Non è condivisibile la qualificazione della perdita del grado ex art. 866, d.lgs. n. 66/2010, come pena accessoria, costituendo essa, per contro, secondo la giurisprudenza costituzionale, un effetto indiretto delle pene accessorie di carattere interdittivo (Consiglio di Stato sez. VI, sentenza 27.01.2014, n. 390).

sul ricorso r.g.a.n. 8680/2012, proposto dal Ministero della difesa, in persona del ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Za. Ma. Ca., rappresentato e difeso dagli avvocati Gabriele Pafundi e Roberta De Petris, con domicilio eletto presso lo studio del primo, in Roma, viale Giulio Cesare, 14a/4;

per la riforma

della sentenza del T.r.g.a. TrentinoAlto Adige, n. 150/2012, resa tra le parti e concernente la perdita del grado;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati, con tutti gli atti e i documenti di causa.

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’appellato Za. Ma. Ca..

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 9 gennaio 2014, il Consigliere Bernhard Lageder e uditi, per le parti, l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino e l’avvocato Gabriele Pafundi.

Ritenuto e considerato, in fatto e diritto, quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con la sentenza in epigrafe, il T.r.g.a. di Bolzano accoglieva il ricorso n. 241/2011, proposto da Za. Ma. Ca., arruolato sin dal febbraio 1987 nell’Arma dei carabinieri, avverso il provvedimento del 24 agosto 2011, con il quale – in relazione alla sentenza della Corte d’appello di Trento n. 98/2009 del 25 marzo 2009, confermata dalla sentenza della Corte di cassazione n. 21351 del 5 maggio 2011, recante la condanna dell’interessato alla pena principale di due anni di e due mesi di reclusione (interamente condonati) ed alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, per i reati di peculato e falso in atto pubblico perpetrati negli anni 2001 e 2002 – nei suoi confronti erano state disposte, senza procedimento disciplinare, ai soli fini giuridici e con decorrenza dal 25 marzo 2009, la perdita del grado e la cessazione dal servizio permanente, ai sensi degli artt. 866 comma 1, 867 comma 5, 923 comma 1 lett. i) e 861 comma 4, d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (codice dell’ordinamento militare), entrati in vigore il 9 ottobre 2010.

La statuizione di accoglimento si basava sulla qualificazione della perdita del grado quale vera e propria pena accessoria e sul conseguente rilievo della violazione del principio d’irretroattività della legge penale sancito dall’art. 25, Cost., con correlativa inapplicabilità del d.lgs. n. 66/2010 ai fatti de quibus, commessi in data anteriore all’entrata in vigore della nuova normativa.

Il T.r.g.a. rilevava, inoltre, che in base alla disciplina previgente, di cui agli artt. 12 comma 2 lett. f) e 34 n. 7), legge 18 ottobre 1961 n. 1168 (norme sullo stato giuridico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri), nel regime risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 363 del 30 ottobre 1996 (dichiarante l’illegittimità costituzionale delle citate disposizioni di legge, nella parte in cui non prevedevano l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio continuativo per perdita del grado, conseguente alla pena accessoria della rimozione (che, di per sé, non comporta la cessazione dal servizio, bensì fa discendere il militare condannato “alla condizione di semplice soldato o militare di ultima classe”), secondo i princìpi già in precedenza affermati dalla giurisprudenza costituzionale e recepiti dall’art. 9, legge 7 febbraio 1990 n. 19), la misura in oggetto non avrebbe potuto essere applicata ex lege, senza previa instaurazione del procedimento disciplinare e correlativa valutazione discrezionale in ordine alla sanzione da adottare, rimessa all’organo investito dei poteri disciplinari.

Il T.r.g.a, sulla base di tali rilievi di natura assorbente, annullava l’impugnata provvedimento con salvezza di ogni ulteriore determinazione dell’amministrazione, a spese interamente compensate tra le parti.

2. Avverso tale sentenza interponeva appello il Ministero soccombente, censurando l’erronea qualificazione della perdita del grado ex art. 866, d.lgs. n. 66/2010, quale pena accessoria ai sensi dell’art. 20, cod. pen., anziché quale effetto indiretto della condanna penale comportante una pena accessoria interdittiva, e la conseguente erronea applicazione dei princìpi in materia di successione delle leggi nel tempo, essendo la condanna divenuta irrevocabile in epoca successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 66/2010, legittimamente applicato alla fattispecie sub iudice.

