Pagare la cartella salva dalla pena (Corte di Cassazione penale, sez. III, sentenza 15.05.2015, n. 19334).

Il pagamento della cartella contenente la sanzione applicata in relazione all’imposta evasa pari al 30%, potrebbe assolvere l’imputato dal reato di cui all’art. 10 bis del D.Lgs n. 74/2000 (omesso versamento di ritenute certificate).

Con un’importante sentenza, n. 19334 dell’11 maggio 2015, la Corte di Cassazione -Terza Sezione Penale, sebbene non ha accolto le doglianze del ricorrente, condannato per il reato di cui all’art. 10 bis del D.Lgs n. 74/2000, in merito alla violazione del principio del ne bis in idem per la sanzione amministrativa e la sanzione penale , sulla base della motivazione che “in sede di legittimità, è precluso l’accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito (Sez. 2, n. 2662 del 15/10/2013 – dep. 21/01/2014, Galiano, Rv. 258593), tuttavia, ha affrontato l’importante questione di tale divieto.

Nello specifico, il ricorrente aveva sollevato tra i motivi di ricorso la violazione della norma processuale di cui all’art. 649 c.p.c. che, come noto, testualmente dispone: <<L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.

Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo>>.

La censura era relativa a quella parte della sentenza in cui la Corte d’Appello aveva confermato la responsabilità del ricorrente per il delitto di cui all’art. 10 bis del D.Lgs n. 74/2000, nonostante lo stesso, in data antecedente all’instaurazione del procedimento penale, fosse stato già sanzionato in via amministrativa dall’Agenzia delle Entrate per la medesima violazione, a seguito del pagamento della cartella esattoriale con la sanzione applicata in relazione all’imposta evasa pari al 30%.

Al riguardo, si poneva in evidenza come vi era una sostanziale identità di oggetto tra procedimento amministrativo e procedimento penale pendente a carico del ricorrente, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p., come delineato dalle decisioni della Corte e.d.u. Grande Stevens c. Italia 4/03/2014 e Nikanen c. Finlandia 20/05/2014, in virtù della natura sostanzialmente penalistica della sanzione amministrativa comminata dall’Agenzia delle Entrate.

Come innanzi, detto, nonostante il rigetto del ricorso per impossibilità di analizzare la questione fattuale della violazione del principio del ne bis in idem sollevata innanzi alla Corte di Cassazione, alla quale è precluso un siffatto esame, i giudici di legittimità hanno, comunque, sottolineato come la Corte e.d.u. si sia pronunciata condannando la violazione del ne bis in idem in relazione al doppio binario penale-amministrativo previsto in materia tributaria.

Peraltro, sottolinea la Suprema Corte, l’orientamento della Corte e.d.u. è ormai consolidato e “non è il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem di cui all’art 4 prot. n. 7della Convenzione, bensì l’identicità materiale e naturalistica del fatto. Poco, importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicità. Ciò che conta, per ritenere violato il divieto, è che l’effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto.”.

Al riguardo, inoltre, si rileva come ora sulla questione della doppia sanzione, penale e fiscale, è stata chiamata in causa la Corte costituzionale.

Ed infatti, sia la Corte di Cassazione, Sez. trib. civ., con ordinanza del 21/01/2015, n. 950 sia la Corte di Cassazione, Sez. V pen., con ordinanza del 15/01/2015, n. 1782 hanno rinviato gli atti alla Corte Costituzionale.

In particolare, la Sezione tributaria civile della Cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter D.lgs. 58/1998 (che configura l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato), evidentemente per contrasto con l’art. 117 co. 1 Cost. (in riferimento agli articoli 2 e 4 del Prot. 7 CEDU, così come interpretati dalla Corte EDU del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens).

