Un figlio uccide il genitore? Niente aggravante se è adottivo (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 1 marzo 2018, n. 9427).

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 
SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORTESE Arturo – Presidente –

Dott. BONITO Francesco M. S. – Consigliere –

Dott. SIANI Vincenzo – Consigliere –

Dott. BONI Monica – Consigliere –

Dott. MINCHELLA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:
SENTENZA

 

Sul ricorso proposto da:

T.A., nato il (OMISSIS);

Avverso la sentenza n. 7/2015 della Corte di Assise di Appello di Trieste in data 26/02/2016;

Visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

Udita in pubblica udienza la relazione svolta dal Consigliere Dott. Antonio Minchella;

Udito il Procuratore Generale, in persona del Dott. Viola Alfredo Pompeo, che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per rideterminazione della pena e rigetto del ricorso nel resto;

Udito il difensore della parte civile Avv. Giuseppe Campanelli, che ha chiesto il. rigetto del ricorso;

Udito il difensore dell’imputato, Avv. Roberto Mete, che ha insistito per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza in data 08/01/2015 il GUP del Tribunale di Udine, in esito a rito abbreviato, condannava T.A. alla pena dell’ergastolo per l’omicidio del figlio ventenne, il tentato omicidio della moglie, il porto in luogo pubblico di un coltello e per maltrattamenti in famiglia.

Si legge in sentenza che i fatti erano avvenuti nella notte tra il (OMISSIS), nell’ambito di un difficile rapporto familiare tra l’imputato, la moglie ed i figli adottivi: più esattamente, il T., di origini moldave, aveva lavorato a lungo all’estero e cioè in Spagna, dalla quale poi era stato espulso e così aveva deciso di lavorare in Italia.

Nel corso degli anni aveva sempre inviato il danaro per il sostentamento economico alla moglie ed ai figli, che continuavano a vivere in Moldavia; poi nell’anno 2010 la moglie aveva deciso di raggiungerlo in Italia ed iniziare una costante convivenza, ma i rapporti erano difficili a causa della abitudine alcolista del T., il quale sovente picchiava la moglie ed era violento e collerico anche verso i figli.

Vi erano stati ritorni della moglie in Moldavia e poi nuovi riavvicinamenti, costellati da episodi di violenza, fughe della donna e della figlia in casa di amici, atti di difesa della madre da parte del figlio che si contrapponeva all’imputato nonchè tentativi di riavvicinamento.

Infine nell’anno 2013 tutti i familiari vivevano insieme; la sera del (OMISSIS) era esplosa una consueta lite per un motivo di poco conto: il T. era tornato ubriaco a casa ed aveva preso a litigare con fare così violento da indurre il figlio a contrapporsi a lui nel tentativo di difendere la madre; l’imputato lo aveva minacciato con un cacciavite e la donna aveva chiesto l’intervento del servizio sanitario “118”, il quale avvertiva i Carabinieri; tutti giungevano alla dimora e constatavano sia l’ubriachezza del T. che i segni evidenti della lotta negli arredi; l’imputato veniva condotto in ospedale per accertamenti connessi all’abuso di sostanze alcoliche, ma se ne allontanava nel corso della notte e tornava a casa, fermandosi più volte lungo il tragitto in diversi bar, dove assumeva ulteriori sostanze alcoliche sino ad essere notato per ubriachezza molesta.

Giunto a casa, sfondava la porta a vetri che separava la zona giorno dalla zone notte dell’appartamento e cercava la moglie, la quale fuggiva nella stanza del figlio, il quale cercava di calmarlo ma, per tutta risposta, riceveva due coltellate al torace, una delle quali attingeva il cuore dimostrandosi letale nell’immediatezza; la donna fuggiva dalla casa verso la vicina massicciata ferroviaria, ma veniva raggiunta dall’imputato che lottava con lei, ferendola con lo stesso coltello con cui aveva ucciso il figlio: le urla della moglie attiravano i vicini ed una guardia giurata e l’azione non si compiva interamente.

