari  come  la  pericolosita'
sociale», indirettamente stravolta dall'intervento riformatore, cosi'
spezzando «il nesso di "interrelazione funzionale  e  di  sostanziale
omogeneita' tra decreto-legge e legge di conversione»; 
    9. infine, l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione  all'art.
3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e  all'art.  5
della CEDU, che tutelano il diritto  alla  sicurezza,  in  quanto  la
normativa impugnata esporrebbe «a gravi rischi non solo la  sicurezza
dei cittadini italiani, ma anche la sicurezza di  tutti  i  cittadini
che dalle Convenzioni internazionali ricevono protezione giuridica  e
che, per le piu' svariate ragioni, possono  trovarsi  sul  territorio
dello Stato italiano». 
    2.- La questione  sollevata  dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
Messina non e' fondata. 
    3.- Logicamente preliminare e' la censura  relativa  all'asserita
violazione dell'art. 77,  secondo  comma  Cost.,  che  a  parere  del
Tribunale rimettente si sarebbe verificata perche', senza  necessita'
e urgenza, durante la conversione del d.l. n. 52 del 2014,  sarebbero
stati approvati gli emendamenti  contestati,  che  hanno  determinato
«modifiche strutturali di istituti  secolari  come  la  pericolosita'
sociale», disciplinata dagli artt. 133 e 203 cod. pen., «spezzando il
nesso di "interrelazione funzionale" e di  "sostanziale  omogeneita'"
tra decreto-legge e legge di conversione». 
    La censura e' priva di fondamento. 
    L'art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 52 del 2014, nel testo
risultante  in  seguito  alla  conversione,   ha   apportato   questa
modificazione  al  comma  4  dell'art.  3-ter  del  decreto-legge  22
dicembre 2011, n. 211 (Interventi  urgenti  per  il  contrasto  della
tensione detentiva determinata dal sovraffollamento  delle  carceri),
convertito, con modificazioni dall'art. 1, comma 1,  della  legge  17
febbraio 2012, n. 9: «dopo il primo periodo sono aggiunti i seguenti:
"Il giudice  dispone  nei  confronti  dell'infermo  di  mente  e  del
seminfermo di mente l'applicazione di una misura di sicurezza,  anche
in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale  psichiatrico
giudiziario o in una casa di  cura  e  custodia,  salvo  quando  sono
acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa  non  e'
idonea  ad  assicurare  cure  adeguate  e  a  fare  fronte  alla  sua
pericolosita' sociale, il cui accertamento e' effettuato  sulla  base
delle qualita' soggettive della persona e senza  tenere  conto  delle
condizioni di cui all'articolo 133,  secondo  comma,  numero  4,  del
codice  penale.  Allo  stesso  modo   provvede   il   magistrato   di
sorveglianza quando interviene ai sensi dell'articolo 679 del  codice
di procedura penale. Non costituisce elemento idoneo a supportare  il
giudizio di pericolosita'  sociale  la  sola  mancanza  di  programmi
terapeutici individuali"». 
    In sede di conversione, nell'originario art. 1, comma 1,  lettera
b), del d.l. n. 52 del  2014,  e'  stata  inserita,  dopo  le  parole
«pericolosita'  sociale»,  la  locuzione:  «il  cui  accertamento  e'
effettuato sulla base delle qualita' soggettive della persona e senza
tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma,
numero 4, del codice penale», e, alla fine della lettera b), e' stato
aggiunto il periodo: «Non costituisce elemento idoneo a supportare il
giudizio di pericolosita'  sociale  la  sola  mancanza  di  programmi
terapeutici individuali». 
    Si tratta di emendamenti che integrano l'originaria  disposizione
del decreto-legge con un contenuto normativo del tutto  omogeneo,  e,
completando  la  disposizione,  risultano  ugualmente   necessari   e
urgenti, anche se necessita' e urgenza sono requisiti che  riguardano
le disposizioni del decreto e non i relativi emendamenti (sentenza n.
22 del 2012). 
    Percio',  sotto  ogni  aspetto,  deve  escludersi  la  denunciata
violazione dell'art. 77, secondo comma, Cost. 
    4.- Anche le censure relative all'asserita violazione degli artt.