Del pari, la Corte di Cassazione Penale, con la precitata ordinanza, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative che prevedono la duplicazione punitiva, penale e amministrativa, in materia di market abuse, a seguito della definitività della sentenza Grande Stevens della Corte europea dei diritti dell’uomo – che, come innanzi detto, ha inequivocabilmente dichiarato il contrasto tra il doppio binario sanzionatorio e il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 4 del Protocollo 7 della Cedu.
Nello specifico, la Corte di Cassazione Sezione Penale, a pagina 19 della citata sentenza, ha così espressamente avuto modo di affermare: << Pertanto, devono dichiararsi rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento all’articolo 117 Cost., comma 1, in relazione all’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Cedu, le questioni di legittimita’ costituzionale dell’articolo 187-bis, comma 1, TUF nella parte in cui prevede “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” anziché’ “Salvo che il fatto costituisca reato” (in via principale) e dell’articolo 649 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Cedu e dei relativi Protocolli (in via subordinata), con le ulteriori statuizioni indicate in dispositivo.>>.

Si attende, di conseguenza, sulla questione la pronuncia della Corte Costituzionale.

sentenza

sul ricorso proposto da:

– A.M., n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di TORINO in data 5/05/2014;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FIMIANI Pasquale, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Svolgimento del processo

1. A.M. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di TORINO emessa in data 5/05/2014, depositata in data 12/05/2014, con cui veniva parzialmente riformata la sentenza del tribunale di TORINO del 9/04/2013, assolvendolo dal reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, e rideterminando la pena per il residuo reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, nella misura di mesi 8 di reclusione, ferme restando le attenuanti generiche già riconosciute e i doppi benefici di legge, riducendo l’importo della confisca fino alla concorrenza di Euro 102.210,82, somma contestata per il reato di omesso versamento di ritenute certificate (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, contestato come commesso in data (OMISSIS), secondo le modalità esecutive e spazio temporali meglio descritte nell’imputazione sub b);

l’impugnata sentenza, confermava, nel resto, le statuizioni del primo giudice quanto alle pene accessorie inflitte D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12, ed alla pubblicazione della sentenza sul sito web del Ministero della Giustizia.

2. Con il ricorso, proposto dal difensore fiduciario cassazionista Avv. A. Vercelli, vengono dedotti due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), per violazione della norma processuale di cui all’art. 649 c.p.p.

La censura (più correttamente da qualificarsi come evocante il vizio dell’art. 606 c.p.p., lett. c)) investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello confermato la responsabilità del ricorrente per il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, nonostante in data antecedente all’instaurazione del procedimento penale questi fosse già stato sanzionato in via amministrativa dall’Agenzia delle Entrate per la medesima violazione, come emergerebbe dalla copia della cartella di pagamento allegata al ricorso, da cui si evincerebbe che la sanzione applicata in relazione all’imposta evasa è pari al 30% dell’importo evaso e, dunque, pari ad Euro 30.663,246 su un’omissione di Euro 102.210,82 oltre interessi e sanzioni, per un importo complessivo pari ad Euro 132.874,066; vi sarebbe, dunque, una sostanziale identità di oggetto tra il procedimento amministrativo e quello penale pendente a carico del ricorrente, con conseguente violazione del principio del ne bis in idem sancito dall’art. 649 c.p.p., come delineato dalle decisioni della Corte e.d.u. Grande Stevens c. Italia 4/03/2014 e Nikanen c. Finlandia 20/05/2014; non sembrerebbe esservi dubbio, secondo il ricorrente, sulla natura sostanzialmente penalistica della sanzione amministrativa comminata all’Andreatta, atteso che la sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, è pari al 30% dell’importo evaso; quanto, ancora, all’identità di condotta oggetto dei due procedimenti a suo carico, non sembra al ricorrente potersi ravvisare una sostanziale ed effettiva differenza tra l’omesso versamento del tutto e l’omesso versamento delle porzioni del tutto; per una corretta applicazione del principio del ne bis in idem, dovrebbe operarsi non un confronto in astratto tra le due fattispecie (come ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte di cui viene richiamata la sentenza n. 20266/2014), ma un confronto in concreto, criterio adottato dalla Corte e.d.u.; incombendo sul legislatore nazionale ex art. 117 Cost., l’obbligo di adeguarsi ai principi posti dalla Convenzione e.d.u. nell’interpretazione giudiziale della Corte e.d.u. (obbligo incombente sul giudice comune, come affermato dalla Corte Cost. n. 317 del 2009), il ricorrente chiede pertanto annullarsi l’impugnata sentenza in quanto la condanna del medesimo per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, già amministrativamente sanzionato, è lesivo dell’art. 649 c.p.p., e artt. 4 e 7 della Convenzione e.d.u..

