Ucciso comandante del Corpo degli agenti di custodia. Omicidio in una agenzia ippica. A sparare un poliziotto penitenziario in servizio nella stessa struttura. Determinante lo stato mentale dell’omicida.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 18 gennaio – 23 febbraio 2016, n. 3506) 

Svolgimento dei processo

II 6 marzo 1994 il maresciallo Giuseppe G., comandante dei cor­po degli agenti di custodia presso la Casa Circondariale di Mantova – mentre si trovava in una agenzia ippica – venne ucciso a colpi di arma da fuoco da L.A., agente di polizia penitenziaria in servizio presso il medesimo istituto di pena.

I suoi congiunti (e precisamente il coniuge e i due figli) agirono nei confronti dei Ministero della Giustizia per ottenere il risarcimento dei conseguenti danni, patrimoniali e non patrimoniali, sull’assunto che sussistesse una responsabilità dell’amministrazione per avere con­sentito all’A. di lasciare il carcere recando con sé l’arma in dotazione, poi usata per commettere il delitto, nonostante i molte­plici riscontri sul suo allarmante stato di salute mentale.

La domanda venne accolta dal Tribunale di Brescia con sentenza dell’8 novembre 2007, confermata con la sentenza dei 5 aprile 2013 della Corte di Appello di Brescia, avverso la quale ricorre il Ministero sulla base di tre motivi, cui resistono con controricorso C.S., nonché P. e L.G..

Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso viene denunziata «violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 2043 c.c., 40 c.p., 41 c.p., 113 c.p. e 73 R.D. 6-5-1940 n. 635 (art. 360 n. 3 c.p.c.)».

Il motivo è infondato.

Il Ministero ricorrente si duole del fatto che la corte abbia ravvisato a proprio carico un concorso colposo omissivo nell’omicidio volonta­rio commesso dall’A., per essere stato consentito a quest’ultimo di lasciare il carcere in cui prestava servizio in posses­so dell’arma in dotazione, poi usata per commettere il delitto, pur mancando, a suo dire, un obbligo giuridico di impedire l’evento e non sussistendo effettiva negligenza imputabile a soggetti diversi dalla vittima.

Assume che non sarebbe stata violata alcuna disposizione normati­va che, nelle circostanze dei caso concreto, imponesse di privare l’agente dell’arma di servizio a causa dei suoi problemi di salute mentale, e che non vi fossero ragionevoli motivi perché il ritiro fos­se disposto la mattina dell’omicidio proprio da chi (ispettore T.) solo quel giorno sostituiva il comandante G., in contrasto con il comportamento fino a quel momento da questi tenuto, non ricor­rendo circostanze sopravvenute idonee ad ingenerare il sospetto che l’A. potesse effettivamente utilizzarla per commettere il grave reato in questione, soprattutto tenendo conto dei repentino svolgimento dei fatti e della complessità dei profili, anche giuridici, da considerare in proposito.
In particolare, deduce:

a) che ai sensi dell’art. 73, co. 2, del R.D. 6 maggio 1940 n. 635 gli agenti di pubblica sicurezza hanno diritto di portare l’arma in dota­zione senza licenza, a termini dei rispettivi regolamenti;

b) che non sussisteva, alla data dei fatti, alcuna delle fattispecie cui le circolari ministeriali vigenti ricollegavano la possibilità di ritiro dell’arma stessa (in particolare, viene richiamata la circolare dei 1985 – unica antecedente all’evento – che richiedeva a tal fine l’assenza dell’agente dal servizio per infermità o ricoveri ovvero l’aspettativa per infermità, fattispecie non ricorrenti nel caso di spe­cie), onde il suddetto ritiro sarebbe stato addirittura illegittimo, tan­to da esporre l’amministrazione a responsabilità laddove l’agente, privato dell’arma, si fosse trovato ad essere vittima anziché autore di un reato, senza potersi difendere;

c) che l’A., dopo il rientro dal periodo di assenza per ma­lattia e in attesa della visita specialistica prescritta per il suo stato ansioso depressivo, era stato regolarmente inserito nei turni di ser­vizio – che presupponevano il possesso dell’arma – proprio dal co­mandante G., e non vi erano motivi sopravvenuti tali da giustifi­care una modifica delle suddette disposizioni da parte di un mero sostituto.

