Straniero, ubriaco, oltraggia appuntato della Guardia di Finanza. Condannato.

(Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 13 aprile 2016, n. 15440)

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Trento, con sentenza n. 37/2014 emessa il 31/01/2014 ha confermato la condanna inflitta a S.F. per minaccia grave (art. 612, comma 2, cod. pen.) e oltraggio (art. 341- bis cod. pen.) nei confronti di G.I. , appuntato della Guardia di Finanza che, qualificatosi come tale, lo aveva invitato a smettere di molestare le persone che sostavano fuori dal bar dal quale l’imputato era già stato fatto uscire per le invettive che egli, ubriaco, aveva rivolto contro il titolare che si era rifiutato di fornirgli altri alcolici.

2. Nel ricorso presentato nell’interesse di S. si chiede l’annullamento della sentenza deducendo:

a) incostituzionalità dell’art. 341-bis cod. pen. o, comunque, di quella sua parte che prevede la pena della reclusione per l’oltraggio a pubblico ufficiale, mentre per l’analogo reato di ingiuria nei confronti di un comune cittadino è prevista solo la multa;

b) violazione degli artt. 191 e 493, comma 3, cod. proc. pen., per essere stata acquisita agli atti e utilizzata la relazione di servizio dell’appuntato G. in assenza del consenso della difesa;

c) violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., per mancanza di correlazione fa l’accusa e la sentenza; in alternativa proponendo – se si interpretasse la disposizione nel senso di ammettere che il contraddittorio possa essere anche successivo alla modifica della qualificazione giuridica del fatto – questione sulla sua costituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede la remissione in termini;

d) vizio di motivazione circa la contestualità delle espressioni ingiuriose usate dall’imputato e il compimento di atto di ufficio da parte della persona offesa;

e) vizio di motivazione circa la presenza di più persone nel momento in cui l’imputato pronunciava le offese e l’averle i presenti effettivamente udite;

f) erronea applicazione dell’art. 341-bis cod. pen., non essendo state le espressioni offensive rivolte a G. in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, dal momento che non contengono riferimenti alla sua qualifica;

g) erronea applicazione dell’art. 612 cod. pen., non risultando le minacce espresse (“ammazzo te e la tua famiglia, faccio pure 30 anni di galera, ma Io faccio”) in concreto idonee a intimidire un appuntato della Guardia di Finanza abituato, per il suo lavoro, a situazioni analoghe;

h) omessa motivazione sulla applicazione di pena distante dal minimo edittale.

Considerato in diritto

1. Il contenuto del primo motivo di ricorso è già stato valutato dalla Corte di appello che ha richiamato la sentenza n. 341 del 1994 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della previgente configurazione del reato di oltraggio per la irragionevolezza della previsione di un minimo edittale della pena fissato in sei mesi di reclusione (mentre l’art. 341-bis cod. pen. non prevede un minimo edittale).

Nella stessa sentenza, la Corte costituzionale evidenzia di avere già respinto “questioni di legittimità costituzionale formulate con esclusivo riferimento all’art. 3 Cost. per via dell’asserita arbitraria diversificazione, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria”, trattandosi di aspetti rimessi alla discrezionalità del legislatore (sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980; ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) e precisa che “la plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione”.

Coerentemente con la natura indisponibile del bene tutelato (il buon andamento della pubblica amministrazione) dalla norma, l’oltraggio a pubblico ufficiale è perseguibile d’ufficio mentre l’ingiuria lo è a querela di parte e, nella stessa prospettiva, risulta manifestamente infondata la tesi secondo cui la diversità tipologica fra la pena (carceraria) prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale e quella (pecuniaria) per il comune reato di ingiuria violerebbe l’art. 3 Cost..