2.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), per mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione dell’impugnata sentenza in ordine alla determinazione della pena sicuramente eccessiva.

La censura (più correttamente da qualificarsi come evocante il vizio dell’art. 606 c.p.p., lett. e)) investe l’impugnata sentenza per aver la Corte d’appello apparentemente motivato in ordine all’incidenza della comprovata crisi economica dell’azienda di cui il ricorrente è legale rappresentante nella rideterminazione della pena inflitta dal primo giudice; in sostanza, pur avendo la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza della crisi economica della società, ha ritenuto quest’ultima inidonea ad influire sulla riduzione della pena, senza fornire tuttavia alcuna spiegazione specifica sull’asserita inidoneità, non potendo valere come giustificazione il riferimento al “notevole importo delle somme evase”; ed invero, si sostiene in ricorso, una volta riconosciute la comprovate difficoltà economiche, la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire un’argomentazione che prescindesse dall’entità delle somme evase, atteso che la crisi economica non può che ripercuotersi in maniera direttamente proporzionale sui debiti della società stessa.

3. Il difensore di fiducia del ricorrente formula, infine, in forza della procura speciale allegata al ricorso, istanza di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, previsto dal nuovo art. 168 bis c.p.p., sollevando, in subordine, questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis c.p.p., per violazione dell’art. 3 Cost.

Premette il ricorrente che, alla data dell’udienza svoltasi davanti alla Corte territoriale, non era ancora entrata in vigore la L. n. 67 del 2014, che ha introdotto il nuovo istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova ex art. 168 bis c.p.p.; si pone quindi la questione se, in base alla formulazione dell’art. 464 bis c.p.p., comma 2, detto istituto possa trovare applicazione – in assenza di norme transitorie per i processi pendenti alla data del 17 maggio 2014 che si trovino nella fase processuale successiva a quella indicata dal comma secondo della citata norma – anche nella fase dei giudizio di legittimità; sostiene il ricorrente che una interpretazione costituzionalmente orientata della nuova disciplina processuale, ai sensi dell’art. 3 Cost., dovrebbe consentire al ricorrente di proporre la richiesta di sospensione anche davanti a questa Corte.

In difetto, ove si ritenga di dover escludere l’accesso all’istituto della sospensione nella fasi successive a quelle indicate dall’art. 464 bis c.p.p., tale ultima disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., avendo il legislatore irragionevolmente operato una disparità di trattamento fra gli imputati il cui processo risulta pendente in primo grado nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento e gli imputati il cui processo si trova in fase avanzata rispetto a quella individuata dal legislatore; si formula, pertanto, in subordine, la eccezione di incostituzionalità dell’art. 464 bis c.p.p., per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, evidenziando come la questione sarebbe rilevante, attesi gli effetti che l’ammissione alla sospensione del procedimento per la messa alla prova comporterebbe a vantaggio del ricorrente.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è infondato e dev’essere pertanto rigettato.

4. Seguendo l’ordine sistematico imposto dalla struttura dell’impugnazione di legittimità dev’essere, anzitutto, esaminato il primo motivo di ricorso, con cui il ricorrente eccepisce la violazione del principio del ne bis in idem, sostenendo di essere già stato amministrativamente sanzionato ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, (sanzione pari al 30% della somma di cui era contestato l’omesso versamento pari ad Euro 102.210,82). A sostegno dell’assunto, il ricorrente allega al ricorso una copia del ruolo Equitalia (cartella di pagamento n. (OMISSIS) dell’importo di Euro 311.419,51 da versarsi entro 60 giorni dalla notifica). Come anticipato, il ricorrente sostiene che, in base alla giurisprudenza della Corte e.d.u. (in particolare il riferimento è alla sentenza Grande Stevens e. Italia), si verserebbe in un caso di ne bis in idem, avendo già subito la sanzione amministrativa pecuniaria, donde la pena inflitta si risolverebbe in un’illegittima duplicazione. Il motivo è infondato per un duplice ordine di ragioni.