Secondo i resistenti il motivo sarebbe inammissibile, in quanto ten­dente ad ottenere una rivalutazione dei fatti più che a denunziare una vera e propria violazione di legge, fermo restando che a loro avviso la responsabilità era nella specie presunta per legge, doven­do farsi applicazione dell’art. 2050 c.c. in considerazione della peri­colosità dell’attività svolta dalla amministrazione penitenziaria. Deducono inoltre che vi era stata senz’altro da parte dei funzionari dell’amministrazione convenuta la violazione di una serie di norme di garanzia la cui osservanza avrebbe impedito l’omicidio, e segna­tamente:

a) delle norme regolamentari (circolare ministeriale n. 302776/1-9 del 25 settembre 1985, poi confermata dalla circolare n. 3383/5833 del 16 marzo 1994, successiva ai fatti) che impongono il ritiro dell’arma di ordinanza all’agente in caso di assenza dal servizio per malattia (consentendo la deroga solo in caso di necessità di «assi­curare un legittimo presidio a militari particolarmente esposti ad a­zioni di rivalsa», circostanza nella specie non ricorrente); b) di quelle che impongono al direttore della struttura carceraria di garantire la sicurezza al suo interno, anche mediante il coordina­mento dell’attività di disciplina del comandante delle guardie carce­rarie (art. 3 del D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431; art. 23 D. Lgs. 30 ot­tobre 1992 n. 443; art. 14, co. 1, punto 3, della legge 15 dicembre 1990 n. 395; artt. 170 e 172 del R.D. 30 dicembre 1937 n. 2584); c) di quelle che impongono comunque all’agente portinaio di so­spendere l’entrata o l’uscita dal carcere degli agenti sui quali si ab­bia fondato motivo di sospetto (art. 35 e art. 71 del R.D. 30 dicem­bre 1937 n. 2584).

Osserva la Corte che la censura del Ministero per un verso non co­glie esattamente la ratio della decisione impugnata e, per altro ver­so, appare effettivamente rivolta in qualche modo a sollecitare, i­nammissibilmente in sede di legittimità, una diversa valutazione delle prove.

Nella sentenza impugnata non si afferma la responsabilità del Mini­stero esclusivamente per l’avvenuta violazione delle specifiche nor­me regolamentari, richiamate da entrambe le parti, e che avrebbero secondo i resistenti, ma non secondo il ministero ricorrente, impo­sto il ritiro dell’arma all’A. (cd. colpa specifica).

Al contrario, la corte di appello afferma espressamente potersi pre­scindere dalla questione della diretta applicabilità delle suddette norme regolamentari, per fondare la conclusione della responsabili­tà dell’amministrazione sulla cd. colpa generica dei suoi funzionari, i quali il giorno 6 marzo 1994 consentirono all’A. – sebbene esentato dal servizio – di prelevare la propria arma e di recarsi in possesso di essa all’esterno dei carcere, sottolineando l’inadeguatezza della complessiva gestione della vicenda. In tal modo si intende chiaramente evidenziare che – a prescindere dall’esistenza di uno specifico obbligo derivante dalle disposizioni normative invocate – nella situazione che si era andata delineando nel tempo era la stessa evoluzione degli avvenimenti verificatisi nel­la giornata del 6 marzo 1994 che doveva imporre all’ispettore T. (comandante in sostituzione del G.), alla direzione del carcere, nonché ai due agenti portinai L. e F., di attivarsi per impedi­re che l’A. si allontanasse dal carcere con l’arma. Il che, come risulta accertato in fatto, certamente rientrava nei loro poteri, a prescindere dalla sussistenza dei presupposti per la diretta applicazione delle specifiche ipotesi considerate nelle circolari e dal­le altre disposizioni relative al possesso dell’arma in dotazione.

Questa valutazione, corretta sul piano logico, si sottrae evidente­mente a qualsiasi censura di violazione di legge in relazione alle ci­tate disposizioni regolamentari (oltre che dell’art. 73, co. 2, del R.D. 6 maggio 1940 n. 635), da cui ha inteso espressamente prescinde­re.

Per altro verso, nella parte in cui risulta fondata sulla ricostruzione in fatto degli eventi del giorno 6 marzo 1994, non è censurabile in sede di legittimità (e non è in effetti stata censurata con il presente motivo, che ha ad oggetto esclusivamente una pretesa violazione di norme giuridiche).