1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34 e  117,  primo  comma,  Cost.,
quest'ultimo in relazione all'art. 5 della CEDU e  all'art.  3  della
Dichiarazione  universale  dei  diritti  dell'uomo,  sono  prive   di
fondamento. 
    4.1.- Il Tribunale di sorveglianza di  Messina  ha  sollevato  la
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1,  comma  1,
lettera b), del d.l. n. 52 del 2014, «nelle parti in  cui  stabilisce
che l'accertamento della pericolosita' sociale "e'  effettuato  sulla
base delle qualita' soggettive della persona  e  senza  tenere  conto
delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo  comma,  numero  4,
del  codice  penale"  e  che  "non  costituisce  elemento  idoneo   a
supportare il giudizio di pericolosita' sociale la sola  mancanza  di
programmi terapeutici individuali"». 
    Come emerge dal chiaro  tenore  letterale  del  petitum  e  dagli
argomenti sviluppati nell'ordinanza di rimessione, la questione muove
dal presupposto che le  disposizioni  censurate  abbiano  modificato,
relativamente ai «non imputabili e ai semimputabili», la  nozione  di
pericolosita' sociale,  che  costituisce  il  presupposto  soggettivo
delle misure di sicurezza. Infatti nell'ordinanza si sottolinea,  tra
l'altro, che con la normativa introdotta in sede di  conversione  del
citato decreto-legge sono state effettuate «modifiche strutturali  di
istituti secolari come la pericolosita' sociale,  disciplinata  dalle
norme cardinali degli artt. 133 e 203 del codice penale». Si  sarebbe
spezzato,  «a  livello  della  prognosi  giudiziaria,   il   rapporto
inscindibile tra l'uomo  e  l'ambiente  [...]  rinunziando  cosi'  al
dinamismo che da tale rapporto scaturisce [e contrastando] le  stesse
essenziali finalita' delle misure di  sicurezza  sottese  al  sistema
costituzionale». 
    4.2.- E' su questo presupposto interpretativo  che  si  innestano
tutte   le   numerose   censure    d'illegittimita'    costituzionale
sopraindicate, ma si tratta di un presupposto errato. 
    Basta leggere la disposizione impugnata per  comprendere  che  le
frasi  sulle  quali  si  appunta  la  censura   non   riguardano   la
pericolosita' sociale come categoria generale, ma si riferiscono piu'
specificamente alla pericolosita' che legittima il  «ricovero  in  un
ospedale psichiatrico o in una casa di cura». 
    La disposizione esordisce affermando che «il giudice dispone  nei
confronti  dell'infermo  di  mente  e   del   seminfermo   di   mente
l'applicazione di una misura di sicurezza», ed e' chiaro che nel fare
cio' il giudice deve  valutare  la  pericolosita'  sociale  nei  modi
generalmente previsti. E'  solo  per  disporre  il  ricovero  di  una
persona in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura
o di custodia che il giudice  deve  accertare,  «senza  tenere  conto
delle condizioni di cui all'art. 133, secondo comma,  numero  4,  del
codice penale», che «ogni misura diversa non e' idonea ad  assicurare
cure adeguate e a fare fronte alla  sua  pericolosita'  sociale».  La
limitazione quindi non riguarda in generale la pericolosita' sociale,
ma ha lo scopo di riservare le misure estreme,  fortemente  incidenti
sulla liberta' personale, ai soli casi  in  cui  sono  le  condizioni
mentali della persona a renderle necessarie. 
    E' una disposizione da leggere nell'ambito della normativa  volta
al definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. 
    Gli   emendamenti   approvati   durante   la   conversione    del
decreto-legge e contestati dal Tribunale rimettente traggono  origine
dalle osservazioni contenute nella Relazione sulle condizioni di vita
e di cura all'interno degli Ospedali  psichiatrici  giudiziari  della
Commissione parlamentare d'inchiesta  sull'efficacia  e  l'efficienza
del Servizio sanitario nazionale. I suoi lavori si  sono  svolti  nel
corso della  XVI  legislatura  e  sono  significativi  perche'  hanno
dimostrato l'inidoneita' degli  ospedali  psichiatrici  giudiziari  e
delle case di cura e custodia a  garantire  la  tutela  della  salute
mentale di chi vi e' ricoverato od avviato ai sensi degli artt. 222 e
219 cod. pen. 