Il giudice elencava le prove esaminate (dichiarazioni dei protagonisti, deposizioni dei vicini e dei conoscenti, accertamenti medico-legali): risultava un quadro di violenze domestiche e di frequente ubriachezza nel T. nonchè l’intenzione della moglie di separarsi; il T. era ubriaco al momento dei fatti, il figlio presentava più ferite di cui una mortale, la donna aveva diverse ferite sul corpo; il figlio era stato ucciso con colpi di coltello impugnato a mò di pugnale, dall’alto verso il basso e le ferite erano compatibili con la posizione di due persone che si fronteggiano; il coltello sequestrato era compatibile con le ferite. Il giudice concludeva che certamente vi era stato il reato di maltrattamenti in famiglia, atteso che le condotte violente e vessatorie si erano protratte per molto tempo, costringendo talora la moglie e la figlia a fuggire di casa per chiedere ospitalità ad amici; peraltro vi era documentazione ospedaliera che attestava la violenza di alcuni pestaggi subiti dalla moglie del T., la quale per un certo periodo era stata costretta a rifugiarsi presso una struttura protetta; la figlia, inoltre, aveva confermato i diversi episodi di violenze e minacce, i litigi, gli interventi dei Carabinieri e gli stati di ubriachezza del padre; pertanto vi era stata un’abituale gravità di condotte dovute tanto all’assunzione di bevande alcoliche quanto ad una distorta convinzione di autorità domestica, frammista ad un rancore profondo nutrito verso la moglie che disapprovava la sua condotta; nessun dubbio sull’omicidio ed il tentato omicidio: del resto, l’imputato aveva sostenuto che il figlio si era contrapposto a lui violentemente e che lui lo aveva accoltellato senza rendersene conto per poi inseguire la moglie, che riteneva responsabile di quello che aveva fatto al figlio; si trattava di una versione dei fatti che il GUP riteneva non credibile, atteso che il ragazzo era stato accoltellato nella sua camera da letto ove evidentemente si trovava e non in una colluttazione in un corridoio; parimenti, l’imputato non aveva saputo spiegare in alcun modo le molte ferite del figlio e il racconto della moglie era molto diverso e tratteggiava una dinamica di pochi istanti, confermata dal tipo e dal numero di ferite sul corpo dell’ucciso; la donna aveva riportato molte ferite da difesa alle mani, ma era indubbio il dolo omicidiario, atteso che dopo l’uccisione del figlio il T. aveva subito preso ad inseguire la donna invece di tentare un soccorso al figlio; non vi era stata desistenza, poichè l’azione si era interrotta dopo essere stata compiuta quale tentativo di omicidio e poichè era stato il sopraggiungere di terzi a spezzare la tensione. La gravità della condotta protratta per anni impediva di riconoscere le circostanze attenuanti generiche, non giustificate nemmeno da una condizione di disagio personale che egli aveva scaricato su terzi incolpevoli; non erano emerse patologie mentali di sorta nè lesioni delle capacità mnemoniche o cognitive.

La pena-base si determinava nell’ergastolo, aumentato per la continuazione ad ergastolo con isolamento diurno e poi ridotto ad ergastolo semplice per la scelta del rito.

2. Interponeva appello l’imputato, non contestando la ricostruzione degli ultimi eventi, ma evidenziando il fatto che non aveva mai smesso di sostenere il nucleo familiare, che si era trovato in una condizione di disagio sociale e culturale, che la moglie non lo apprezzava, che quella sera si era verificata una combinazione di circostanze sventurate a causa della colluttazione con il figlio e che la confessione resa doveva valere il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, considerata la desistenza dal tentato omicidio.

3. Con sentenza in data 26/02/2016 la Corte di Assise di Appello di Trieste confermava la condanna di primo grado: rilevava il giudice che l’omicidio era stato connotato da chiaro dolo e non si era trattato di un evento preterintenzionale, poichè egli si era procurato l’arma quando nessuno lo minacciava, aveva colpito in zona vitale con forza, impugnava il coltello a mò di pugnale per colpire intenzionalmente, non aveva fatto alcun tentativo per salvare il figlio e non aveva dato scampo al figlio stesso.

