Reato di molestie a mezzo telefono: la differenza tra telefonate ed invio di messaggi cd. SMS (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 17 aprile 2019, n. 18216).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZEI Antonella – Presidente –

Dott. FIORDALISI Domenico – Consigliere –

Dott. SANTALUCIA Giuseppe – Consigliere –

Dott. FIORDALISI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

E.D.G. nato a OMISSIS il OMISSIS …

avverso la sentenza del 12/01/2018 del TRIBUNALE di CATANZARO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Domenico FIORDALISI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. Simone PERELLI che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

udito il difensore L’avvocato SILIPO ANDREA del foro di CATANZARO in qualità di sostituto processuale dell’avvocato PALASCIANO ALESSANDRO del foro di CATANZARO nomina depositata all’odierna udienza, in difesa di E.D.G. conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. E.D.G. ricorre avverso la sentenza del Tribunale di Catanzaro del 12 gennaio 2018, che lo ha condannato alla pena di euro 150,00 di ammenda in ordine al reato di molestia o disturbo alle persone, di cui all’art. 660 cod. pen., perché col mezzo telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, recava alta sua ex fidanzata E.C. molestie e disturbo, inviandole alcuni messaggi di telefonia mobile (detti S.M.S.: Short Message Service).

2. Col primo motivo, il ricorrente denuncia erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 660 cod. pen., perché il Tribunale avrebbe erroneamente accertato la sussistenza dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo del reato in esame.

Il ricorrente ritiene che, nel caso in esame, non sia ravvisabile alcun motivo biasimevole che abbia indotto E. ad inviare i messaggi a C.: lo sforzo di riattivare la relazione sentimentale avrebbe potuto rappresentare, semmai, un suo agire ingenuo e maldestro.

Il reato de quo, infatti, richiede che l’agente operi al fine specifico di interferire in maniera inopportuna nell’altrui sfera di libertà, per petulanza o per altro biasimevole motivo, circostanze non presenti nel caso in esame. A tal fine, il ricorrente richiama quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale il concetto di “petulanza” consiste in quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente, che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone.

L’interpretazione del reato di molestie, quindi, che mira a prevenire il turbamento alla quiete privata, dovrebbe necessariamente essere ricavato alla luce del fatto che il numero delle comunicazioni che oggigiorno vengono scambiate avrebbe notevolmente innalzato il limite entro cui può ritenersi che un comportamento possa essere considerato petulante, o comunque idoneo a turbare la quiete individuale.

Nel caso in esame, inoltre, mancherebbe ogni parvenza di dolo specifico, e ciò proprio in forza del fatto che E. appartiene a una generazione che avrebbe mutato profondamente il modo di intendere la misura delle comunicazioni individuali.

Quel comportamento, pertanto, non poteva avere il fine di turbare o ledere la sfera di libertà dell’odierna parte offesa, sia per l’inidoneità dei mezzi, che per l’assoluta e generale convinzione che quindici S.M.S. in più di due mesi non sarebbero idonei a turbare nessuno.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta vizio della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui viene affermato che «E. effettuava numerose telefonate all’utenza della C. ed inviava numerosi messaggi, spesso anche con contenuto offensivo».

Il ricorrente ritiene che l’imputato era stato chiamato a rispondere solo dell’invio di alcuni S.M.S. e non per aver effettuato telefonate; che l’aggettivo “spesso”, utilizzato dal Tribunale per dare un ordine di grandezza al contenuto offensivo delle comunicazioni intercorse, sarebbe usato in maniera illogica, posto che a fronte di 15 messaggi inviati, era stato accertato che solo 2 di essi avevano contenuto valutabile come offensivo. Il ricorrente, inoltre, lamenta vizio di motivazione, perché il Tribunale avrebbe omesso di argomentare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche da lui richieste ai sensi all’art. 62 bis cod. pen., nonostante il soggetto fosse incensurato.

2.2. Con l’ultimo motivo, denuncia erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 131 bis cod. pen., perché il Tribunale avrebbe mancato di considerare la richiesta dell’applicazione della causa dì non punibilità per particolare tenuità del fatto, nonostante la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi necessari per l’applicazione di tale istituto.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Giova premettere che il reato di molestie o di disturbo alla persona mira a prevenire il turbamento della pubblica tranquillità, attuato mediante l’offesa alla quiete privata.

