Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse …

Attentato in via Fani: gli uomini della scorta di Aldo Moro. Poliziotti e carabinieri con storie simili. Cinque ritratti nell’Italia ai tempi bui del terrorismo.

Ci sono vittime di serie A, di serie B e anche di serie C. Quel 16 marzo 1978 i cinque uomini della scorta di Aldo Moro furono massacrati in via Fani senza pietà dai terroristi delle Brigate Rosse, ma nelle commemorazioni, nei ricordi per il quarantunesimo anniversario del rapimento dello statista democristiano, rischiano di passare inosservati, quasi fossero una nota a margine.

Gli stessi terroristi, oggi liberi di parlare, di rilasciare interviste dalle loro case, non fanno menzione di quei cinque uomini trucidati, come se si fosse trattato non di esseri umani, ma di oggetti da eliminare sul percorso della ‘rivoluzione’.

Claudio Magris, nella prima pagina del Corriere della Sera, scrive oggi un editoriale sull’agguato di via Fani intitolato significativamente “Le vittime di terza categoria”: «I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po` più noti.

Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe».

Agguato di via Fani: gli uomini della scorta di Aldo Moro

La scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata (Dal comunicato n. 1 delle Brigate Rosse, 18 marzo 1978)

Chi sono, dunque, i cinque ‘famigerati’, uccisi dal commando delle Brigate Rosse che in via Fani a Roma, aveva rapito Aldo Moro? Chi ricorda il Pasolini della poesia sui fatti di Valle Giulia, rammenta, con una interpretazione assai parziale, soltanto i versi in cui il poeta dichiara di ‘simpatizzare’ coi poliziotti. Ma poco più avanti, nella stessa lirica, c’è una descrizione forte, quasi icastica e sensoriale di quegli uomini in divisa: “E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo”.

Rancio, fureria e popolo: sono loro. Il più ‘vecchio’ degli uomini di scorta ha 52 anni, il più giovane 24: nessuno torna a casa, quel mattino di quarant’anni fa.

Uno viene da una famiglia contadina della Campania: il fratello lavorava nei campi quando apprende dalla radiolina la notizia dell’attentato, un altro vive in caserma (lo stipendio di un agente non consentiva molto di più) e aspetta di essere promosso prima di sposarsi, un altro ancora era migrato dalle campagne molisane.

Non sono solo ‘divise’, sono uomini che hanno famiglia, figli, genitori, fratelli. Fanno un lavoro difficile e hanno una paga da fame. Sono loro i figli del popolo, uccisi ‘in nome del popolo’ da assassini che di popolare non hanno nulla.

La scorta di Aldo Moro

Poliziotti e carabinieri della scorta di Moro: uomini con storie simili, un magro reddito familiare e spesso la miseria, la volontà di trovare un lavoro, la necessità di emigrare,  la divisa indossata con l’orgoglio di chi serve lo Stato. E poi i figli, la vita quotidiana fra turni massacrati di lavoro e la voglia di stare in famiglia.

Cinque storie dell’Italia ai tempi bui del terrorismo, cinque storie di uomini normali ammazzati in nome della ‘rivoluzione’. E oggi i ricordi di chi è rimasto: le moglie, i figli, i genitori. Uno di loro, Giovanni Ricci, ha avuto la determinazione di incontrare «chi mi aveva fatto del male». Nel 2012 guarda negli occhi Morucci, Bonisoli, Faranda.

Lo ha raccontato al giornalista di Repubblica Tv Concetto Vecchio. Ha detto: non odio più da quanto li ho visti.

Che cosa ha visto Giovanni Ricci? Ha visto persone normali, davanti a lui, altri esseri umani.

Persone normali: il male non ha un cartellino di riconoscimento, la “banalità del male” del resto è la cosa che, come essere umani, più ci spaventa e ci sconcerta.

Perché avete voluto fare questo? ha chiesto Giovanni Ricci agli assassini del padre.

Oreste Leonardi, 52 anni: il ‘nemico del popolo’ che difese Moro col suo corpo

Il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi era nato nel 1926 a Torino. Mentre frequenta il ginnasio, rimane orfano del padre che muore in guerra. Dopo aver terminato gli studi, si arruola nell’Arma. Lavora in diverse sedi, poi è inviato a Viterbo come istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo. A una festa di carnevale conosce una ragazza, Ileana Lattanzi che sposa dopo neanche un anno di fidanzamento. Nel 1963 è chiamato a far parte della scorta di Aldo Moro.

Leonardi, detto Judo, era il caposcorta e come tale quasi un’ombra di Moro, la sua guardia del corpo più fedele. Quel 16 marzo 1978 si trova nel sedile anteriore della macchina del presidente, vicino a Domenico Ricci. È Leonardi a compiere il tentativo estremo di proteggere Moro con il proprio corpo. Lo ammazzano a 52 anni.

