Prostituta condannata in I° e II° grado per atti osceni in luogo pubblico perchè consumava con un cliente un rapporto sessuale in strada.- La Cassazione dice no alla punibilità per lo stato di necessità della donna, ridotta in schiavitù e costretta a prostituirsi (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 ottobre 2015, n. 40270).

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza dei 22 ottobre 2014, la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Roma in 16 maggio 2011, che aveva condannato F. F., alla pena di mesi due di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale, per il reato di atti osceni in luogo pubblico (art. 527 c.p.), perché, in concorso con M. E., commetteva atti osceni in luogo pubblico, consistiti nel consumare un rapporto sessuale nella pubblica via, alla vista dei passanti, fatti accaduti in Roma, in data 24 settembre 2007, nei pressi di via Acquacetosa Ostiense.

I giudici di merito avevano ritenuto che non fosse riconoscibile la richiesta esimente dello stato di necessità sulla base della circostanza che la F., di nazionalità rumena, era stata sfruttata nel mercato della prostituzione con violenza e costrizione fisica, nonostante fosse passata in giudicato una sentenza della Corte di Assise di appello di Roma che la riconosceva vittima dei reato in riduzione in schiavitù a fini di sfruttamento sessuale, posto in essere da alcuni suoi connazionali; i giudici di merito hanno ritenuto che la stessa avrebbe potuto rivolgersi alle forze dell’ordine per sottrarsi a tale costrizione, ed inoltre sussisteva la consapevolezza in capo alla ricorrente di porre in essere la prestazione sessuale richiesta dall’occasionale cliente sulla pubblica via, in un contesto idoneo ad offendere la sensibilità dei passanti.

2. La F., a mezzo dei proprio difensore, ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi: Violazione ex art. 606 lett. b) c.p.p. per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 54 c.p. ed ex art 606, lett. e) c.p.p. per travisamento della prova, illogicità e mancanza o mera apparenza della motivazione, in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi dei reato sia oggettivi che soggettivi.

Considerato in diritto

1. Il ricorso va accolto sia sotto il profilo dei vizio di mancata motivazione della sentenza di appello, che per quanto attiene alla censura di erronea applicazione dell’art. 54 c.p. al caso di specie.

2. Innanzitutto va precisato che, nonostante la lettura congiunta delle sentenze di condanna pronunciate nei due gradi di merito, possibile in forza di un consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, l’iter argomentativo posto a base dell’affermazione di responsabilità della F. e, soprattutto, del negato riconoscimento della sussistenza dell’esimente dello stato di necessità, risulta lacunoso e senza esaustiva descrizione delle acquisizioni probatorie, le quali, come si desume dal ricorso, contengono anche l’accertamento della qualità di persona offesa della donna, nel delitto di riduzione in schiavitù e servitù, di prostituzione coatta connesso allo sfruttamento sessuale, posto in essere per tre anni (dalll’agosto 2004, all’agosto 2009); l’insufficienza motivazionale, la genericità e l’apodittica affermazione, contenuta nella sentenza di appello, circa la necessità che la donna, pur nelle condizioni di soggezione in cui versava, usasse maggiore cautela nell’esercizio del meretricio, appartandosi in un luogo non alla facile vista del pubblico, rendono evidente l’apparenza della motivazione e quindi la sostanziale mancanza di motivazione in ordine alle ragioni della condanna e del rigetto dell’atto di appello per mancato riconoscimento della circostanza di cui all’art. 54 c.p.

3. Per quanto attiene all’esimente dello stato di necessità, è stata ribadito (cfr. da ultimo, Sez.2, n. 19714 del 14/4/2015, Moccardi, Rv. 263533) il principio della sua incompatibilità con situazioni di pericolo volontariamente cagionate dallo stesso soggetto attivo e della necessità che la situazione di pericolo di un danno grave alla persona non altrimenti evitabile risultasse attuale rispetto alla data del commesso reato.