Parimenti le testimonianze della moglie e della figlia rendevano evidente i maltrattamenti e le minacce, confermati da vicini di casa e da interventi della polizia giudiziaria: se la moglie cercava di riconciliarsi era soltanto per tenere unita la famiglia e non per l’assenza di condotte riprovevoli.

Quanto al trattamento sanzionatorio, le circostanze attenuanti generiche non potevano essere concesse, giacchè l’azione era stata crudele fino ai limiti della premeditazione e la sua situazione non era parsa di particolare disagio, poichè lavorava, aveva un alloggio dignitoso ed una famiglia, mentre l’abitudine all’uso di alcol era a lui addebitabile: non vi era stata desistenza, ma intervento di terzi a bloccare la pulsione omicida verso la moglie ed egli non era apparso mai pentito rispetto alla morte provocata.

4. Avverso detta sentenza propone ricorso l’interessato a mezzo del difensore Avv. Roberto Mete.

4.1. Deduce, con il primo motivo, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), manifesta illogicità della motivazione: sostiene che non era chiaro l’antefatto degli eventi e non era stata dimostrata la minaccia con il cacciavite, che l’uccisione era avvenuta più tardi e durante una colluttazione, senza volontà omicidiaria, che era illogico sostenere non esservi stata colluttazione poichè il figlio del ricorrente aveva diverse lesioni sul corpo, che un intento letale vi era stato soltanto in direzione della moglie e non anche del figlio, che non ci si poteva attendere un comportamento razionale da chi era ubriaco, che non vi erano motivi di astio particolare verso il figlio.

4.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), erronea applicazione di legge: lamenta che era stata applicata la circostanza aggravante dell’omicidio a danno del figlio, mentre la vittima era un figlio adottivo e non un discendente in senso biologico, per cui la pena non doveva essere quella dell’ergastolo.

4.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), contraddittorietà della motivazione: sostiene che la storia personale del ricorrente avrebbe giustificato le circostanze attenuanti generiche, per il suo male di vivere, lo stato depressivo, l’abuso di alcol, la confessione immediata e la collaborazione fornita alle indagini.

5. In udienza le parti hanno concluso come riportato in epigrafe.

Motivi della decisione

 

1. Il secondo motivo di ricorso è fondato, mentre le altre doglianze devono essere rigettate.

2. Il primo motivo di ricorso lambisce l’inammissibilità, poichè molte considerazioni sembrando disegnare una differente ricostruzione dei fatti.

Tuttavia è necessario precisare che, nel caso portato alla cognizione di questa Suprema Corte, ci si trova di fronte a due pronunzie, di primo e di secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle conformi rispettive decisioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che viene a saldarsi perfettamente con quella precedente, sì da costituire un corpo argomentativo uniforme e privo di lacune, in considerazione del fatto che entrambe le pronunzie hanno offerto una congrua e ragionevole giustificazione del giudizio di colpevolezza formulato nei confronti dei ricorrenti.

Discende da tale evenienza, secondo una linea interpretativa in questa Sede da tempo tracciata, che l’esito del giudizio di responsabilità non può certo essere invalidato da prospettazioni alternative, risolventisi in una “mirata rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, da preferirsi a quelli adottati dal giudice del merito, perchè illustrati come maggiormente plausibili, o perchè assertivamente dotati di una migliore capacità esplicativa nel contesto in cui la condotta delittuosa si è in concreto realizzata (Sez. 6, n. 22256/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369/2006, Rv. 235507).

Nel caso di specie, l’adeguatezza delle ragioni giustificative illustrate nell’impugnata sentenza non è stata validamente censurata dai ricorrenti, limitatisi a riproporre, per lo più, una serie di obiezioni già esaustivamente disattese dai Giudici di merito ed a formulare critiche e rilievi sulle valutazioni espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio sottoposto alla loro cognizione, prospettandone, tuttavia, una diversa ed alternativa lettura, in questa Sede, evidentemente, non assoggettabile ad alcun tipo di verifica, per quanto sopra evidenziato.

