Perequazione delle pensioni per ex militari ed ex dipendenti pubblici – Adeguamento con i dipendenti in servizio (Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Puglia, Sentenza 23 gennaio 2018, n. 53).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DEI CONTI

SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE PUGLIA

IN COMPOSIZIONE MONOCRATICA

Il G.U.P.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso, iscritto al n. 32507 del registro di segreteria, proposto dal Sig.re XXX ( n. a XXX il XXX ) – rapp.to e difeso dall’avv. Franco Orlando, giusta mandato in calce al presente atto.

contro

I.N.P.S. – Gestione Ex I.N.P.D.A.P. , in persona del legale rappresentante p.t.;

Ministero degli Interni, in persona del Ministro p.t.;

Ministero dell’Istruzione – Ufficio Scolastico Provinciale di Lecce, in persona del legale rappresentante p.t.;

per l’accertamento del diritto alla perequazione del trattamento pensionistico.

Visto il ricorso, in epigrafe;

Esaminati gli atti e i documenti tutti della causa;

Considerato in

FATTO E DIRITTO

L’odierna causa ripropone la questione della vigenza nell’ordinamento del principio di automatico collegamento della misura delle pensioni al trattamento retributivo del personale in servizio.

Il suddetto principio non è, in effetti, contenuto in alcuna espressa disposizione legislativa che lo sancisca in termini generali, ma viene di volta in volta invocato quando si ponga per una categoria di pubblici dipendenti la necessità di uno speciale adeguamento del trattamento di quiescenza, in relazione ad una dinamica salariale del personale in servizio che venga a discostarsi in misura notevole dai valori economici precedentemente attribuiti e sui quali veniva calcolato il trattamento di quiescenza.

La Corte costituzionale ( sent. n. 409 del 1995 ) ha avuto occasione di affermare che i modi attraverso i quali perseguire l’obiettivo dell’aggiornamento delle pensioni dei pubblici dipendenti possono essere, in via di principio, o la riliquidazione ( allineamento delle pensioni al trattamento di attività di servizio di volta in volta disposto con apposita legge ) o la c.d. “ perequazione automatica “ consistente in un meccanismo normativamente predeterminato, che adegui periodicamente i trattamenti di quiescenza agli aumenti retributivi intervenuti mediamente nell’ambito delle categorie del lavoro dipendente.

E’ certo, comunque, che solo in casi particolari il legislatore ha ritenuto di agganciare automaticamente la pensione allo stipendio, dettando apposite disposizioni ( cfr. art. 2, comma 2°, L. 27 ottobre 1973 n. 629, recante nuove disposizioni per le pensioni privilegiate ordinarie in favore dei superstiti dei caduti nell’adempimento del dovere, appartenenti ai Corpi di Polizia ).

Va in proposito ricordato che la Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, con decisione n. 49970 del 12 maggio 1982, si era in origine espressa nel senso che l’articolo 11 della L. 24 maggio 1951 n. 392 avesse introdotto nell’ordinamento il principio dell’adeguamento permanente delle pensioni del personale di magistratura alle retribuzioni dei pari grado in servizio, senza bisogno di appositi provvedimenti legislativi.

Le Sezioni Riunite della Corte dei Conti, ritenuto che detta norma non avesse valore di disposizione a carattere generale intesa a tale automatico e permanente adeguamento pensionistico, con ordinanza n. 104 del 24 giugno 1985 avevano investito la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della normativa nel frattempo intervenuta, che non prevedeva criteri atti a garantire trattamenti pensionistici proporzionati alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Con sentenza n. 501 del 21 aprile/5 maggio 1988 la Corte costituzionale, preso atto del cospicuo divario che, per il personale di magistratura, si era verificato tra pensioni e retribuzioni a seguito della L. 6 agosto 1984 n. 425 dopo avere affermato “ l’esigenza di un costante adeguamento “ dei due trattamenti, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 3 comma 1 e 6 della L. 17 aprile 1985 n.141 nella parte in cui avevano disposto rivalutazioni percentuali invece di assicurare l’adeguamento attraverso una apposita riliquidazione, con decorrenza 1° gennaio 1988, delle pensioni dei soggetti esclusi dai nuovi stipendi perché collocati in quiescenza anteriormente al 1° luglio 1983.