4. In particolare, questa Corte ha già affermato il principio della configurabilità di tale causa di giustificazione “nei confronti di una donna straniera, ridotta in condizione di schiavitù e costretta a prostituirsi, la quale sia stata indotta a commettere i reati previsti dagli artt. 495 e 496 cod. pen. per il timore che, in caso di disobbedienza, potesse essere esposta a pericolo la vita o l’incolumità fisica dei suoi familiari” (cfr. Sez. 3, n. 19225 del 15/02/2012, Dulaj, Rv. 252620): in tale decisione è stato posto in evidenza che proprio per la condizione di sottoposizione a ripetute violenze in cui le ragazze costrette a prostituirsi si trovavano (tanto da venire minacciate prospettando l’uccisione dei propri familiari), le stesse erano state indotte a mentire sempre sulla indicazione delle proprie generalità, anche ove richieste dalle Forze dell’ordine.

5. Questo Collegio ritiene che, nel caso di cui è processo, verificando la tutela degli interessi in campo nel caso di specie e gli altri requisiti richiesti dalla disposizione di cui all’art. 54 c.p., debba dei pari essere ravvisato la sussistenza dello stato di necessità.

6. Infatti, va affermato il principio che il corretto accertamento della liceità oggettiva del comportamento posto in essere in una situazione riconducibile allo stato di necessità presuppone, innanzitutto, la verifica processuale durante il giudizio di merito che, nel caso concreto, sia stato tutelato un interesse giuridico di natura prevalente rispetto a quello oggetto di tutela mediante la fattispecie incriminatrice violata. Inoltre deve essere del pari accertata l’involontarietà ed inevitabilità del pericolo e la sua attualità al momento del fatto e, di conseguenza, il grado di “compressione” della libertà di autodeterminazione in capo all’autore dei fatto.

Infatti se pure non è necessario che risulti realizzata una vera e propria costrizione della volontà, la dottrina ha opportunamente sottolineato come l’alternativa tra “offendere” od “essere offeso” debba essere vissuta “in termini autenticamente personali”.

7. Orbene, nel caso di specie, tutte queste condizioni sussistono. Ha efficacia di cosa giudicata l’accertamento della qualità di vittima della ricorrente, in riferimento ai reati di cui agli artt. 600, 602 e 609 bis c.p. nonché di costrizione mediante violenza alla prostituzione, e certamente le modalità delle condotte violente subite per anni dalla stessa l’avevano posta in uno stato di assoggettamento continuo, con la consapevolezza del pericolo per sé e per i suoi familiari rimasti nel Paese d’origine, come dettagliatamente descritto al capo 3) dell’imputazione contenuta nella sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Roma in data 15 febbraio 2013 nei confronti di F. C. e S. O. L.; pertanto la situazione di pericolo nella quale la donna si trovava, proprio al tempo della condotta di atti osceni in luogo pubblico, è stata conseguenza delle condotte criminali come descritte e non era certamente evitabile per la donna porre in essere l’attività di prostituzione di strada, con le modalità imposte dai suoi sfruttatori, né rivolgendosi alle Forze dell’ordine, né avendo accortezza di scegliere luoghi riservati ove esercitare la prostituzione coatta.

7.1. Di fatti, seppur brevemente, è il caso di ricordare che il comportamento criminale di “asservimento” è collegato a ripetute condotte di costrizione mediante violenza e minaccia ed anche al permanere dello sfruttamento; tale abitualità trasforma l’essere umano dallo stato libero e quindi dalla possibilità di autodeterminare con la volontà i propri liberi comportamenti, esercitando le scelta in ordine alla propria esistenza, in un soggetto asservito, ossia utilizzato a fini di profitto, quasi come una “res” o merce, nello sfruttamento, che nel caso di specie, era posto in essere attraverso la prostituzione coatta per lucrare i proventi dell’attività di meretricio (in tal senso, si veda Sez. 5, n. 49594 del 14/10/2014, Enache, Rv. 261345, che ha precisato che “ai fini della configurabilità dello stato di soggezione, rilevante per l’integrazione dei reato di riduzione in schiavitù, è necessario una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale”).

Tale definizione rappresenta il contenuto della norma come introdotta con la legge 11 agosto 2003, n. 228, in recepimento sia dei contenuti della normativa europea, che della definizione di trafficking in human beings contenuta nello specifico Protocollo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine organizzato transnazionale del 2000, ratificata con la legge 16 marzo 2006, n. 146.