Il tessuto motivazionale della sentenza in esame, in definitiva, non presenta affatto quegli aspetti di carenza o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito, nel quale sostanzialmente si risolvono le censure dai ricorrenti articolate.

Sinteticamente, le doglianze racchiuse nel motivo si articolano sui seguenti temi: 1) asserita mancanza di chiarezza sugli eventi; 2) mancanza di volontà omicidiaria nell’uccisione del figlio; 3) asserita incongrua motivazione sulla mancanza di una colluttazione tra il ricorrente ed il figlio.

2.1. I fatti di cui al processo de quo risultano ricostruiti con precisione e con un percorso logico privo di incertezze e di vizi giuridici: il punto di partenza sono state senz’altro le testimonianze di T.E. e di T.C., moglie e figlia del ricorrente, poichè sono state loro a descrivere l’atteggiamento sopraffattorio dell’imputato, le ingiurie, le percosse e le umiliazioni inflitte ai familiari, oltre che le minacce, rese drammatiche dalla dimostrata passione del ricorrente verso i coltelli.

Sul punto giova ricordare che le dichiarazioni della persona offesa, costituita parte civile, possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata.

Nella fattispecie, la Corte territoriale ha spiegato che, oltre alla intrinseca attendibilità delle dichiaranti, andavano considerate le annotazioni degli operatori di polizia giudiziaria che effettuavano interventi presso l’abitazione dei T. per le liti e le tensioni familiari; al contempo, sono state richiamate le dichiarazioni che i vicini di casa dei T. rendevano appunto agli operatori di polizia giudiziaria (vicini di casa che avevano spiegato di udire sempre la voce alta del ricorrente nel corso dei litigi e mai quella della moglie); ed inoltre è stato richiamato il contenuto di alcune dichiarazioni del ricorrente medesimo, il quale pure aveva ammesso di avere picchiato talora la moglie, sostenendo di averlo fatto però soltanto in Moldavia.

In altri termini, l’intero compendio probatorio convergeva verso la direzione di una piena attendibilità delle dichiarazioni a carico del ricorrente: e, di conseguenza, verso una ricostruzione dei fatti che vedeva il medesimo ricorrente porre in essere una condotta violenta ed omicida la sera del (OMISSIS), culminata nell’uccisione del figlio e nel violento inseguimento della moglie con tentativo finale di uccidere anche la stessa, con le modalità riportate nella parte iniziale della presente sentenza, riassuntiva delle conclusioni dei giudici di merito.

2.2. Il secondo tema delle doglianze è quello relativo alla asserita mancanza di volontà omicidiaria nei confronti del figlio, ed esso si intreccia con quello della ricostruzione degli eventi.

Correttamente la Corte di Assise di Appello ha sottolineato tutti gli elementi probatori a carico del ricorrente, tali da dimostrare la volontà omicida. Così, si evidenzia come il ricorrente si era procurato l’arma in bagno mentre il figlio era sulla soglia della camera da letto, aveva pugnalato il figlio con due fendenti al torace, aveva impugnato il coltello a mò di pugnale, non aveva tentato alcun soccorso verso il figlio, non aveva mostrato alcuna sorpresa di fronte ad una eventuale ed asserita conseguenza esorbitante dai voleri e già all’arrivo della polizia giudiziaria aveva affermato di essere certo della moglie della vittima.

Di conseguenza non vi era spazio per alcuna ipotesi di omicidio preterintenzionale: le modalità dell’azione – pugnalate violente in pieno petto, una delle quali sferrata con tale forza che l’intera lama di cm 10 si era conficcata nel torace, tanto che il manico aveva raggiunto la cute – per la zona vitale attinta e per la facilità della lesione del bene della vita, difficilmente può far pensare ad una mera azione di allontanamento o può consentire il realizzarsi della fattispecie di cui all’art. 584 c.p., cosi come affermato in passato da giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 9449 del 20/01/1986, Rv 173746; Sez. 1, n. 30304 del 30/06/2009, Rv. 244743; Sez. 1 n. 4425 del 05/12/2013, Rv. 259014).