A seguito dei detta sentenza, alcuni magistrati, avendo già beneficiato della riliquidazione sulla base del trattamento spettante in applicazione della L. n.425/1984, chiesero l’ulteriore adeguamento automatico della loro pensione, come sopra liquidata, alle successive variazioni del trattamento di attività ottenute dai pari grado alle date del 1° gennaio 1989 e 1° gennaio 19990, nonché il riconoscimento del diritto all’adeguamento permanente in relazione ad ulteriori aumenti futuri, per effetto del meccanismo di incremento costante previsto dall’articolo 2 della L. 19 febbraio 1981 n. 27.

La giurisprudenza di questa Corte ( SS.RR.14 novembre 1988 n. 76/c ; Sezione del controllo 17 novembre 1988 n. 2021; Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, nn. 62911, 62912 e 62913 del 20 marzo 1989 ) si pronunciò inizialmente in senso favorevole ai ricorrenti.

Secondo tale giurisprudenza si era sostanzialmente instaurato un meccanismo di aggancio automatico e perenne tra pensioni e stipendi dei magistrati.

Successivamente, però, la stessa Sezione III Giurisdizionale Pensioni Civili, con ordinanza del 21 maggio 1990, constatata l’esistenza di un vuoto legislativo che legittimasse tale principio, denunciava l’illegittimità costituzionale della norma di cui all’articolo 2 della L. 19 febbraio 1981.

La Corte costituzionale, non condividendo la prospettata questione di legittimità costituzionale, con ordinanza n. 95 dell’11/16 febbraio 1991 ne dichiarava la manifesta inammissibilità, rilevando che “ una sentenza atta ad innestare nella normativa pensionistica un meccanismo di adeguamento periodico concepito per il personale di servizio “, comportando varietà di scelte e molteplicità di implicazioni, sarebbe stato il risultato di attività “ certamente estranea al sindacato di costituzionalità e viceversa propria del legislatore”.

Il legislatore interveniva qualche mese dopo, con la L. 8 agosto 1991 n. 265, sottoposta, come è noto al vaglio della Corte costituzionale in più riprese e sotto diversi profili di incostituzionalità.

Con sentenza n. 42 del 28 gennaio/10 febbraio 1993 la Corte costituzionale affermava che “il legislatore, nell’escludere dalla riliquidazione delle pensioni l’applicabilità del meccanismo di adeguamento aveva esercitato una discrezionalità sua propria“, volendo limitare gli effetti dello stesso nell’ambito esclusivo del trattamento stipendiale per il quale era stato concepito.

Nel ribadire che esula dai limiti del controllo di legittimità l’operazione additiva consistente in una mera trasposizione dell’istituto nel settore pensionistico ( dichiarando, quindi, inammissibile la sollevata questione di legittimità costituzionale ) la Corte osservava tuttavia che “ la radicale opzione nel senso di cristallizzare la riliquidazione alle misure stipendiali dal 1° luglio 1983, senza alcun conto, neppure parziale, degli adeguamenti, né prima né dopo “ non può non prospettarsi come fattore di nuove e ulteriori divaricazioni tra pensioni e stipendi, rappresentando l’ipotesi che nel medio periodo l’andamento delle retribuzioni finirà per discostarsi dalle pensioni “ ben al di là di quel ragionevole rapporto di corrispondenza, sia pure tendenziale ed imperfetto “ a suo tempo richiesto dalla stessa Corte ai sensi degli articoli 3 e 36 della Costituzione, con la ovvia conseguenza che le considerazioni svolte nella sentenza n, 501 del 1988 a proposito dell’omesso calcolo delle anzianità pregresse ben potrebbero alla mancata previsione di un qualsivoglia meccanismo di raccordo tra variazioni retributive indotte dagli aumenti del pubblico impiego e computo delle pensioni, così determinando l’esigenza di un riesame della questione di costituzionalità ( “un riesame della questione di costituzionalità si sarebbe reso necessario ove nel futuro la divaricazione fra stipendi e pensioni si discostasse da un ragionevole rapporto di corrispondenza “ ).