8. Non sussiste pertanto alcun contrasto con la diversa affermazione di principio contenuta in alcune sentenze di legittimità circa l’insussistenza della causa di giustificazione laddove emerga che l’imputato si sarebbe potuto sottrarre “dalla costrizione a violare la legge mediante ricorso all’autorità, cui va chiesta tutela” (cfr. Sez. 4, n. 15167 dei 9/1/2015, HHyseni e altro, Rv. 263135, fattispecie nella quale, pur provenendo la costrizione a violare la legge da un ispettore di polizia giudiziaria, è stato affermato che l’imputato avrebbe potuto rivolgersi ad altre istituzioni pubbliche aventi compiti di tutela dei cittadino), principio richiamato in poche battute dalla sentenza impugnata e posto a base della decisione di penale responsabilità della ricorrente.

9. Infatti tale principio è valido e da confermare, ma non risulta applicabile alla peculiarità dei caso di specie, laddove gli obiettivi fondamentali sono quelli, ormai conosciuti non soltanto dagli operatori sociali che pongono il focus dei loro interventi sulla vittima di tali tipologie di reato: il superamento dello stato di soggezione della vittima dei reati di tratta e sfruttamento di esseri umani, di solito straniera e costretta allo sfruttamento nel nostro territorio e/o in altri Stati, vittima che si connota per la sua particolare “vulnerabilità”, fino al recupero della capacità di autodeterminazione della stessa, alla presa di distanza dagli sfruttatori, all’allontanamento dagli stessi, nonostante il grave pericolo di vita ed, eventualmente, alla loro denuncia (si vedano i contenuti degli obiettivi di intervento sociale contenuti nell’ art. 18 dei D.lgs n. 286 dei 1998). 10.

10. Affermare in un caso quale quello di specie che per la vittima sarebbe stato facile sottrarsi al pericolo rivolgendosi alle Forze dell’ordine significa banalizzare un fenomeno criminale gravissimo, che lede in maniera significativa e permanente i diritti umani e, soprattutto, equivale a violare i principi in materia di protezione delle vittime per tali reati e in materia di posizione delle vittime nel processo penale contenuti nelle fonti giuridiche internazionali (vanno richiamati sia il Protocollo Nazioni Unite c.d. Trafficking, già citato, che la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani dei 2005, ratificata con la legge 2 luglio 2010, n. 108) e negli strumenti europei comunque vincolanti per il nostro sistema giuridico (si vedano la direttiva 2011/36/UE per la prevenzione e repressione della tratta degli esseri umani e la direttiva 2012/29/UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI).

11. Non è, a maggior ragione, sostenibile, come semplicisticamente sintetizzato nella parte motiva della sentenza impugnata, che una vittima di schiavitù sessuale, senza alcuna capacità di determinarsi nelle scelte fondamentali della propria vita perché in condizioni di asservimento, tenuta a dimostrare il quotidiano saldo dei proventi della prostituzione coatta alla quale è costretta, spesso con la vigilanza dello sfruttatore o di un suo incaricato – senza alcuna alternativa percorribile senza alcun aiuto di sottrarsi a tale servitù per le continue violenze e minacce alle quali è sottoposta – possa, e quindi debba, mettere maggiore cura nella scelta del luogo ove effettuare la prestazione sessuale, pretendendo il rispetto di tale indicazione da parte dell’occasionale e frettoloso cliente.

12. Per le ragioni fin qui esposte, questa Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché la F. non è punibile per il reato di atti osceni in luogo pubblico alla stessa contestato, atteso che, al momento dei fatto, la stessa era vittima del delitto di riduzione in schiavitù, di prostituzione coatta e di altri gravi delitti contro la persona, come accertato con sentenza passata in giudicato – acquisita agli atti nel corso dei giudizio di merito – e quindi aveva posto in essere l’atto contestato nel capo di imputazione in uno stato di necessità, ai sensi dell’art. 54 c.p.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché l’imputata non è punibile per avere agito in stato di necessità.

1 thought on “Prostituta condannata in I° e II° grado per atti osceni in luogo pubblico perchè consumava con un cliente un rapporto sessuale in strada.- La Cassazione dice no alla punibilità per lo stato di necessità della donna, ridotta in schiavitù e costretta a prostituirsi (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 7 ottobre 2015, n. 40270).”

  1. Hey there! This is my first comment here so I just wanted to
    give a quick shout out and tell you I really enjoy reading through your posts.
    Can you suggest any other blogs/websites/forums
    that deal with the same topics? Many thanks!

Comments are closed.