4.1. Anzitutto, per un motivo processuale.

Ritiene il Collegio di dover aderire all’orientamento giurisprudenziale più avveduto secondo cui non è deducibile dinanzi alla Corte di cassazione la violazione del divieto del “ne bis in idem”, in quanto è precluso, in sede di legittimità, l’accertamento del fatto, necessario per verificare la preclusione derivante dalla coesistenza di procedimenti iniziati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona, e non potendo la parte produrre documenti concernenti elementi fattuali, la cui valutazione è rimessa esclusivamente al giudice di merito (Sez. 2, n. 2662 del 15/10/2013 – dep. 21/01/2014, Galiano, Rv. 258593).

Il Collegio è consapevole dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto (v., da ultimo, in senso difforme dall’orientamento qui seguito: Sez. 5, n. 44854 del 23/09/2014 – dep. 27/10/2014, Gentile e altro, Rv. 261311; Sez. 2, n. 33720 del 08/07/2014 – dep. 30/07/2014, Nerini, Rv. 260346; Sez. 6, n. 44632 del 31/10/2013 – dep. 05/11/2013, Pironti, Rv. 257809), il quale ritiene che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolve in un “error in procedendo” che, in quanto tale, consente al giudice di legittimità l’accertamento di fatto dei relativi presupposti, ma ritiene tuttavia più rispondente alla ratio del giudizio di legittimità e correlato ai limitati poteri cognitivi della Suprema Corte, che sia preferibile il primo orientamento.

4.2. Ed invero, il principio del ne bis in idem sostanziale di cui all’art. 649 c.p.p. (che non va confuso con il principio del ne bis in idem processuale previsto dall’art. 669 c.p.p.) non trova una copertura testuale nella Costituzione italiana, bensì nelle fonti internazionali di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo (in particolare: art. 4 1, VII Protocollo, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e l’art. 14, 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici). Infatti, due sono le principali e più dirette conseguenze della irrevocabilità della sentenza: 1) una negativa, ed è il divieto di un secondo giudizio per lo stesso fatto quando una persona è stata, in relazione ad esso, già condannata o prosciolta; 2) l’altra, positiva, è la forza esecutiva della decisione. Il disposto di cui all’art. 649 c.p.p., ha un’efficacia preclusiva, impedisce cioè la celebrazione di un nuovo processo per il medesimo fatto che sia già oggetto di una decisione irrevocabile ed impone al giudice di pronunciare in ogni stato e grado del processo sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ex art. 129 c.p.p.

E’ evidente, dunque, che al fine di poter dichiarare come esistente un divieto di secondo giudizio è necessario il soddisfacimento di ambedue i requisiti sopra descritti. Ed è altrettanto evidente che, soprattutto al fine di accertare la esistenza del primo di essi (ossia che si tratti del “medesimo fatto”), è necessario lo svolgimento di apprezzamenti fattuali che esulano dalle possibilità di accertamento “fattuale” consentite alla Suprema Corte di Cassazione nei casi indicati dall’art. 606 c.p.p., lett. c).

Il principio, sostenuto dall’orientamento disatteso da questo Collegio, per cui il divieto del ne bis in idem può essere rilevato anche in sede di legittimità, infatti, deve essere raccordato alla norma che limita la cognizione della Corte di cassazione, oltre i confini del devolutum, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto (art. 609 c.p.p., comma 2. Nel giudizio di legittimità, infatti, è consentito, ex art. 609 c.p.p., comma 2, superare i limiti del devolutum e della ordinaria progressione dell’impugnazione, oltre che di quelli di ammissibilità dei motivi nuovi da proporre nel ristretto ambito dei capi e dei punti oggetto del gravame, soltanto per violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello e per questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili in ogni stato e grado del giudizio.