Successivamente, con sentenza n. 409 del 20/27 luglio 1995, la Corte costituzionale dichiarava ancora una volta non fondate o manifestamente infondate alcune questioni sollevate dalla sezione Giurisdizionale Sicilia e dalla Sezione Giurisdizionale Lazio, e pur riaffermando il principio costituzionale di proporzionalità ed adeguatezza della pensione, da garantire non soltanto con riferimento al momento del collocamento a riposo ma anche in prosieguo, in relazione alle variazioni del potere di acquisto della moneta, rilevava che all’attualità ( e, quindi, nel 1995 ) tutto ciò appare assicurato dai meccanismi perequativi e rivalutativi esistenti, ribadendo che spetta al legislatore ragionevolmente soddisfare nel tempo detta esigenza ed escludendo che questo comporti inderogabilmente un costante e periodico allineamento delle pensioni al corrispondente trattamento di attività di servizio.

Inoltre, con ordinanza n.531 del 6/18 dicembre 2002, la Corte costituzionale interveniva nuovamente sul tema, investita dalla Sezione Giurisdizionale Regionale Puglia, riaffermando i suddetti principi e, in particolare, che spetta al legislatore determinare le modalità di attuazione del principio sancito dall’articolo 38 della Costituzione – con riguardo al “ bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili e ai mezzi necessari per far fronte agli impegni di spesa…con il limite comunque di assicurare “ la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona “ ( sentenza n. 457 del 1998 )” e aggiungendo qualcosa di più: e cioè, che “ l’esigenza di adeguamento delle pensioni alle variazioni del costo della vita è assicurata attraverso il meccanismo della perequazione automatica del trattamento pensionistico ( attualmente disciplinato dal d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 503 “…. )”.

Tale meccanismo di adeguamento al costo della vita è stato considerato dalla Corte costituzionale, con sentenza n.30 del 13/23 gennaio 2004, emessa su rimessione della Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale, idoneo ad assicurare il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione, e la sua validità è stata ribadita con la recente ordinanza n. 383 dell’1/14 dicembre 2004, nella quale è stata respinta la questione di legittimità costituzionale – sollevata dalla sezione Giurisdizionale Regionale Calabria – della mancata previsione, ad opera della L. 141 del 1985, della riliquidazione del trattamento pensionistico dei pubblici dipendenti collocati a riposo, a far data dal 1° gennaio 1988.

Sulla base di quanto sopra, la giurisprudenza costante della Corte dei conti è nel senso della inesistenza, nell’ordinamento giuridico italiano, di un principio di adeguamento automatico delle pensioni alle retribuzioni ( cfr., ad es., Sez. Reg. Lombardia 20 novembre 2002 n. 1906 ) .

Ciò premesso, deve precisarsi che la costruzione giurisprudenziale della inesistenza di un principio costituzionale che garantisca il costante adeguamento delle pensioni al successivo trattamento economico dell’attività di servizio risente dell’influenza esercitata in subjecta materia dalle decisioni emesse dalla Corte costituzionale, che appartengono alla tipologia delle decisoni di rigetto.

Tale tipo di decisioni non pone particolari problemi, a differenza delle decisioni interpretative di rigetto, contraddistinte dall’inserimento nel dispositivo delle parole “ nei sensi in motivazione “, formula con la quale si intende esprimere il carattere condizionale della sentenza e la portata di “ doppia pronuncia “ che essa assume.

In relazione a queste ultime, infatti, si è acceso recentemente il conflitto fra la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale in ordine al problema della loro efficacia.

Hanno affermato, infatti, le Sezioni Unite penali, con la sentenza del 17 maggio 2004 n. 23016, il seguente principio di diritto: “ Le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione “.

L’occasione è stata offerta dalla interpretazione – contrastata da molti giudici di merito e dalla stessa Cassazione – secondo cui l’articolo 303, comma 2°, del c.p.p. non è in contrasto con il dettato costituzionale. Si tratta della norma secondo cui, in caso di regresso del processo, per l’imputato detenuto ricominciano a decorrere i termini della fase della custodia cautelare. Norma che la Consulta ha ritenuto costituzionale con la sentenza n. 292 del 1998, che è interpretativa di rigetto, come le successive ordinanze, con le quali è stata dichiarata la infondatezza (n. 429/1999) o la inammissibilità (n. 243/2003, n. 335/2003, n.59/2004) delle medesime questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito.