Con la la moglie, lascia anche due figli Sandro e Cinzia di 17 e 18 anni. Ha raccontato Ileana una decina di anni fa: «La nostra disperazione è derivata anche dal fatto che durante tutti questi anni ci siamo trovati soli. Lo Stato non ci ha messo a disposizione psicologi, come si usa fare adesso».

Domenico Ricci, 44 anni: il ‘nemico del popolo’ che salutò il suo bambino

A 44 anni è assassinato Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri. Era marchigiano, nato a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Ottimo motociclista, entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta.

Diviene il suo autista di fiducia e quel 16 marzo 1978 si trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il presidente della DC. Gli contano sette proiettili sparati alla testa. A casa lascia la moglie Maria e due bambini. Uno di loro si chiama Giovanni ed ha 11 anni quando assassinano suo padre.

Anni fa dichiarò al Corriere della Sera: «Non vorrei che fossero solo i brigatisti a scrivere la storia. Perché mio padre era un carabiniere, ma dentro la divisa c’era un uomo che la sera prima di essere ammazzato ha salutato il suo bambino, cioè io, con una carezza e un complimento per la prima partita di calcio giocata coi compagni di scuola».

In una recente intervista a Repubblica Tv ha detto: «Non dico mai che si è sacrificato né che è un eroe. Non si è sacrificato, perché l’adorava quel lavoro, era tutta la sua vita. Mio papà è un eroe del quotidiano, così come tanti suoi colleghi, ma così come tante di quelle persone che si alzano la mattina alle 4 per andare a lavorare in un panificio o nelle fabbriche».

Francesco Zizzi, 30 anni: il ‘nemico del popolo’ che progettava le nozze

Quel 16 marzo Francesco Zizzi è al suo primo giorno di scorta al servizio dell’onorevole Moro.

Lui, nato a Fasano, in provincia di Brindisi, nel 1948, era entrato in Polizia nel 1972. Quattro anni dopo aveva vinto il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno.

All’epoca Francesco vive, come molti altri poliziotti giovani, nella caserma Cimarra, di via Panisperna. Dopo aver ottenuto i gradi di vice brigadiere, inizia a progettare le nozze con la fidanzata Valeria.

Si trova nell’Alfetta bianca che precede la macchina di Moro, seduto al posto del passeggero. I brigatisti gli sparano, ma non muore subito. Il cuore si fermerà all’ospedale Gemelli di Roma. Aveva trent’anni e una grande passione: amava cantare e si esibiva con la chitarra.

La sorella Adriana, al sito di informazione locale Osservatoriooggi.it racconta che quel 16 marzo era «un giorno qualunque per me. Ero un’insegnante ma quel giorno non ero andata a scuola. Stavo svolgendo normali mansioni domestiche quando venne a trovarmi mio suocero che mi spinse ad accendere la tv in quanto raccontava di un grave evento accaduto a Roma.

Appresi la notizia così, dalla tv, in modo brusco e con un’aspirapolvere in mano. E poi la nostra vita è cambiata». Anni fa aveva detto: ««Non piango mai per la morte di mio fratello in presenza di altri e a maggior ragione con mia figlia. Lei voleva sapere, e capire. Le ho raccontato ma in maniera pacifica senza disturbare la sua coscienza. La mia è stata già abbastanza disturbata».

Raffaele Iozzino, 25 anni: il ‘nemico del popolo’ emigrato per lavoro

L’unico che riesce ad uscire dall’auto, tentando la difesa, è la guardia Raffaele Iozzino. I terroristi lo finiscono a terra sparandogli in fronte. Non aveva ancora compiuto i 25 anni.

Raffaele era nato in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953, in una modesta famiglia contadina. Raffaele per lavorare deve emigrare. Nel 1971 si arruola nella Pubblica Sicurezza, frequenta la scuola della Polizia di Alessandria e viene poi aggregato al Viminale e comandato alla scorta di Aldo Moro.

«Lui per non metterci preoccupazione, non ci diceva nulla dei pericoli – ha raccontato il fratello Ciro al Corriere Tv – io ero tra i campi ad aiutare mio padre avevo la radiolina accesa quando, purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro».

Giulio Rivera, 23 anni: il ‘nemico del popolo’ figlio di contadini

Il più giovane è il poliziotto Giulio Rivera. Giulio guida la macchina che precede quella di Moro. I brigatisti lo crivellano con otto colpi di pistola. Era nato nel 1954 a Guglionesi, in Molise, in provincia di Campobasso. I genitori e i fratelli lavorano la terra.

La sorella Carmela: «Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara…non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa: non riesco a sopportarlo».

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