Stringe i seni di una ragazza con forza: è violenza sessuale (Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 2 agosto 2017, n. 38646).

…, si omette …

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 18 marzo 2016 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del 10 dicembre 2014, in forza della quale Ib. Bo. Sa. Ha. è stato condannato alla pena, sospesa, di anni uno e 2 mesi due di reclusione previa concessione delle attenuanti generiche, oltre alle sanzioni accessorie ed al risarcimento del danno nonché alla rifusione delle spese in favore della parte civile Yu. Ha., per il reato di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen..

2. Avverso la predetta decisione l’imputato, tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione articolato su due motivi d’impugnazione.

2.1. Col primo motivo, invocando mancanza e contraddittorietà della motivazione, è stato dedotto il mancato esame dell’attendibilità della persona offesa, la cui famiglia era divisa da quella dell’imputato da una grave contesa di natura economica sfociata in ripetute contrapposizioni anche giudiziarie.

Oltre a ciò, la versione sostenuta dagli stessi familiari della parte civile si presentava incongrua anche in relazione alla parte terminale della lite che aveva opposto le parti, ossia il suo svolgimento all’interno ovvero all’esterno della chiesa copta ortodossa di Pero.

2.2. Col secondo motivo è stata censurata la qualificazione giuridica del fatto, connotato da una fugacità del toccamento del seno, laddove dalla stessa dichiarazione della donna sarebbe stato più logico pensare ad un gesto inconsulto non diretto volontariamente verso i seni.

Mentre in ogni caso non vi era stato alcun riferimento, diretto o indiretto, alla sfera sessuale della persona offesa.

3. Il Procuratore generale ha concluso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

Considerato in diritto

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1. Va anzitutto chiarito che le censure prospettate dal ricorrente tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio, che devono essere rimessi all’esclusiva competenza del giudice di merito, mirando a prospettare una versione del fatto diversa e alternativa a quella posta a base del provvedimento impugnato.

Deve poi condividersi il principio, secondo cui quando le sentenze di primo e secondo grado “concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente” (ex plurimis, Sez. 4, n. 15227 del 14/02/2008, Baretti, Rv. 239735).

I motivi di ricorso possono essere esaminati alla luce della complessiva motivazione adottata da entrambe le decisioni di merito, tenendo conto del fatto che i motivi di ricorso proposti dal ricorrente ribadiscono censure già puntualmente disattese dai giudici del merito, le cui motivazioni non presentano errori giuridici o manifeste illogicità.

Ciò posto, del tutto condivisibile ed esente da censura appare infatti il percorso motivazionale seguito, tanto dal Tribunale di Milano quanto dalla Corte territoriale, i quali hanno attribuito credibilità ed attendibilità alla narrazione della vittima.

Vero è, infatti, che il nucleo delle dichiarazioni della persona offesa (fermo restando comunque il degradato clima di rapporti tra la famiglia del ricorrente e quella della ragazza, a seguito di sfortunate iniziative economiche congiunte) non si è mai modificato; è stato vissuto nell’immediatezza anche dal fratello (e dell’agitazione di entrambi è stato dato conto nella deposizione del padre, intervenuto sul posto pochi minuti dopo), non è stato in alcun modo smentito dal complessivo esito istruttorio, come ha correttamente annotato il provvedimento impugnato, il quale ha appunto citato come i restanti dettagli dell’episodio, successivi al fatto sessuale contestato, erano marginali e ben potevano essere stati dimenticati.

Anche a prescindere da questo rilievo, la Corte osserva che col ricorso l’imputato ha lamentato che la sentenza impugnata avrebbe dimenticato un fatto eclatante, ossia la lite all’interno della Chiesa durante la funzione religiosa; al contrario, in sede di appello l’odierno ricorrente aveva sostenuto che i testi della difesa avevano riferito di una lite al di fuori della Chiesa, sempre tra lo stesso ricorrente e il padre della ragazza aggredita.

Va da sé che, anche al di là dei principi richiamati in tema di sentenza doppiamente conforme, non è neppure puntualmente precisata (anzi la topografia dell’episodio in questione è addirittura invertita) quale fosse la circostanza che i Giudici del merito non avrebbero rievocato in modo compiuto, si da attribuire credibilità ad un racconto che, sempre secondo il ricorrente, non ne avrebbe invece meritata.

4.2. In relazione al secondo motivo di ricorso, è appena il caso di ricordare che la condotta vietata dall’art. 609-bis cod. pen. ricomprende oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, ovvero in un coinvolgimento della corporeità sessuale di quest’ultimo, sia idoneo e finalizzato a porne in pericolo la libera autodeterminazione della sfera sessuale.

Pertanto la valutazione del giudice sulla sussistenza dell’elemento oggettivo non deve fare riferimento unicamente alle parti anatomiche aggredite ed al grado di intensità fisica del contatto instaurato, ma deve tenere conto dell’intero contesto in cui il contatto si è realizzato e della dinamica intersoggettiva (Sez. 3, n. 37395 del 02/07/2004, A., Rv. 230041), non avendo rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Sez. 3, n. 33464 del 15/06/2006, B., Rv. 234786).

L’integrazione infatti della fattispecie criminosa di violenza sessuale non richiede che l’atto sessuale sia finalizzato al soddisfacimento del piacere erotico, essendo necessario e sufficiente, a fronte del dolo generico del reato, che l’agente abbia la coscienza e volontà di realizzare gli elementi costitutivi del medesimo (in specie, appunto, si trattava di palpeggiamento dei glutei e toccamento del seno della persona offesa posti in essere al fine di intimorire ed umiliare la stessa)(così Sez. 3, n. 21336 del 15/04/2010, M., Rv. 247282).

In definitiva, quindi, l’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale è integrato dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona offesa non consenziente, sicché non è necessario che detto atto sia diretto al soddisfacimento dei desideri dell’agente né rilevano possibili fini ulteriori – di concupiscenza, di gioco, di mera violenza fisica o di umiliazione morale – dal medesimo perseguiti (Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014, dep. 2015, P., Rv. 262470).

In specie, alla stregua delle richiamate considerazioni sulla ribadita attendibilità della vittima, nonché avuto riguardo ai ricordati principi in tema di c.d. doppia conforme e di acquisita nozione di atto sessuale, quest’ultimo è stato correttamente individuato nella forte stretta dei seni della ragazza (tant’è che la sensazione dolorosa si era protratta per un paio di giorni), a prescindere dall’intento dell’aggressore di soddisfare il proprio piacere.

5. I motivi di ricorso, quindi, appaiono manifestamente infondati, e ne va pertanto dichiarata l’inammissibilità.

Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.