Ne consegue, dunque, a differenza della possibilità di apprezzamento “fattuale” richiesta per il sindacato del ne bis in idem processuale di cui all’art. 669 c.p.p., non possono diversamente essere proposte, nel giudizio di legittimità, questioni attinenti al sindacato della violazione del divieto del ne bis in idem sostanziale dettato dall’art. 649 c.p.p., la cui valutazione richiede accertamenti di merito (ossia l’apprezzamento che si tratti del medesimo “fatto”, inteso in senso non processuale, ma sostanziale, ossia come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, facendo riferimento tale espressione all'”identità storico- naturalistica del reato, in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell’evento e nel rapporto di causalità, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”: Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005 – dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) che, come tali, devono essere necessariamente svolti nel giudizio di merito, salva la possibilità di sindacare i relativi provvedimenti, mediante un successivo ricorso per cassazione, nei limiti segnati dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e).

4.3. Si noti, in ogni caso, che quand’anche si fosse ritenuto preferibile il secondo orientamento, il motivo di ricorso sarebbe stato comunque da rigettare, non avendo provveduto il ricorrente ad allegare al ricorso la prova della definitività dell’accertamento tributario, ossia quella dell’avvenuto pagamento (oltre che della somma di cui era stato omesso il versamento all’Erario) della sanzione amministrativa irrogata dall’Amministrazione finanziaria, condizione questa imprescindibile e che sarebbe idonea a determinare la preclusione, costituendo ciò un onere che anche le decisioni a sostegno dell’opposto orientamento richiedono debba essere soddisfatto dall’interessato (si afferma, infatti, che “E’ deducibile nel giudizio di cassazione la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, fermo restando l’onere del ricorrente di allegare la sentenza irrevocabile che la determina, atteso che la violazione del divieto del “bis in idem” si risolve in un “error in procedendo”, che, in quanto tale, consente al giudice di legittimità l’accertamento di fatto dei relativi presupposti”: Sez. 6, n. 44484 del 30/09/2009 – dep. 19/11/2009, P., Rv. 244856).

4.4. V’è poi un motivo di ordine sostanziale.

Deve, infatti, essere ricordato quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui il reato di omesso versamento di ritenute certificate (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis), che si consuma con il mancato versamento per un ammontare superiore ad Euro cinquantamila delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale, non si pone in rapporto di specialità ma di progressione illecita con il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1, che punisce con la sanzione amministrativa l’omesso versamento periodico delle ritenute alla data delle singole scadenze mensili, con la conseguenza che al trasgressore devono essere applicate entrambe le sanzioni (Sez. U, n. 37425 del 28/03/2013 – dep. 12/09/2013, Favellato, Rv. 255759).

Peraltro, questa Stessa Corte, anche se in data antecedente alla sentenza Grande Stevens e. Italia, si era pronunciata nel senso di ritenere che l’azione penale non è preclusa ai sensi dell’art. 649 c.p.p., in seguito alla irrogazione definitiva di una sanzione amministrativa per il medesimo fatto per il quale si procede (Sez. 1, n. 19915 del 17/12/2013 – dep. 14/05/2014, P.C. in proc. Gabetti e altro, Rv. 260686).

Orbene, ritiene il Collegio che proprio la mancanza di qualsiasi prova della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa preclude la possibilità di valutazione dell’invocata richiesta di applicazione del principio del ne bis in idem “convenzionale”, pur dovendosi riconoscere che, in subiecta materia, il tema sia indubbiamente rilevante, emergendo invero non irrilevanti dubbi di compatibilita con la normativa Eurounitaria (v. da ultimo, anche C. eur. dir. uomo, Quarta Sezione, sentenza 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia), che l’illecito amministrativo di cui al citato art. 13 e quello penale possano avere ad oggetto sostanzialmente il medesimo fatto, rendendo ingiustificata la duplicità di sanzioni in caso di ritenute che superino la soglia.