Essa risulta del resto del tutto conforme ai principi di diritto affer­mati da questa stessa sezione in tema di causalità omissiva, secon­do cui «in relazione alla responsabilità per danni da illecito omissi­vo, l’obbligo giuridico di impedire il verificarsi di un evento dannoso può sorgere in capo ad un soggetto non soltanto quando una norma o un preciso dovere negoziale imponga di attivarsi per impedire l’evento, ma anche quando si verifichi una specifica situazione che esiga il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui» (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14484 del 29 luglio 2004; Sez. 2 Sentenza n. 3876 del 12 marzo 2012; Sez. 3, Sentenza n. 22588 del 1° dicembre 2004).

Il che esclude anche la denunziata violazione degli artt. 40 e 41 c.p. e 2043 c.c., in relazione ai principi che regolano l’accertamento dei nesso di causalità tra condotta e danno-evento in ipotesi di condot­te omissive.

Deve infine sottolinearsi che nell’ottica fatta propria dalla sentenza impugnata, che ravvisa la colpa cd. generica dell’amministrazione in relazione allo svolgimento degli avvenimenti nella giornata del 6 marzo 1994, nessun rilievo può attribuirsi alla condotta dei G. nel periodo antecedente.

2.- Con il secondo motivo di ricorso viene denunziato «omesso e­same circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di di­scussione tra le parti (art. 360, n. 5 c. p. c.) » . Il motivo è infondato.

Occorre premettere che la sentenza impugnata è stata pubblicata in data 5 aprile 2013, e quindi nella specie è applicabile il nuovo testo dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del de­creto legge 22 giugno 2012 n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012 n. 134, secondo cui non sono più deducibili, come in passato, gene­ricamente vizi di motivazione, ma esclusivamente l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discus­sione tra le parti».

Secondo il recente arresto delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sezioni Unite, 7 aprile 2014 n. 8053 e n. 8054; conf.: Cass. 27 novembre 2014 n. 25216; 9 luglio 2015 n. 14324), la riformula­zione della disposizione «va interpretata, alla luce dei canoni erme­neutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui:

a) l’anomalia motivazionale denuncíabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge co­stituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal con­fronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza’, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’;

b) il nuovo testo dell’art. 360, co. 1, n. 5), c, p. c., introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a di­re che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto stori­co rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le ri­sultanze probatorie;

d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigo­roso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, co. 1, n. 6), e all’art. 369, co. 2, n. 4), c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato’, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso».

Il Ministero ricorrente lamenta che la corte di merito abbia omesso di prendere in considerazione lo sviluppo temporale della vicenda nel giorno dell’omicidio, sebbene ciò fosse decisivo ai fini della deci­sione e fosse stato oggetto di puntuali deduzioni in sede di grava­me, specie a fronte dell’imputabilità in primo luogo alla stessa vitti­ma delle eventuali precedenti responsabilità, per la «gestione com­plessiva del caso».

In particolare, si duole del fatto che non siano state prese in consi­derazione le proprie osservazioni in ordine:

a) alla irrilevanza – sotto i profili considerati di responsabilità – sia dei sintomi riferiti dall’A. la mattina dei fatti (senso di sof­focamento, che gli impediva di prestare il servizio al chiuso), sia del certificato dei medico del carcere a questi direttamente rilasciato, senza alcun previo avviso all’ispettore T., il quale ebbe a riceverlo intorno alle ore 12 (certificato dal quale emergeva in ogni caso solo uno «stato di ansia acuto e senso di oppressione in ambiente chiuso», che avrebbe al più giustificato l’assegnazione dell’agente al servizio esterno, da svolgersi comunque necessariamente armato);

b) all’impossibilità di operare comunque, nel giro dei pochi minuti intercorsi tra la manifestazione dell’intenzione dell’A. di al­lontanarsi dalla struttura carceraria prelevando preventivamente la propria arma (avvenuta intorno alle ore 12.20 e concretizzatasi in­torno alle ore 12.30) e il delitto (commesso pochi minuti dopo), le valutazioni necessarie per impartire un ordine di servizio volto a prevenire la consegna dell’arma stessa o addirittura a disporre il successivo spossessamento nei confronti dell’agente (non potendosi certo immaginare di operare in proposito con semplici indicazioni orali).