Inoltre il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e preterintenzionale è che in questo secondo caso la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento-morte, che si determina per fattori esterni e l’accertamento deve fondarsi su elementi oggettivi desunti dalla modalità dell’azione; orbene, nel caso di specie, le modalità dell’azione conosciuta e conoscibile individuano un’azione idonea a cagionare la morte mentre nessun fattore esterno è mai stato individuato o dedotto dall’imputato (Sez. 1, n. 35369 del 04/07/2007, Rv 237685).

La conclusione era dunque corretta: infatti, in tema di reati contro la persona, l’omicidio preterintenzionale si configura allorquando l’azione aggressiva dell’autore del reato sia diretta soltanto a percuotere la vittima o a causarle lesioni, così che la morte costituisca un evento non voluto, ancorchè legato da nesso causale alla condotta dell’agente; pertanto, quando la lesione produttiva dell’evento letale sia recata per mezzo di un’arma, l’accertamento del fine perseguito dall’agente deve essere attuato tenendo conto del tipo dell’arma, della reiterazione e direzione dei colpi, della distanza da cui è partito il fendente, della parte vitale del corpo presa di mira e di quella concretamente attinta (Sez. 5, n. 36135 del 26/05/2011, Rv. 250935).

Non ultimo, viene evidenziato che il particolare modo di impugnare il coltello da parte del ricorrente (e cioè come un pugnale) non poteva avere che una sola finalità, considerato che il figlio era più alto di lui di circa cm 20.

2.3. L’ultima doglianza ricompresa nel primo motivo di ricorso è, a sua volta, strettamente connesso con quello precedente e riguarda l’asserita incongrua motivazione sulla mancanza di una colluttazione tra il ricorrente ed il figlio.

La motivazione della sentenza impugnata, al contrario, riporta una narrazione lucida e completa su questo tema: ancora una volta il giudice richiama analiticamente le valutazioni di attendibilità della moglie del ricorrente, la quale aveva: 1) escluso che vi fosse stato un diverbio prolungato tra il ricorrente ed il figlio; 2) precisato che, di fronte alle aggressioni verbali del padre, la vittima si era limitata a rispondere: “Ne parliamo domani”, così dimostrando di non avere alcuna intenzione aggressiva; 3) riportato che l’azione omicida era avvenuta in modo velocissimo.

Da questi dati e dalla tipologia di ferite, oltre che dalle dichiarazioni dello stesso ricorrente, la Corte territoriale correttamente ha desunto che l’imputato aveva preso il coltello in bagno mentre il figlio era stato da lui pugnalato mentre quegli si trovava sulla soglia della camera da letto: di conseguenza, viene ritenuto insostenibile che il ricorrente fosse stato minacciato dal sopraggiungere del figlio, sia perchè costui non si era mosso nella direzione del padre sia perchè aveva già manifestato l’intenzione di chetare la situazione.

Parimenti, il ricorrente aveva inferto due pugnalate violente in pieno petto al figlio, utilizzando una modalità di azione che non si conciliava con la volontà di tenere lontana la vittima (più alta di lui di circa cm 20), ma che si spiegava soltanto con la volontà di colpire crudamente una zona vitale del corpo della vittima.

Non vi era, poi, alcun elemento che denotasse un “obnubilamento” della mente del ricorrente: non aveva provato sorpresa della sua azione, giacchè non aveva mostrato alcuna pietà per la vittima nè curato alcun soccorso, mostrando al sopraggiungere della polizia giudiziaria di essere lucidamente consapevole di avere ucciso il figlio.