E’ ormai noto che la Corte e.d.u. ha pronunciato condanne per la violazione del ne bis in idem in relazione al doppio binario penale- amministrativo previsto in materia tributaria. Si tratta di un orientamento ormai consolidato della Corte EDU v. Nikanen c. Finlandia; Lucky Dev c. Svezia; v. anche Hakkà c. Finlandia, Glantz c. Finlandia, Pirttimaki c. Finlandia. E ciò non tanto in relazione alla nozione di matière penale, i cui criteri di identificazione sono i medesimi da quasi quarant’anni, ma in riferimento al concetto di medesimo fatto. A partire dal revirement giurisprudenziale del 2009, con la sentenza Zolotukhin c. Russia, la Corte, per valutare se le due sanzioni di natura penale avessero ad oggetto il medesimo fatto, ha abbandonato ogni riferimento alla fattispecie incriminatrice. Non è il tipo legale a guidare il giudizio sul principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 prot. n. 7 della Convenzione, bensì l’identicità materiale e naturalistica del fatto. Poco importa, dunque, che le fattispecie (penal-amministrativa e penale) si differenzino sul piano della tipicità. Ciò che conta, per ritenere violato il divieto, è che l’effetto si risolva nella doppia punizione del medesimo fatto concreto.

4.5. Dubita, però, questo Collegio che – ostando all’applicabilità dell’art. 649 c.p.p., oltre che la non deducibilità davanti a questa Corte del ne bis in idem per le ragioni anzidette, anche la prova, nel caso in esame, della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa – possa, da un lato, essere seguita la via del ricorso pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia U.E. e, dall’altro, la via della questione di costituzionalità.

Consta a questa Corte, infatti, che recentemente il Trib. Torino, 4^ sez. pen., con ordinanza del 27 ottobre 2014 ha ritenuto fondato il dubbio di conformità ai recenti arresti della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di ne bis in idem e ha deciso di operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ponendo la seguente questione interpretativa:

“se, ai sensi degli artt. 4 Prot. n. 7 CEDI) e 50 CDFUE, sia conforme al diritto comunitario la disposizione di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, nella parte in cui consente di procedere alla valutazione della responsabilità penale di un soggetto il quale, per lo stesso fatto (omissione versamento delle ritenute), sia già stato destinatario della sanzione amministrativa irrevocabile di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, (con l’applicazione di una sovrattassa)”.

Il caso oggetto dell’ordinanza del Tribunale di Torino è quello – sostanzialmente analogo a quello oggetto di esame da parte di questa Corte – dell’illecito di omesso versamento delle ritenute d’imposta, sanzionato sia dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, che prevede l’applicazione di una sovrattassa a titolo di sanzione amministrativa, sia dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, che commina invece, per il mancato pagamento del medesimo debito tributario, una pena detentiva (la reclusione da sei mesi a due anni).

Come è già stato puntualmente rilevato in dottrina, il sistema sanzionatorio in esame – assestato sul cumulo tra sanzioni tributarie e penali – pone effettivamente più che ragionevoli dubbi di compatibilita con la dimensione Europea del principio di ne bis in idem, non solo alla luce della sentenza Grande Stevens, ma anche, più specificamente, della sentenza Nykanen c. Finlandia, che ha riconosciuto la qualifica “sostanzialmente penale” – quale presupposto per l’operatività del diritto fondamentale a non essere giudicato e punito due volte per il medesimo fatto – anche al procedimento tributario e alle relative sanzioni (v. Corte EDU, 20 maggio 2014, Nykanen c. Finlandia).