Pertanto, rispetto alla contravvenzione in discorso, viene in considerazione l’ordine pubblico, pur trattandosi di offesa alla quiete privata; onde l’interesse privato individuale riceve una protezione soltanto riflessa, cosicché la tutela penale viene accordata anche senza e pur contro la volontà delle persone molestate (Sez. 1, n. 32165 del 27/06/2014, Terzi, Rv. 261234).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato successivamente che il reato di cui all’art. 660 cod. pen. è configurabile non già in riferimento a qualsivoglia condotta che interferisca sul piano oggettivo nell’altrui sfera di quiete personale, ma si caratterizza, per le sue modalità e sostegno psicologico, in termini di petulanza (o altro biasimevole motivo), sicché esso va identificato in concreto come il contegno intollerabile ed incivile verso la persona molestata, tale da determinarla ad invocare aiuto, e il modo di agire arrogante o vessatorio, privo di riguardo per la libertà o la quiete altrui (Sez. 1 n. 12251 del 07/10/1986, Held, Rv. 174192; Sez. 1 n. 13555 del 26/11/1998, Faedda, Rv. 212059; Sez. 1, n. 8198 del 19/01/2006, Paolini, Rv. 233438).

Esso, pur non essendo necessariamente abituale, perché può essere realizzato anche con una sola azione di disturbo, può assumere tale forma, quando è proprio la reiterazione delle condotte a creare disturbo (Sez. 1, n. 11514 del 16/03/2010, P.G. in proc. Zamò, Rv. 246792).

Sotto il profilo soggettivo, è richiesto che la volontà della condotta e la direzione della volontà siano direzionate verso il fine specifico di interferire inopportunamente nell’altrui sfera di libertà (Sez. 1, n. 19071 del 30/03/2004, Gravina, Rv. 228217), senza che possa rilevare, in quanto pertinente alla sfera dei motivi, l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole (Sez. 1, n. 33267 del 11/06/2013, Saggiomo, Rv. 256992; Sez. 1, n. 50381 del 07/06/2018, Vidoni, Rv. 274537).

Si consideri, infatti, che ai fini della sussistenza del reato de quo, gli intenti persecutori dell’agente sono del tutto irrilevanti, una volta che si sia accertato che, a prescindere dalle motivazioni che sono alla base del comportamento, esso è connotato dalla caratteristica della petulanza, ossia da quel modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto e impertinente che finisce, per il modo stesso in cui si manifesta, per interferire sgradevolmente nella sfera della quiete e della libertà delle persone.

3. In forza dei principi giurisprudenziali sopra evidenziati, la Corte ritiene che nel fatto concreto descritto dalla sentenza impugnata non sia ravvisabile il dolo, in quanto il Tribunale ha evidenziato che la condotta dell’imputato si colloca nella fase di cessazione di una relazione personale in cui la persona offesa aveva continuato a ricevere i messaggi e le telefonate dell’ex fidanzato, senza attivare sul proprio apparecchio cellulare alcun sistema di blocco dei messaggi provenienti da quella determinata utenza; inoltre, solo due dei 15 messaggi hanno un obiettivo contenuto offensivo, mentre gli altri sono mera manifestazione di gelosia verso i nuovi frequentatori della donna, come si evince dal chiaro significato dei messaggi indicati nella sentenza impugnata.

Il Tribunale non ha evidenziato profili che possono assumere rilievo per caratterizzare il dolo di petulanza dei messaggi, ma solo i tratti della possibile molestia degli stessi.

Assume certamente rilievo il fatto oggettivo evidenziato dalla difesa dell’imputato che sul telefono della persona offesa non sia stato attivato il blocco dei messaggi. Questi, infatti, erano tutti generati dall’utenza intestata all’imputato, per come ha accertato il Tribunale a pag. 3 della sentenza impugnata, sicché E. aveva effettuato gli ulteriori invii nella situazione psicologica di colui che sa che gli stessi continuavano ad essere ricevuti dalla donna, con la quale intendeva superare quella fase di allontanamento e continuare così il rapporto sentimentale e, per come si evince dalla complessiva descrizione della vicenda che il giudice di merito colloca nella relazione personale sospesa per volontà unilaterale della donna, che ha continuato a ricevere dall’imputato non telefonate (come erroneamente scritto in sentenza) bensì alcuni SMS (15) in 75 giorni, che esprimevano essenzialmente amarezza provocata dalla interruzione del rapporto, gelosia e volontà di incontrare di nuovo l’ex fidanzata per riallacciare la relazione.

In definitiva, impediscono la configurabilità stessa del reato contestato l’assenza di motivazione nella sentenza impugnata sul profilo della petulanza del reato in oggetto e l’impossibilità di ravvisare nei fatti esposti il tipico atteggiamento psicologico inerente alla petulanza del comportamento o ad altro biasimevole motivo che possa caratterizzare l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 660 cod. pen., consistente nella volontà effettiva dell’imputato di interferire nella sfera di libertà dell’altro, fino al punto di determinarlo ad invocare aiuto.

4. Ne segue che, in difetto dell’elemento psicologico del reato, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Così deciso, nel palazzo della Corte di Cassazione, I Sezione Penale, il giorno 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il giorno 17 aprile 2019.