La Corte territoriale, inoltre, sottolinea che nessun elemento deponeva per una colluttazione tra il ricorrente e la vittima: non la deposizione della moglie del ricorrente nè la ricostruzione degli eventi nè il tipo di ferite inferto (che lasciava, invece, pensare a due colpi inferti proditoriamente, senza che la vittima avesse avuto alcuna possibilità di difendersi) nè gli esiti della relazione anatomo-patologica (dalla quale emergeva soltanto che vittima ed aggressore erano in posizione reciproca frontale, il che non equivaleva a dire che vi fosse stato un atteggiamento aggressivo bilaterale: anzi, le modeste abrasioni sul volto del ricorrente erano state evidentemente provocate da sua moglie nel corso del relativo tentato omicidio).

Infine, è stato corretto non attribuire particolare rilievo alla ubriachezza in cui versava il ricorrente: infatti, la colpevolezza di una persona in stato di ubriachezza deve essere valutata secondo i normali criteri di individuazione dell’elemento psicologico del reato e, poichè l’art. 92 c.p., nel disciplinarne l’imputabilità, nulla dice in ordine alla di lui colpevolezza, questa deve essere apprezzata alla stregua delle regole dettate dagli artt. 42 e 43 c.p., con la conseguenza che, per ritenere sussistente il dolo diretto, non è richiesto che sia stata effettuata un’analisi lucida della realtà, essendo necessario soltanto che il soggetto sia stato in grado di attivarsi in modo razionalmente concatenato per realizzare l’evento ideato e voluto (Sez. 6, n. 31749 del 09/06/2015, Rv 264428).

3. Il secondo motivo di doglianza è, invece, fondato.

Con esso il ricorrente lamenta che era stata applicata la circostanza aggravante dell’omicidio a danno del figlio, mentre la vittima era un figlio adottivo e non un discendente in senso biologico, per cui la pena non doveva essere quella dell’ergastolo.

In effetti, la pena-base determinata in primo grado (e confermata in grado di appello) era quella dell’ergastolo.

Tuttavia detta pena è prevista ex art. 577 c.p., comma 1, in caso di omicidio del discendente. Diversamente, nella fattispecie andava considerato il disposto testuale del comma secondo del medesimo art. 577 c.p., che recita: “La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta”.

Non vi è dubbio, pertanto, che sia stata inflitta una pena non conforme a diritto.

Ma va affrontato una tema rilevante: la questione non era stata sollevata di fronte alla Corte di Assise di Appello, ma riportata poi soltanto nei motivi di ricorso.

Il problema va superato con un approccio interpretativo sistematico.

Occorre premettere che il giudizio di merito in grado d’appello è regolato da due principi fondamentali sanciti dall’art. 597: dal principio devolutivo e dal divieto di reformatio in peius. Nel disciplinare la “cognizione del giudice d’appello”, il comma 1 di detta norma stabilisce infatti che “l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”, con la conseguente preclusione allo scrutinio oltre i confini tracciati dalle censure mosse dal ricorrente, salvi i poteri officiosi di cui si dirà oltre.

Il comma 3 della medesima disposizione stabilisce, poi, che, nel caso di appello del solo imputato, “il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata nè revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purchè non venga superata la competenza del giudice di primo grado”, il che impedisce di pervenire ad un esito decisorio di secondo grado comportante per l’imputato (unico) appellante un trattamento sanzionatorio maggiormente afflittivo di quello applicato in primo grado.

Fermi tali limiti al sindacato d’appello, l’art. 597, comma 5 riconosce comunque al giudice del gravame la possibilità di applicare “anche d’ufficio la sospensione condizionale della pena, la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e una o più circostanze attenuanti; può essere altresì effettuato, quando occorre, il giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 c.p.”.

Va rimarcato come le preclusioni segnate dal principio tantum devolutum quantum appellatum e dal divieto di reformatio in peius non impediscano al giudice d’appello di dare al fatto una diversa e più grave qualificazione giuridica.

Ciò si evince dal dato testuale del sopra ricordato art. 597, comma 3 – là dove riconosce alla Corte d’appello la facoltà di dare una definizione giuridica più grave al fatto devoluto al proprio vaglio, a condizione che “non venga superata la competenza del giudice di primo grado” – e discende comunque dal principio generale sancito dall’art. 521, comma 1, alla stregua del quale “nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, purchè il reato non ecceda la sua competenza nè risulti attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anzichè monocratica”.