Ciò che desta perplessità, come peraltro correttamente sostenuto da certa dottrina, è tuttavia la decisione di chiamare in causa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. E’ senz’altro vero che il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche nel diritto dell’Unione Europea, sulla base della espressa previsione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE);

ed è parimenti vero che, ai sensi dell’art. 52 CDFUE, il contenuto del suddetto art. 50 debba essere ricostruito sulla base del corrispondente principio convenzionale, e quindi anche in forza della giurisprudenza della Corte Europea sull’art. 4 Prot. 7 CEDU. Può tuttavia convenirsi con chi ragionevolmente dubita che la specifica fattispecie oggetto del giudizio rientri nell’ambito applicativo del diritto dell’Unione e, conseguentemente, che la Corte di Giustizia sia competente a pronunciarsi sul caso (rammentandosi, infatti, che ai sensi dell’art. 51 CDFUE, la Carta può trovare applicazione solo quando gli Stati membri “agiscono nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione”: cfr. CGUE, 26 febbraio 2013, C-399/11, Melloni). Ad eccezione, infatti, della particolare normativa in materia dell’IVA, che rientra nel campo attuativo del diritto UE – come precisato dalla sentenza Fransson della Corte di Lussemburgo – la materia erariale, alla quale sono ascrivibili gli illeciti tributari oggetto della vicenda in esame, ha infatti una dimensione esclusivamente nazionale, che la sottrae all’applicazione del sistema “Eurounitario” di tutela dei diritti fondamentali.

In merito alla duplicazione sanzionatoria dell’illecito di omesso versamento delle ritenute certificate, pertanto, l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem è necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. (in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU), analoga a quella recentemente sollevata da questa Corte sia in sede penale che in sede civile per censurare il doppio binario punitivo in materia di abusi di mercato (Sez. 5^ penale, ordinanza 10 novembre 2014 – dep. 15 gennaio 2015, n. 1782, Chiaron, non ufficialmente massimata; Sez. 5^ civile, ordinanza 6 novembre 2014 – dep. 21 gennaio 2015, n. 950, Garlsson Real Estate SA in liquidazione, Ricucci S., Magiste International SA c. Consob, non ufficialmente massimata), sempre che si ritenga possibile sollevare davanti a questa Corte la violazione del divieto del ne bis in idem (soluzione, come detto, non condivisa da questo Collegio), non essendo allo stato comunque praticabile – per le ragioni implicitamente desumibili dalla richiamata ordinanza della Quinta Sezione penale di questa Corte – un’interpretazione conforme al diritto sovranazionale dell’art. 649 c.p.p., in modo da estenderne tout court la portata – al di là dei suoi limiti letterali – anche all’ipotesi in cui il fatto sia già stato giudicato in via definitiva nell’ambito di un procedimento formalmente qualificato come amministrativo, ma di natura sostanzialmente “punitiva” secondo i noti criteri elaborati dalla giurisprudenza di Strasburgo.

Esclusa, quindi, la possibilità di un rinvio pregiudiziale per le ragioni anzidette, è peraltro da escludersi anche la possibilità di sollevare d’ufficio questione di costituzionalità, atteso che, non solo la impossibilità di valutare in sede di legittimità il dedotto ne bis in idem, ma anche la più volte richiamata mancanza di prova della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa, rendono del tutto priva di rilevanza la questione nel presente giudizio.

5. Può, quindi, procedersi all’esame del secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente deduce – come anticipato in sede di illustrazione del motivo – la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla determinazione della pena; in sintesi, la Corte territoriale, nel rideterminare il trattamento sanzionatorio si è riferita, per graduarlo, al materiale importo delle somme non versate; l’aver, però, secondo il ricorrente, riconosciuto i giudici di secondo grado come “comprovata” la crisi della società, avrebbe imposto alla Corte d’appello di dover individuare altri argomenti per negare la riparametrazione verso il basso del trattamento sanzionatorio.

Il motivo è manifestamente infondato.

Ed invero, è sufficiente per valutarne l’inammissibilità il mero richiamo alla cornice edittale prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis, che il legislatore ha determinato nel minimo di mesi 6 di reclusione e nel massimo di anni 2 di reclusione. Orbene, la pena irrogata, considerato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, è di 8 mesi di reclusione. Il giudice di merito è, quindi, partito dalla pena base di un anno di reclusione, ossia individuando la pena base in misura inferiore al c.d. medio edittale (pari ad 1 anno e 3 mesi di reclusione).