2. Quanto alla violazione degli artt. 191 e 493, comma 3, cod. proc. pen., dedotta per essere stata acquisita agli atti e utilizzata la relazione di servizio dell’appuntato G. (pur non rientrante nella espressione “annotazione di P.G. degli altri appartenenti alla P.G. testimoni dei fatti” indicante, nel verbale di udienza, gli atti da acquisire) in assenza del consenso della difesa, vale rilevare che non irragionevolmente la sentenza impugnata, pur dando atto della approssimativa verbalizzazione, osserva che l’espressione “su accordo delle parti, si danno consenso al deposito denuncia querela e annotazione di p.g. degli altri appartenenti alla p.g. testimoni e fatti” va intesa come comprendente anche la predetta relazione di G. per la considerazione che, diversamente, il Pubblico ministero non avrebbe avuto ragione di rinunciare alla sua audizione e che la difesa dopo l’acquisizione non ne chiese l’immediata espunzione dagli atti. Inoltre, il ricorrente non contesta la coincidenza fra i contenuti essenziali della relazione e quelli della denuncia-querela (pacificamente acquisita) in considerazione della quale la Corte ha considerato irrilevante la questione.

Su queste basi, il motivo di ricorso non può essere accolto.

3. Il terzo motivo di ricorso è infondato.

Per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione degli elementi essenziali della fattispecie concreta che renda incerto l’oggetto dell’imputazione con reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Rv. 248051): la violazione del principio di corrispondenza tra l’imputazione e la sentenza ricorre solo se la modifica del fatto e della sua qualificazione giuridica pregiudica le possibilità di difesa dell’imputato impedendogli di utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, Rv. 257782; Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Rv. 237415).

Nel caso in esame non occorreva contestazione, essendo stata attribuita al fatto – peraltro già dal primo grado di giudizio – una qualificazione giuridica meno grave (art. 612, comma 2, cod. pen.) di quella enunciata nell’imputazione (art. 337 cod. pen..), mentre il principio affermato dalla Corte EDU, con sentenza 11-12-2007, Drassich – che ha ravvisato violazione dell’art. 6 CEDU nella riqualificazione giuridica del fatto effettuata ex officio in sede di legittimità, senza che sia stata data all’imputato, la possibilità di essere informato della riqualificazione e di difendersi adeguatamente – riguarda il caso in cui il titolo di reato ravvisato sia più grave, con conseguenze sfavorevoli all’imputato a causa del mutato nomen iuris, sicché il diritto al contraddittorio va assicurato informando l’imputato e il suo difensore dell’eventualità di una qualificazione giuridica del fatto diversa da quella contestata (Sez. 6, n. 24631 del 15/05/2012, Rv. 253109; Sez. 6, 12-11-2008, n. 45807).

4. Relativamente al quarto motivo di ricorso, concernente la contestualità delle espressioni ingiuriose usate dall’imputato e il compimento di atto di ufficio da parte della persona offesa, deve registrarsi che nella ricostruzione degli eventi effettuata dalla sentenza impugnata, le condotte di S. maturarono dopo che l’assistente G. si fu qualificato come appartenente alla Guardia di Finanza e dopo che, in questa veste, si accinse a identificarlo.

Lo mostra lo stesso brano di querela riportato dal ricorrente a supporto della sua ricostruzione, dove si legge “prontamente mi identificavo come finanziere e mostravo il mio distintivo, lo straniero non desisteva…”.

5. La Corte ha plausibilmente desunto la presenza di più persone dal riferimento (nella querela) agli avventori (più d’uno, quindi almeno due) “che stavano seduti sugli sgabelli”, né può trascurarsi che nel locale, all’esterno del quale si consumò l’episodio, stava il gestore ancora attento allo sviluppo degli eventi dopo che, poco prima, contro lui l’imputato aveva inveito. La contiguità spaziale dei presenti rende ragionevole presumere che i presenti abbiano effettivamente udito le frasi pronunciate dall’imputato.

Vale, comunque, osservare quanto segue. La sentenza n. 341 del 1994 della Corte costituzionale (richiamando le precedenti sentenze nn. 109 del 1968, 165 del 1972, 51 del 1980 e le ordinanze nn. 323 del 1988 e 127 del 1989) ha precisato che “la plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all’ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione”.