Ma il fatto storico, e cioè lo svolgimento temporale degli avveni­menti della giornata del 6 marzo 1994, risulta espressamente preso in considerazione dalla corte di appello.

Anche se sinteticamente e richiamando la motivazione dei tribunale sul punto, che ha inteso confermare, la corte di merito ha giudicato che l’articolarsi temporale di tale svolgimento dei fatti non escludes­se la responsabilità dell’amministrazione, ed ha così disatteso le os­servazioni in proposito dei Ministero ricorrente.

Dunque, certamente non può ritenersi omesso l’esame di uno o più dei fatti decisivi indicati.

Le considerazioni sviluppate nel motivo di ricorso in ordine alla suc­cessione temporale dei fatti avvenuti la mattina del 6 marzo 1994 e alla impossibilità di ravvisare in essi una responsabilità dei funzio­nari del Ministero si risolvono in realtà in una inammissibile richiesta di riesame del fatto e di rivalutazione delle prove in sede di legitti­mità.

3.- Con il terzo motivo di ricorso viene denunziata «violazione o fal­sa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 1227 c. c. (art. 360 n. 3 c.o.c.)».

Anche questo motivo è infondato.

Il Ministero ricorrente lamenta che, pur avendo la corte di appello ritenuto sussistente una responsabilità dell’amministrazione in ordi­ne alla complessiva gestione del caso relativo alla situazione menta­le dell’A., in particolare per la mancata adozione di provvedimenti limitativi e restrittivi nei suoi confronti, e pur essendo e­vidente, a suo dire, che l’adozione di tali provvedimenti sarebbe stata in primo luogo di competenza proprio della vittima, coman­dante del corpo presso il quale l’A. prestava servizio, da ri­tenersi pertanto – in tale ottica – quanto meno corresponsabile dell’evento, non ne aveva tratto le necessarie conseguenze in ordi­ne alla riduzione dell’importo dei risarcimento, ritenendo erronea­mente che lo impedisse la sussistenza della solidarietà passiva tra i vari obbligati nei confronti dei danneggiati (salva la ripartizione in­terna dell’obbligazione).

Secondo i resistenti la censura si risolverebbe in una questione di fatto, non proponibile in sede di legittimità; il motivo sarebbe i­nammissibile, perché i giudici di merito avrebbero escluso ogni re­sponsabilità del G., ed infondato, in quanto l’affermazione della responsabilità dell’amministrazione si baserebbe sui fatti avvenuti nella giornata del 6 marzo 1994 (sia pure con riguardo non solo alla condotta dell’ispettore T., ma anche a quella degli agenti portinai e dei direttore del carcere) e non sulla precedente gestione della vi­cenda. I turni di servizio degli agenti di custodia erano stati predi­sposti dal G. prima del rientro in servizio dell’A., in quanto tale rientro non consentiva in astratto alcun esonero (né lo consentivano gli accertamenti medici in corso), ma poi nel concreto sarebbe spettato al T. di modificarli, sulla base della riscontrata situazione di salute dell’agente il giorno del fatto.

La questione dell’art. 1227 c.c. sarebbe nuova, in quanto (peraltro solo in grado di appello) il Ministero si era limitato a sostenere che vi fosse stata «eccessiva valutazione del danno morale, anche tenuto conto del fatto che buona parte delle responsabilità individuate in capo all’istituto carcerario fossero riferibili proprio al G.», ma non a­veva espressamente invocato l’applicazione della disposizione.

Orbene, è certo che la questione della eventuale corresponsabilità dei G. nella complessiva gestione della vicenda relativa alla si­tuazione dell’A. risulta specificamente proposta in appello solo sotto il profilo dell’incidenza causale della sua condotta nella determinazione dei quantum dei danno morale da liquidare in favo­re dei suoi congiunti (cfr. il punto B, a pagina 19 della sentenza impugnata, ripetutamente richiamato dalla stessa amministrazione nel ricorso, per ribadire che l’esame della questione era stato sollecitato al giudice di appello).