Osservano le Sezioni Unite penali, nella sentenza n. 23016/2004 cit., che “ L’autonomia e l’indipendenza del giudice nell’interpretazione della legge sono presidiate, a loro, volta dalla garanzia apprestata dalla specifica previsione dell’articolo 101, comma 2, Costituzione, dalla quale direttamente deriva la rigida tutela di un tale potere da possibili interferenze e condizionamenti esterni…” e che “…l’autonomia riconosciuta dalla Costituzione ad ogni giudice non riguarda soltanto le operazioni ermeneutiche aventi ad oggetto leggi ordinarie ed atti con forza di legge, ma si estende al contenuto e alla portata delle disposizioni costituzionali, che si inseriscono nell’ordinamento come norme-principio, conformando i lineamenti del sistema e ponendosi quali imprescindibili parametri di riferimento nell’interpretazione delle disposizioni che lo costituiscono “.

Condividendo l’orientamento della Corte di Cassazione, rivendica questo Giudice a sé il compito di interpretare in modo autonomo ed indipendente le norme costituzionali in materia pensionistica ( artt. 36 e 38 ) – a maggior ragione , come nel caso in esame , in presenza di una interpretazione della Corte costituzionale espressa attraverso decisioni (mere) di rigetto, che non vincolano il giudice – giungendo ad affermare la vigenza nel nostro ordinamento di un principio di collegamento delle pensioni alla dinamica delle retribuzioni del settore pubblico sulla base della applicazione diretta degli artt. 36 e 38 della Costituzione.

Come è noto, nella Costituzione italiana non esiste una previsione espressa della applicazione diretta dei diritti costituzionali nei rapporti intersoggettivi, corrispondente al comma 3 dell’art. 1 della legge fondamentale ( Grundgesetz ) della Repubblica federale tedesca del 1949 , anche se questa efficacia diretta orizzontale – la c.d. drittwirkung – è stata ormai riconosciuta dalla Corte costituzionale ( ad es., nelle sentenze 122/1970 e 88/1979 in tema di diritto alla salute, considerato suscettibile di fondare direttamente la pretesa del lavoratore di ottenere il risarcimento del danno determinato dalle condizioni di lavoro nell’impresa; nelle sent. 156/1971 e 177/1984, in tema di diritto del lavoratore ad una retribuzione minima, ex art. 36 cost. ), nonché dalla Corte dei Cassazione ( in tema di contratti: n.10511/1999; in tema di risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo: n. 4083/1996 e n.500/1999; in tema di risarcimento del danno alla persona: n.7713/2000 , n.8828/2003 e 233/2003; in tema di sequestro penale: n. 3572/1995; in tema di diritto alla salute: n. 3870/1994) e dalla dottrina.

Nel quadro della giurisprudenza costituzionale, non solo non è dato rinvenire alcuna affermazione in contrasto con la c.d. drittwirkung dei giudici, ma plurime sono addirittura le pronunzie a quella applicazione diffusa dei precetti costituzionali danno invece impulso.

La posizione della Corte costituzionale nei riguardi dell’istituto in esame si esprime in particolare : a) dando l’istituto stesso per presupposto e facendovi richiamo come dato complementare di disciplina di determinate materie ( n.333/1991 ); b) esortando anzi i giudici a farne applicazione ( n. 34/1973 ); c) rimarcandone addirittura la necessità in determinati contesti normativi ( n.184/1986 ); d) rimovendo, infine, ostacoli, frapposti dal legislatore ordinario, alla sua operatività ( n. 313/1990 )

Un principio equivalente a quello della c.d. drittwirkung è peraltro ricavabile per implicito dall’incipit dell’articolo 2 della Costituzione italiana, per cui “ la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo “ ( cfr., Cass. 20 aprile 1994 n.3775 ).

Staccandosi dal piano puramente concettuale, ci si accorge che l’utilizzo della applicazione diretta delle disposizioni costituzionali ( cfr., di recente, Corte cost. n. 512/2002 ) presuppone una concezione della Costituzione vista non soltanto in posizione di difesa nei riguardi di interventi positivi del legislatore ma come atto normativo idoneo a soddisfare in modo diretto, senza la necessaria intermediazione legislativa, la domanda di giustizia che proviene dalla società.