Il principio iura novit curia costituisce invero una regola generale, di sistema, in quanto espressione del principio di legalità ed essenza della giurisdizione. Come ha chiarito questa Corte riunita nel suo più ampio consesso, costituisce “indefettibile funzione della giurisdizione accertare se la fattispecie concreta sia sussumibile nella fattispecie astratta ipotizzata” e rappresenta “indefettibile corollario dello ius dicere accertare che fatto e schema legale coincidano e, dunque, modificare, se occorre, la qualificazione giuridica del fatto prospettata dal P.M. riconducendo, così, la fattispecie concreta, anche se a determinati limitati fini, nello schema legale che le è proprio.

Questa precisazione sta a significare che la definizione giuridica del fatto non è il fatto e che “modificare la definizione giuridica del fatto” non solo non significa modificare il fatto, ma non significa neppure modificare la imputazione, se è vero sia che la correlazione tra la imputazione e la sentenza resta in tutta la sua pienezza anche se viene data al fatto una diversa qualificazione giuridica”; “dare una diversa qualificazione giuridica del fatto vuol dire, in ultima analisi applicare esattamente la legge, vuol dire íus dicere; “è innegabile (…) che il principio di legalità, sul quale è fondato il nostro ordinamento, debba valere per ogni momento del processo” (Sez. Un., n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco).

Pacifico che il Collegio d’appello possa e debba dare alla vicenda storico fattuale sottoposta al proprio vaglio la corretta qualificazione giuridica, anche se diversa da quella originariamente contestata o ritenuta: è solo necessario che, in ossequio alle disposizioni dell’art. 111 Cost., comma 2, e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte Europea, che la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono (Sez. Un., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438).

Sulla scorta di tali premesse, ritiene il Collegio che la Corte d’appello possa, anzi debba, escludere ex officio la circostanza aggravante, contestata e ritenuta dal primo giudice, di cui ravvisi l’insussistenza sulla scorta della ricostruzione storico fattuale compiuta nella sentenza oggetto dell’appello, dunque senza la necessità di compiere nessuna attività istruttoria ufficiosa, che – all’evidenza – esorbiterebbe i limiti del principio devolutivo, limitandosi così ad assicurare che la fattispecie concreta sia sussunta nel corretto schema legale, in ossequio al principio iura novit curia. Principio, questo, che non può non valere anche nel caso di fattispecie incriminatrice aggravata, cioè contestata come connotata da uno o più elementi circostanziali, come appunto quella di specie.

La facoltà del giudice d’appello di dare il corretto inquadramento giuridico alla fattispecie concreta sottoposta al proprio vaglio non rappresenta una violazione del principio devolutivo. Siffatto principio vale, invero, a definire l’ambito della cognizione e della decisione del giudice della impugnazione, ma non impedisce che, nell’ambito degli confini segnati dall’appello e dunque del devolutum il decidente eserciti il proprio potere-dovere di dare a tale fatto la corretta qualificazione giuridica, espressione del principio di legalità immanente all’ordinamento giuridico, che attraverso lo ius dicere trova esplicazione nel sistema processuale.

Ciò, a maggior ragione, allorquando l’esclusione dell’elemento circostanziale si traduca in una decisione in bonam partem, rispetto alla quale non si pone neanche astrattamente un problema di violazione del divieto di reformatio in peius – che, ad ogni modo, non vale per la mera riqualificazione giuridica, per quanto già sopra esposto – nè di lesione del diritto di difesa, presidiato dalla Carta Fondamentale e dalla CEDU (Sez. 6, n. 4124 del 14/12/2016, Rv. 269441).

In applicazione del principio di diritto sopra espresso, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 577 c.p., comma 1, n. 1 per il delitto di omicidio, aggravante che va esclusa sostituendola con quella di cui al comma 2 del citato articolo. Conseguentemente gli atti dovranno essere rimessi alla Corte di Assise di Appello di Venezia per la rideterminazione della pena.

