Se c’è rabbia la diffamazione è giustificata.

Ai fini del riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 599, comma 2, c.p.c., non è necessario che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui sia ricevuta l’offesa, essendo sufficiente che essa abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio, a nulla rilevando che sia trascorso del tempo, ove il ritardo nella reazione sia dipeso unicamente dalla natura e dalle esigenze proprie degli strumenti adoperati per ritorcere l’offesa. 
Lo ha precisato la Corte di Cassazione, V sezione penale, nella sentenza n. 7244/2016, fornendo un’interpretazione del concetto di “immediatezza” rilevante ai fini dell’esimente prevista dall’art. 599 c.p., secondo comma.
La Corte ha chiarito che l’immediatezza della reazione debba essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell’esimente in questione e di frustarne la ratio.
Pertanto, affinché sia integrata la provocazione è, dunque, sufficiente che l’azione reattiva sia condotta a termine persistendo l’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l’insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, senza che occorra che la reazione si esaurisca in una reazione istantanea.
Il dato temporale della reazione, dunque, deve essere interpretato con elasticità: l’immediatezza della reazione rispetto al fatto ingiusto altrui rende più evidente la sussistenza dei presupposti di tale circostanza attenuante, mentre il passaggio di un lasso di tempo considerevole può assumere rilevanza al fine di escludere il rapporto causale e di riferire la reazione ad un sentimento differente, quale l’odio o il rancore a lungo provato 
Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici del Palazzaccio, al ricorrente era stato contestato di aver rilasciato alla stampa le dichiarazioni, poi riportate da alcuni quotidiani, con cui etichettava un conduttore televisivo con epiteti quali, tra l’altro, “demente“, “quaraquà“, “frocio“.
Il giorno prima, l’imputato aveva già verbalmente aggredito la parte offesa poiché, nel corso della sua trasmissione, aveva criticato alcuni dei clienti di cui lui era agente, reato dal quale è stato poi assolto per aver agito in stato d’ira.
Il ricorrente lamenta che la contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza che, invece, lo ha condannato per le dichiarazioni rese alla stampa, non avendo i giudici effettuato analoga valutazione per le espressioni in contestazione pronunciate il giorno successivo.
Il ricorrente ritiene di essere stato condannato in forza di un automatismo, del tutto arbitrario e illogico, dell’immediatezza della reazione, analizzandolo sotto il mero profilo temporale, mentre la locuzione avverbiale “subito dopo” contenuta nella norma, in presenza di un nesso eziologico tra fatto ingiusto e stato d’ira, deve essere interpretata in relazione a ciascuna fattispecie, tenendo necessariamente conto di una serie di fattori emotivi e non.
Per gli Ermellini l’operato dei giudici di merito è corretto: nella successiva condotta illecita dell’imputato dell’aver rilasciato dichiarazioni ai media, contenenti espressioni ingiuriose nei confronti della p.o., si ravvisava un diverso atteggiamento psicologico, non più improntato ad un “dolo d’impeto” per l’offesa subita, ma a rancore non riconducibile alla previsione di cui all’art. 599, comma 2 c.p. 
L’imputato ha rilasciato le dichiarazioni diffamatorie il giorno successivo in quanto non appagato dello “sfogo” personale avuto in occasione del precedente incontro, volendo così portare anche all’attenzione  degli organi di stampa e dei lettori dei quotidiani la vicenda in questione. 

Non emerge da tale condotta il nesso causale tra fatto ingiusto e reazione, avendo l’imputato, una volta esaurita la spinta emotiva determinante l’aggressione verbale, dato spazio, come correttamente rilevato dai giudici di merito, al diverso sentimento della ritorsione vendicativa.

Ma la giurisprudenza esclude lo stato d’ira, rilevante ai fini della configurazione della provocazione, se sedimenta nell’agente di un sentimento vendicativo che porta alla perpetrazione di un’aggressione lucida e fredda.

Nel caso in esame rileva a tal fine non solo il diverso contesto temporale in cui è stata posta in essere l’azione del ricorrente, ma anche la successiva condotta di “pianificazione” nel rappresentare agli organi di stampa la vicenda, incompatibile con quella spontaneità ed emotività che normalmente deve caratterizzare la scriminante di cui all’art. 599 c.p., che non lascia spazio ad una reazione per così dire “frazionata”. 
Su tali basi il ricorso va pertanto respinto.