La Corte costituzionale, data la natura di retribuzione differita che deve riconoscersi al trattamento pensionistico, ha affermato, con orientamento risalente nel tempo, il principio della proporzionalità della pensione alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché della sua adeguatezza alle esigenze di vita del lavoratore della sua famiglia, nel pieno rispetto dell’art. 36 Cost. ( sentenze n. 243 del 1992; n. 96 del 1991; n. 501 del 1988; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980 e n. 124 del 1968 ) e tuttavia ha altrettanto costantemente affermato che non esiste un principio costituzionale che possa garantire l’adeguamento costante delle pensioni agli stipendi, spettando alla discrezionalità del legislatore determinare le modalità di attuazione del principio sancito dall’art. 38 Cost. sulla base di un “ ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti (…) compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per farvi fronte ai relativi impegni di spesa “ ( sentenza n. 119 del 1991 ) – nello stesso senso, cfr. ordinanza n. 531 del 2002 e sentenze n. 457 del 1998 e n. 226 del 1993 – ma con il limite, comunque, di assicurare “ la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona “ ( sentenza n. 457 del 1998 ).

La stessa Corte costituzionale ha, comunque, affermato che l’eventuale verificarsi di un irragionevole scostamento tra i due trattamenti può costituire un indice della non idoneità del meccanismo scelto dal legislatore ad assicurare la sufficienza della pensione in relazione alle esigenze del lavoratore e della sua famiglia ( sentenze n. 409 del 1995 e n. 226 del 1993 ) .

In quest’ultima pronuncia si riporta l’attenzione del legislatore sulla necessità di sorvegliare l’andamento del fenomeno “ al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte”.

Nella presente situazione delle pensioni del settore pubblico, pertanto, sembra non si possa individuare più l’esercizio di una discrezionalità legislativa nell’attuare – sia pur variamente – l’adeguamento costante tra i due tronconi del trattamento retributivo ( quello di attività e quello pensionistico ), ma che si debba parlare di una completa negazione di quel principio di “ solidarietà “ tra lavoratori e pensionati, cui si deve affiancare una solidarietà più ampia dell’intera collettività, come argomenta la sentenza costituzionale n. 226/1993; si tratta di principi che – aggiunge la sentenza –se non richiedono una rigorosa corrispondenza tra contribuzioni e prestazioni previdenziali esigono però un limite di ragionevolezza nel legiferare che sembra nella specie del tutto obliterato, non essendoci più alcuna commisurazione delle pensioni agli stipendi.

Né può essere dimenticato che se è vero – come la Corte costituzionale ha più volte rilevato – che il legislatore deve farsi carico della non illimitatezza delle risorse finanziarie, è anche vero che dalla natura retributiva del trattamento di quiescenza sembrano derivare conseguenze non trascurabili ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.

Per le ragioni sopra esposte non può condividersi l’orientamento seguito dalla prevalente giurisprudenza delle sezioni giurisdizioni e di appello della Corte dei conti.

Del resto, con riferimento ad analogo giudizio ( n. 27894), la stessa Amministrazione degli Interni non ha esperito appello avverso la sentenza di questo G.U.P., con cui è stato riconosciuto il diritto alla perequazione del trattamento pensionistico, evidentemente condividendo il ragionamento contenuto nella sentenza di accoglimento.

In applicazione, quindi, degli articoli 36 e 38 della Costituzione ritiene questo Giudice, per le considerazioni sopra espresse, che debba essere affermato il diritto del ricorrente alla perequazione del trattamento pensionistico, con aggancio ai miglioramenti economici concessi al personale di pari qualifica ed anzianità in attività di servizio.

Sulle somme in tal senso dovute spettano gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, alle condizioni di legge.

Sussistono gravi ed eccezionali ragioni per disporre la compensazione delle spese di giudizio, in considerazione della natura della controversia.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso n° 32507 e, per lo effetto, accerta il diritto dei ricorrenti alla perequazione della pensione, con collegamento al trattamento stipendiale dei dipendenti di pari anzianità, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria nella misura di legge, nei sensi in motivazione.

Spese di giudizio compensate.

Così deciso in Bari, nella Camera di Consiglio del dieci novembre duemiladiciassette.

IL GIUDICE

F.to ( V. Raeli )

Depositata in Segreteria il 23/01/2018

Il Funzionario di Cancelleria

F.to (dott. Pasquale ARBORE)

Corte-Conti-Puglia