    Come e' stato chiarito nella relazione  al  Senato,  la  proposta
emendativa tendeva a «impedire all'autorita' giudiziaria di  desumere
la  pericolosita'  sociale  dall'apparente   mancanza   di   adeguate
possibilita' di cura e sistemazione in  stato  di  liberta'».  Si  e'
voluto che l'applicazione della misura di sicurezza  detentiva  possa
«aver luogo o protrarsi solo in base alla specifica valutazione della
situazione  personale  dell'infermo  di  mente»   e   che   non   sia
«conseguenza dello stato di marginalita' socioeconomica in cui questi
verrebbe a trovarsi se dimesso» (Resoconto stenografico, Senato della
Repubblica, 23 aprile 2014). 
    Anche altre disposizioni dell'art. 3-ter del d.l. n. 211 del 2011
sono dirette a favorire l'applicazione di misure  diverse  da  quelle
detentive. In questo senso e' chiaro il sesto comma di tale articolo,
il quale stabilisce che il programma  predisposto  dalle  Regioni  ed
approvato  dai  Ministeri  competenti  deve  prevedere,  oltre   agli
interventi   strutturali,   «attivita'   volte   progressivamente   a
incrementare la realizzazione dei percorsi  terapeutico-riabilitativi
[...]  nonche'  a  favorire  l'esecuzione  di  misure  di   sicurezza
alternative  al  ricovero  in  ospedale  psichiatrico  giudiziario  o
all'assegnazione a casa di cura e custodia». E' chiaro che in  questa
prospettiva l'inefficienza delle amministrazioni sanitarie  regionali
nel predisporre programmi terapeutici individuali non  puo'  tradursi
nell'applicazione  di  misure  detentive,  inutilmente  gravose   per
l'infermo e il seminfermo di mente. 
    E' da aggiungere cha la normativa in questione  appare  in  linea
con la giurisprudenza di questa Corte, che ha dichiarato illegittimi,
sia l'art. 222 cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice,
nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza, idonea  ad
assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a  far  fronte  alla
sua pericolosita' sociale (sentenza n. 253 del 2003), sia l'art.  206
cod. pen., nella parte in cui non consente al giudice di disporre, in
luogo del ricovero  in  un  ospedale  psichiatrico  giudiziario,  una
misura di  sicurezza  non  detentiva  prevista  dalla  legge  per  il
raggiungimento dello stesso obiettivo (sentenza n. 367 del 2004). 
    Cio' posto, e' evidente che  la  disposizione  censurata  non  ha
modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme di mente o
seminferme di mente, la nozione di pericolosita' sociale,  ma  si  e'
limitata ad incidere sui criteri di scelta tra le diverse  misure  di
sicurezza e sulle condizioni per l'applicazione di quelle detentive. 
    L'erroneita' del presupposto interpretativo posto  a  base  della
questione sollevata dal  Tribunale  di  sorveglianza  di  Messina  ne
comporta l'infondatezza in relazione  a  tutti  i  residui  parametri
evocati. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 1, lettera b), del decreto-legge 31 marzo 2014, n.
52 (Disposizioni urgenti in materia  di  superamento  degli  ospedali
psichiatrici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della legge 30 maggio 2014,  n.  81,  «nelle  parti  in  cui
stabilisce  che  l'accertamento  della  pericolosita'   sociale   "e'
effettuato sulla base delle qualita' soggettive della persona e senza
tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma,
numero 4, del codice penale" e che "non costituisce elemento idoneo a
supportare il giudizio di pericolosita' sociale la sola  mancanza  di
programmi terapeutici individuali"», sollevata, in  riferimento  agli
artt. 1, 2, 3, 4, 25, 27, 29, 30, 31, 32, 34, 77 e 117, primo  comma,
della  Costituzione,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  5  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n.  848,  e  all'art.  3
della Dichiarazione  universale  dei  diritti  dell'uomo,  proclamata
dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre
1948, dal Tribunale  di  sorveglianza  di  Messina,  con  l'ordinanza
indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,