L’amministrazione appellante chiedeva, dunque, in riforma dell’impugnata sentenza, la reiezione dell’avversario ricorso di primo grado.

3. Costituendosi in giudizio, l’appellato contestava la fondatezza dell’appello, chiedendone il rigetto e riproponendo espressamente i motivi assorbiti in primo grado.

4. All’udienza pubblica del 9 gennaio 2014 la causa veniva trattenuta in decisione.

5. L’appello è fondato.

Non è, in particolare, condivisibile la qualificazione della perdita del grado ex art. 866, d.lgs. n. 66/2010 (o ex artt. 12 comma 2 lett. f) e 34 n. 7), legge 18 ottobre 1961 n. 1168), come pena accessoria, costituendo essa, per contro, secondo la giurisprudenza costituzionale (v., in particolare, Corte cost., sentt. n. 363 del 1730 ottobre 1996 e n. 286 del 59 luglio 1999), un effetto indiretto delle pene accessorie di carattere interdittivo (nella specie, della pena dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici), applicate in relazione alle categorie di reati ivi contemplati, attesa l’evidente incompatibilità, ragionevolamente ritenuta dal legislatore, della persistenza del rapporto di servizio con una misura interdittiva.

È, infatti, la stessa Corte costituzionale ad affermare che il principio della necessaria previa instaurazione del procedimento disciplinare, in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti, “non concerne le pene accessorie di carattere interdittivo, in genere, né l’interdizione dai pubblici uffici, in particolare” (v. Corte cost. n. 286 del 1999 e gli altri precedenti ivi richiamati).

La misura in esame (perdita del grado) non rappresenta, dunque, un effetto penale o una sanzione accessoria alla condanna, bensì un effetto indiretto di natura amministrativa, giustificato dalla fisiologica impossibilità di prosecuzione del rapporto in conseguenza dell’irrogazione di una sanzione di carattere interdittivo, onde, in applicazione della disciplina generale dettata dall’art. 11 delle preleggi sull’efficacia della legge nel tempo, alle procedure amministrative, che si dispieghino in un arco di tempo successivo, si applica la nuova disciplina (a prescindere dal rilievo che, nel caso di specie, le conseguenze rimarrebbero identiche, in quanto secondo il dictum della Corte cost. n. 363 del 1730 ottobre 1996, richiamato nell’impugnata sentenza ma travisato nel suo significato, anche nel quadro legislativo previgente alla misura interdittiva conseguiva l’effetto legale della perdita del grado, senza previo procedimento disciplinare; invero, come accennato sopra sub 1., la citata pronuncia d’illegittimità costituzionale si riferiva ad una fattispecie sanzionatoria di natura non interdittiva).

In questo quadro, l’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato l’effetto ex lege della perdita del grado e della cessazione dal servizio.

Trova, dunque, applicazione il principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l’applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo, in conformità a quanto disposto dall’art. 2187, d.lgs. n. 66/2010, secondo cui solo i “procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente codice e del regolamento rimangono disciplinati dalla previgente normativa”, per cui, essendosi nel caso di specie il procedimento per l’applicazione dell’effetto legale della perdita del grado instaurato in epoca successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 66/2010 (su segnalazione ex art. 662, cod. proc. pen., della Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Trento, in data 17 maggio 2011), legittimamente con l’impugnato provvedimento, a contenuto vincolato, è stata applicata la disciplina di cui agli artt. 866 comma 1, 867 comma 5, 923 comma 1 lett. i) e 861 comma 4, d.lgs. n. 66/2010.

Le considerazioni che precedono impongono, in accoglimento del gravame e in riforma dell’appellata sentenza, il rigetto del ricorso di primo grado, ivi compresi i motivi assorbiti, presupponenti la qualificazione in termini sanzionatori/disciplinari dell’effetto legale della perdita del grado, smentita dalla citata giurisprudenza costituzionale, con salvezza degli atti ivi gravati e conseguente manifesta infondatezza anche delle questioni d’illegittimità costituzionale sollevate nei motivi assorbiti.

6. Considerate le alterne vicende connotanti la presente controversia, si ravvisano i presupposti di legge per dichiarare le spese del doppio grado di giudizio interamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione VI), accoglie l’appello (r.g.n. 8680/2012), riforma l’impugnata sentenza, respinge il ricorso di prima istanza e compensa tutti gli oneri del doppio grado di giudizio tra le parti costituitevi.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 9 gennaio 2014, con l’intervento dei giudici:

Aldo Scola, Presidente FF