Posta in questi termini, ed in mancanza di una chiara indicazione nella rubrica del motivo di ricorso, che richiama genericamente l’art. 1227 c.c., essa potrebbe intendersi riferita al secondo comma della norma (in quanto relativa ai danni conseguenza, ovvero al cd. rap­porto di causalità giuridica) e non al primo comma (che riguarda il danno evento, ovvero il cd. rapporto di causalità materiale).

Sotto tale profilo (a parte ogni dubbio sulla sua decisività) sarebbe però certamente inammissibile, in quanto non risulta che sia stata propo­sta specifica e tempestiva eccezione sin dal primo grado del giudizio (come sarebbe stato necessario, trattandosi di eccezione in senso stretto, secondo l’orientamento di questa Corte: cfr. per tutte Sez. 2, Sentenza n. 27123 dei 19 dicembre 2006: «in tema di risarci­mento del danno, l’ipotesi disciplinata dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., laddove esclude il risarcimento del danno che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, costituisce og­getto di una eccezione in senso stretto»).

Ma anche con riguardo al concorso di colpa del danneggiato nella causazione dell’evento, ai sensi del primo comma dell’art. 1227 c.c., che è rilevabile di ufficio, risulta infondata.

Come già esposto in relazione al primo motivo di ricorso, la ricostruzione in fatto operata dalla corte di appello (oltre che dal giudi­ce di primo grado), non più censurabile nella presente sede, ricolle­ga sostanzialmente la responsabilità dell’amministrazione ai com­portamenti tenuti nella giornata del 6 marzo 1994 dall’ispettore T., dal direttore del carcere, nonché dai due agenti portinai L. e F., sebbene valutati alla luce delle pregresse vicende, così im­plicitamente escludendo una colpa concorrente del G. per il pe­riodo precedente.

E i riferimenti contenuti nella motivazione della pronunzia alla «complessiva gestione del caso A.», e alla mancata ado­zione di provvedimenti limitativi e restrittivi nei suoi confronti, non possono ritenersi, come preteso dal Ministero ricorrente, necessariamente implicare una corresponsabilità del comandante G..

La «complessiva gestione del caso», anche nel periodo precedente il 6 marzo 1994, coinvolge una serie di altri organi, soggetti ed autorità (quali la direzione del carcere e l’amministrazione carceraria nel suo complesso, nonché gli stessi sanitari ai quali era stato richiesto di accertare, a diverso titolo, la situazione di salute mentale dell’agente), e una serie di complesse relazioni tra essi, di modo che è ben possibile ipotizzare una responsabilità dell’amministrazione convenuta, anche senza il concorso di una specifica responsabilità individuale del G..

L’eventuale rilievo del concorso di colpa del G. nella determinazione dell’evento (sia officioso che su istanza di parte) avrebbe po­stulato accertamenti di fatto e approfondite valutazioni, non solo con riguardo alla predisposizione dei turni di servizio, ma più in ge­nerale con riguardo alla sua complessiva condotta quale comandante del reparto nel periodo antecedente al 6 marzo 1994, ed in rapporto alla concreta emersione delle vicende relative ai problemi mentali dell’A. ed agli accertamenti medici svolti in propo­sito, nonché in rapporto alla compatibilità della situazione di questi con il servizio da svolgere con il maneggio di armi, pur in mancanza di espressa dispensa fondata su idonea certificazione medica.

Tali accertamenti non risultano neanche sollecitati (quanto meno) al giudice di appello, onde le conseguenti valutazioni non avrebbero potuto svolgersi, tanto meno nel senso preteso dal Ministero ricor­rente.

La corte di merito, in altri termini, non avrebbe in nessun ca­so potuto procedere al rilievo dei suddetto concorso di colpa, in mancanza dei necessari elementi.

In definitiva, dunque, il mancato accoglimento del motivo di appello relativo alla eventuale corresponsabilità del G. nell’evento che ha poi determinato la propria morte (almeno nei limiti in cui esso può dirsi effettivamente sottoposto al giudice di secondo grado), si sottrae a censura, sebbene per motivi in parte diversi da quelli indi­cati dalla corte di merito nella pronunzia impugnata, la cui motiva­zione deve pertanto intendersi corretta, per quanto occorra, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nei sensi sin qui esposti.

4.- II ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base dei principio della soccombenza come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna il Ministero ricorrente a pagare le spese dei presente giudizio in favore dei controricorrenti, liquidandole in com­plessivi € 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.