Ne consegue, dunque, che la Corte territoriale non era vincolata, in base alla più recente e condivisibile giurisprudenza di questa Corte, all’obbligo di fornire una motivazione “rafforzata” sul trattamento sanzionatorio. Si è, infatti, affermato che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (v., tra le tante: Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013 – dep. 17/05/2013, Serratore, Rv. 256197).

Peraltro, si aggiunge, nessuna illogicità è ravvisabile nell’affermazione della Corte territoriale, atteso che, nel negare una rideterminazione “al ribasso” del complessivo trattamento sanzionatorio, i giudici di appello si sono riferiti ad un dato oggettivo e non contestabile, costituito dalla “notevole entità” della somma di cui si contesta l’omesso versamento, trattandosi di un importo pari al doppio della somma indicata dalla legge quale soglia di punibilità del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 bis: dato oggettivo che, richiamato dai giudici territoriali a giustificazione del diniego della riduzione della pena, non si pone, nel ragionamento seguito, come incompatibile con la riconosciuta difficoltà economica dell’impresa, tenuto conto anche del principio che non sussiste alcun diritto dell’imputato a vedersi infliggere il minimo edittale previsto dalla norma la cui violazione è accertata (v., tra le tante: Sez. 1, n. 1635 del 08/10/1981 – dep. 18/02/1982, Lacaze, Rv. 152330).

6. Devono, infine, essere esaminate sia la richiesta di applicazione dell’istituto della sospensione per messa alla prova nonchè la relativa questione di costituzionalità c.s. illustrata.

Ambedue le richieste sono prive di pregio.

Ed invero, quanto alla prima, questa Corte ha già avuto più volte modo di pronunciarsi affermando che nedimento con la messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p., nè può altrimenti sollecitare l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice di merito, perchè il beneficio dell’estinzione del reato, connesso all’esito positivo della prova, presuppone lo svolgimento di un “iter” processuale alternativo alla celebrazione del giudizio (Sez. F, n. 42318 del 09/09/2014 – dep. 10/10/2014, Valmaggi, Rv. 261096, che ha anche evidenziato come, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 263 del 2011, non è configurabile alcuna lesione del principio di retroattività della “lex mitior”, che imponga, nonostante la mancanza di disposizioni transitorie, l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova nei giudizi di impugnazione pendenti alla data della sua entrata in vigore; nello stesso senso, Sez. F, n. 35717 del 31/07/2014 – dep. 13/08/2014, Ceccaroni, Rv. 259935). Quanto, poi, alla questione di costituzionalità, la stessa è già stata negativamente valutata da questa stessa Corte, ritenendo manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 464 bis c.p.p., comma 2, per contrasto all’art. 3 Cost., nella parte in cui non consente l’applicazione dell’istituto della sospensione con messa alla prova ai procedimenti pendenti al momento dell’entrata in vigore della L. 28 aprile 2014, n. 67, quando sia già decorso il termine finale da esso previsto per la presentazione della relativa istanza, in quanto trattasi di scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore e non palesemente irragionevole, come tale insindacabile (Sez. 6, n. 47587 del 22/10/2014 – dep. 18/11/2014, Calamo, Rv. 261255).

7. Il ricorso dev’essere, complessivamente, rigettato. Segue, a norma dell’articolo 616 e.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Per completezza, quanto al termine di prescrizione, poichè il reato de quo era relativo all’omesso versamento di ritenute certificate in relazione alla dichiarazione del sostituto d’imposta 2008 (dunque riferita al periodo di imposta 2007), il dies a quo è individuabile nel 30/09/2008, termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno precedente, donde la prescrizione maturerà interamente alla data del 30/03/2016, ossia tra più di un anno rispetto alla data della presente decisione.

P.Q.M.

La Corte dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di costituzionalità.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Suprema Corte di Cassazione, il 11 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 11 maggio 2015