Se il bene giuridico fondamentale tutelato dall’art. 341-bis cod. pen. è il buon andamento della pubblica amministrazione, allora è sufficiente a integrare il reato la semplice possibilità che le espressioni lesive possano essere udite dai presenti, perché già potenzialità può compromettere la prestazione del pubblico ufficiale, disturbato – mentre compie un atto del suo ufficio – dall’avvertire condizioni potenzialmente lesive per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte.

In quest’ottica, la giurisprudenza formatasi sul punto – relativamente a quella che allora era una circostanza aggravante e ora è elemento costitutivo del reato – e secondo la quale non è necessario che gli astanti sentano effettivamente le parole oltraggiose, bastando che abbiano la possibilità di udirle (Sez. 6, n. 15559 del 07/07/1989, Rv. 182513) o, comunque, di rendersi conto del comportamento oltraggioso (Sez. 6, n. 1223 del 19/11/1980, dep. 1981, Rv. 147653) – può recepirsi nella considerazione che la presenza di astanti è condizione atta a rendere più impegnativa la prestazione del pubblico ufficiale.

Su queste basi può esplicitarsi il seguente principio di diritto: poiché il bene giuridico fondamentale tutelato dall’art. 341-bis cod. pen. è il buon andamento della pubblica amministrazione, allora è sufficiente che le espressioni offensive rivolte al pubblico ufficiale possano essere udite dai presenti, perché già questa potenzialità costituisce un aggravio psicologico che può compromettere la sua prestazione, disturbandolo – mentre compie un atto del suo ufficio – perché gli fa avvertire condizioni avverse, per lui e per la pubblica amministrazione della quale fa parte, e ulteriori rispetto a quelle ordinarie.

6. Anche il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato.

L’assunto che esclude l’oltraggio sul presupposto che le espressioni offensive sarebbero state rivolte a G. non in quanto pubblico ufficiale ma in quanto persona, non contenendo riferimenti alla sua qualifica, poggia su una artificiosa distinzione concettuale e trascura che le espressioni aggressive conseguirono all’intervento del finanziere nella sua veste di pubblico ufficiale già palesata all’imputato.

7. La valutazione di una minaccia come “grave” ex art. 612, comma 2, cod. pen. è apprezzamento di fatto non censurabile nel giudizio di legittimità, se congruamente motivata in relazione alla entità del turbamento psichico che l’atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo (Cass. pen. Sez. 2, n. 277 del 21/02/1966, Rv. 101788).

A tal fine, non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata perché rilevano l’insieme delle condizioni concrete nelle quali è espressa, particolarmente quelle dell’autore del delitto e della persona offesa (Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015, Rv. 26434; Sez. 1, n. 9314 del 05/04/1990, Rv. 184724; Sez. 5, n. 43380 del 26/09/2008, Rv. 242188). Nella fattispecie, la Corte ha congruamente osservato (pag. 7-8) che la minaccia di morte per G. e i suoi familiari, proveniva da soggetto che aveva reiterato i suoi comportamenti aggressivi nonostante l’intervento del pubblico ufficiale e che potenziò la sua minaccia evidenziando che l’entità della pena che poteva derivargliene non lo dissuadeva.

L’apprezzamento della gravità della minaccia non necessariamente deve collegarsi allo specifico evento prefigurato (nella fattispecie la morte) ma è sufficiente che allarmi il soggetto passivo anche in vista di danni minori eppure gravi. È palese, inoltre, che il fatto che il oggetto passivo sia in qualche misura esposto per la sua professione a condotte minatorie non lo rende impermeabile agli effetti psicologici delle stesse.

8. Infondato è la dedotta omessa motivazione della applicazione della pena di tre mesi di reclusione perché risulta prossima al minimo edittale considerato che per il reato posto in continuazione (art. 612, comma 2 cod. pen.) la pena minima è di 6 mesi di reclusione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.