In ogni caso, però, ai sensi dell’art. 624 c.p.p., è bene chiarire che la pena rideterminata non potrà essere inferiore al minimo assoluto e cioè ad anni sedici e giorni tre di reclusione (la pena edittale per il reato più grave è quella della reclusione da ventiquattro a trenta anni; il minimo di essa è pari ad anni ventiquattro di reclusione, a cui va detratto un terzo per la scelta del rito abbreviato; a detta pena minima va aggiunto l’aumento per i reati in continuazione, che, nel suo minimo assoluto, è pari a giorni tre di reclusione).

Questa ora indicata è soltanto la pena minima: la Corte territoriale potrà determinare la nuova entità sanzionatoria in piena discrezionalità, nel rispetto dei limiti di legge (anche con riferimento all’aumento per la continuazione, fermo però il divieto di reformatio in peius rispetto alla precedente determinazione della pena in continuazione).

4. L’ultima doglianza del ricorrente attiene al tema del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche che, nella prospettazione del ricorso, sarebbero state giustificate dalla marginalità sociale dell’imputato, dal suo stato depressivo e dall’abuso di sostanze alcoliche.

Si tratta di una doglianza infondata.

Secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza.

Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (Sez. 1, n. 11361 del 19.10.1992, Rv 192381).

Nella fattispecie, la Corte territoriale ha sottolineato come non fosse ravvisabile alcun elemento positivo nella condotta dell’imputato, il quale era parso persino incapace di definire con precisione i suoi motivi a delinquere; anzi, viene evidenziato come la sua condotta lambiva la premeditazione, atteso il lasso temporale nel quale egli aveva potuto riflettere sulle sue azioni e valutare la riprovevolezza del suo proposito.

Viene respinta l’argomentazione di una emarginazione sociale ed economica, poichè si constata che il ricorrente aveva una famiglia, una abitazione ed un lavoro che riusciva a svolgere: di conseguenza, l’inclinazione all’abuso di sostanze alcoliche era stata una scelta volontaria che non trovava spiegazioni alternative, anche perchè non erano emerse nemmeno le tracce di patologie o di una reale depressione nell’umore (se non connesse alla restrizione carceraria seguita alla consapevolezza dell’accaduto).

La Corte territoriale ha evidenziato la mancanza di pentimento, il difetto di una vera desistenza nei confronti della moglie, la concreta irrilevanza della sua confessione a fronte del quadro probatorio già raccolto.

Dunque, la sentenza impugnata ha motivato in modo congruo sul punto, richiamando i fattori valutativi presi in considerazione e dipanando la sua convinzione sulla base delle dinamiche dell’accaduto e della personalità dimostrata dai ricorrenti.

Insindacabile in questa sede, in quanto congruamente motivato, è il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Invero, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p., può essere legittimamente giustificato con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo (Sez. 3, n. 44071/2014, Rv 260610).

In ogni caso, la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, sent. n. 3609 del 18/01/2011, Sermone e altri, Rv. 249163).

5. Dunque, disposto l’annullamento senza rinvio di cui al precedente paragrafo 3, il resto del ricorso deve essere rigettato. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente a rimborsare alla costituita parte civile T.E. le spese sostenute per questo giudizio, che liquida – considerata la riduzione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 106 bis – nella somma di Euro 2.380,00 oltre spese generali, Iva e CPA da pagarsi in favore dello Stato.

In caso di diffusione del presente provvedimento andranno omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 del in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla aggravante di cui all’art. 577 c.p., comma 1, n. 1 per il delitto di omicidio, aggravante che esclude sostituendola con quella di cui al comma 2 del citato articolo e dispone rimettersi gli atti alla Corte di Assise di Appello di Venezia per la rideterminazione della pena comunque non inferiore al minimo assoluto di anni sedici e giorni tre di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla costituita parte civile T.E. le spese sostenute per questo giudizio che liquida in Euro 2.380,00 oltre spese generali, IVA e CPA da pagarsi in favore dello Stato.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 1° marzo 2018.