Pignoramento stipendio: il quinto vale sempre?

(Corte Costituzionale, ordinanza 5 aprile 2016, n. 70)

Per i redditi da lavoro dipendente la legge non prevede il minimo vitale impignorabile come per i pensionati: secondo la Corte Costituzionale tale diversità di trattamento è legittima.

Il pignoramento dello stipendio avviene sempre entro massimo un quinto, che si calcola sull’intera retribuzione, al netto delle ritenute fiscali.

Se per le pensioni il pignoramento del quinto avviene dopo aver sottratto il cosiddetto “minimo vitale” – una somma cioè intangibile per garantire un sostentamento dignitoso anche al debitore – questo non vale, invece, per i lavoratori dipendenti. È quanto chiarito dalla Corte Costituzionale [1].

Il minimo vitale delle pensioni

Una recente riforma ha definito cosa debba intendersi per “minimo vitale”, quale sia tale importo e, quindi, come debbano essere calcolati i nuovi pignoramenti. In pratica, tutte le volte in cui la pensione viene pignorata presso l’Istituto previdenziale (Inps), il pignoramento può avvenire seguendo questi due passaggi:

  • detraendo dal netto della pensione il minimo vitale. Il minimo vitale è pari alla misura dell’assegno sociale (euro 448,51), aumentato della metà (euro 224,25); esso quindi ammonta a euro 672,76;
  • sulla differenza così ottenuta va calcolato 1/5 (un quinto).

L’importo che ne deriva è quello che spetta al creditore che ha agito con il pignoramento presso terzi.

Solo per completezza, si segnala che questa regola non vale più se la pensione viene accreditata sul conto corrente. In tal caso, si seguono le due seguenti istruzioni:

  • per le somme che si trovano già accreditate sul conto alla data del pignoramento è possibile il “blocco” solo per quelle che superano l’ammontare di 1.345,54 (ossia il triplo dell’assegno sociale);
  • per le successive mensilità di pensione che verranno erogate successivamente, il pignoramento è di massimo 1/5.

Il pignoramento dello stipendio

Nel caso in cui il pignoramento dello stipendio avvenga una volta accreditato sul conto corrente, valgono le stesse regole appena viste per le pensioni.

Invece, nel caso in cui il pignoramento avvenga presso il datore di lavoro, esso è sempre nella misura di un quinto, senza tuttavia detrarre, in questo caso, il minimo vitale come invece avviene per i pensionati.

Secondo un pensiero ormai costante della Corte Costituzionale questa differenza di trattamento è più che legittima. La norma contempera l’esigenza del creditore di ottenere il pagamento nel più breve tempo con la necessità del debitore di mantenere un tenore di vita dignitoso. Proprio per questo la previsione di una percentuale per il pignoramento (pari appunto al 20%, ossia un quinto) gradua il sacrificio in misura proporzionale all’entità della retribuzione. Chi ha una retribuzione più bassa, infatti, è colpito in misura proporzionalmente minore: non è vero, quindi, che siano stati sacrificati gli stipendi e i salari più esigui solo perché non esclusi dal pignoramento.

La scelta del criterio di limitazione della pignorabilità e l’entità di detta limitazione rientrano, per costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, nel potere insindacabile del legislatore.

Corte Costituzionale, ordinanza 5 aprile 2016, n. 70

Ordinanza

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, promossi dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con due ordinanze del 18 febbraio 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 108 e 151 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24 e n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2016 il Giudice relatore Aldo Carosi.

Ritenuto che il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con due ordinanze di analogo contenuto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari disposte dall’art. 72-ter (Limiti di pignorabilità) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come introdotto dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44;

che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni sono sorte nell’ambito di due procedure esecutive, la prima promossa da Banca Suasa Credito Cooperativo spa, ai danni del signor P.G., debitore della somma complessiva di euro 7.720,61, oltre alle spese della procedura esecutiva, e la seconda promossa da R.E. ai danni della signora M.E., debitrice della somma complessiva di euro 2.044,72, oltre alle spese della procedura esecutiva;

che i terzi pignorati hanno reso dichiarazioni positive dei rispettivi obblighi di corrispondere ai rispettivi debitori uno stipendio mensile rispettivamente di euro 299,00 ed euro 450,00 (al netto delle ritenute previste dalla legge) e quindi, poiché a mente dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ. «Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province ed ai comuni, ed in eguale misura per ogni altrocredito», secondo il Tribunale rimettente gli stipendi degli esecutati sarebbero pignorabili fino ad un quinto, ammontante nei casi di specie rispettivamente ad euro 59,50 ed euro 90,00, per cui resterebbero nella disponibilità dei medesimi euro 239,50 ed euro 360,00, non risultando agli atti che essi dispongano di altre fonti di sostentamento. Al riguardo, osserva il Tribunale ordinario di Viterbo che se, invece, fosse applicabile alle fattispecie oggetto dei giudizi il limite indicato dall’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, essendo le somme dovute a titolo di stipendio inferiori ad euro 2.500,00 mensili, le stesse sarebbero pignorabili nel limite di un decimo e non di un quinto;

che il rimettente dubita quindi della legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita;

che lo stesso giudice deduce anche la violazione del principio di eguaglianza per disparità di trattamento sia in relazione al diverso regime afferente al pensionato, quale consolidatosi a seguito della sentenza di questa Corte n. 506 del 2002, sia, in via subordinata, in relazione al regime della riscossione dei crediti erariali fissato dall’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, comeintrodotto dall’art. 3, comma 5, lettera b), del d.l. n. 16 del 2012, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della l. n. 44 del 2012;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri per eccepire la non fondatezza della questione.
Considerato che deve essere disposta la riunione dei giudizi, attesa la coincidenza dei parametri e dell’oggetto degli atti di rimessione;

che le questioni sollevate risultano analoghe a quelle di cui è stata dichiarata la non fondatezza in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con sentenza di questa Corte n. 248 del 2015;

che tale sentenza precisava, tra l’altro che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata, tanto più verificata alla luce di«un esame obiettivo del contesto normativo complessivo e dalla sua evoluzione differenziata»;

che invece, relativamente alla norma impugnata con riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost., la predetta decisione ha ritenuto l’inammissibilità delle censure per la loro apoditticità in quanto prive di un’argomentazione esaustiva sulle ragioni del preteso contrasto con le norme invocate;

che – stante l’identità di contenuto tra l’ordinanza di rimessione oggetto della richiamata pronuncia del 2015 e quelle odierne – la questione da queste ultime reiterata va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., e manifestamente inammissibile con riguardo agli artt. artt. 1, 2 e 4 Cost., per le stesse ragioni.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per Questi Motivi

la Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

1) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 2 e 4 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con le ordinanze indicate in epigrafe;

2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, cod. proc. civ., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.