Una vettura travolge un cane randagio. I danni all’autovettura chi li paga? Accolta la richiesta di risarcimento presentata dal proprietario. A pagare saranno Comune e Azienda sanitaria.

(Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 20 giugno 2017, n. 15167)

…, omissis …

Fatti di causa

1. Con la sentenza impugnata, pubblicata il 2 gennaio 2015, il Tribunale di Viterbo ha accolto l’appello incidentale proposto dal Comune di Viterbo nei confronti della AUSL – Azienda Unità Sanitaria di Viterbo, rigettando l’appello principale di quest’ultima, avverso la sentenza del Giudice di pace di Viterbo n. 767 del 9 luglio 2012.

Con questa era stata accolta la domanda avanzata da V.P. nei confronti di entrambe le parti predette per il risarcimento dei danni causati alla propria autovettura dall’urto con un cane randagio ed i convenuti erano stati condannati al pagamento, in favore dell’attore, della somma di Euro 1.749,15 con interessi dalla data del fatto al saldo.

2. Il Tribunale ha ritenuto che gli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lazio n. 34 del 1997 ripartiscano, in materia, le attribuzioni dei comuni e delle unità sanitarie locali, devolvendo agli uni la realizzazione e la gestione dei canili e alle altre la cattura dei cani randagi.

2.1. Ha quindi concluso per la responsabilità esclusiva della AUSL – Azienda Unità Sanitaria Locale di Viterbo, dichiarando il difetto di legittimazione passiva del Comune di Viterbo. Ha condannato l’AUSL al pagamento delle spese del grado sia in favore di quest’ultimo che in favore di V.P..

3. L’Azienda Unità Sanitaria Locale Viterbo – A.S.L. Viterbo propone ricorso per Cassazione con due motivi, illustrati da memoria.

4. Gli intimati non si difendono.

Ragioni della decisione

1. Col primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 107 e 112 cod. proc. civ., perché, avendo il V. convenuto in giudizio soltanto il Comune di Viterbo, il Giudice di Pace ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Azienda USL di Viterbo.

Questa sostiene che il giudice d’appello avrebbe dovuto rilevare l’illegittimità dell’ordine di chiamata in causa, che il primo giudice avrebbe dato in violazione dell’art. 107 cod. proc. civ..

1.1. Il motivo è, per un verso, privo di autosufficienza e, per altro verso, relativo a questione nuova, poiché manca ogni riferimento all’atto di appello dell’AUSL e ad un eventuale motivo col quale questa avrebbe fatto valere, in sede di gravame, il vizio del procedimento e della sentenza di primo grado di che trattasi.

Poiché la questione non è rilevabile d’ufficio e poiché nulla è detto riguardo alla chiamata iussu iudicis nella sentenza d’appello, sarebbe stato onere della ricorrente dimostrare di averne censurato la legittimità dinanzi al Tribunale.

In mancanza, il motivo va dichiarato inammissibile.

2. Col secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 4 legge n. 281 del 14.08.1991, nonché degli artt. 1, 2, 3 legge Regione Lazio n. 34 del 21.10.1997.

La ricorrente sostiene che, ferme restando le competenze attribuite alle amministrazioni comunali dalla richiamata legge statale, in forza della legge regionale sarebbe spettato al comune di Viterbo il potere di controllo e di vigilanza sul territorio ed il dovere di provvedere al ricovero, alla custodia ed al mantenimento dei cani, mentre sarebbe spettato alla ASL soltanto il controllo sanitario sui cani custoditi (dovendosi così interpretare, in particolare, gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1 lett. b, della legge regionale).

Con la conseguenza, secondo la ricorrente, che la prevenzione del fenomeno del “randagismo” sarebbe di esclusiva competenza dei comuni che si dovrebbero attivare per la rimozione del pericolo, eventualmente segnalando il fenomeno alla ASL territorialmente competente per gli adempimenti di sua spettanza (tra cui la cattura dei cani randagi, ma soltanto su segnalazione appunto del comune o, tutt’al più, su segnalazione di altri enti o di privati cittadini).

3. Il motivo è solo parzialmente fondato.

4. In un caso analogo al presente, questa Corte ha di recente ritenuto (in tal senso confermando e puntualizzando i principi di diritto sostanzialmente già enunciati nei precedenti in materia: cfr., in particolare, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17528 del 23/08/2011 e Sez. 3, Sentenza n. 10190 del 28/04/2010) che la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetti esclusivamente all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale n. 281/1991) il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi (così Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12495 del 18/5/2017).

Il principio non può che essere qui ribadito poiché l’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e quindi della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) costituisce il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche quanto ai profili civilistici conseguenti all’inosservanza di detti obblighi di cattura e custodia.

Poiché la legge quadro statale n. 281/1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso.

4.1. Contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, per la Regione Lazio, alla stregua delle previsioni normative regionali richiamate nel ricorso, il compito di cattura dei randagi e di custodia degli stessi nelle apposite strutture è attribuito (anche) ai comuni.

In tale senso va infatti interpretata la norma dell’art. 2 (“Competenze dei comuni e delle comunità montane”), comma primo, lett. b (non certo lett. d, unica richiamata in sentenza), della legge regionale n. 34 del 21 ottobre 1997 e succ. mod. (“Tutela degli animali di affezione e prevenzione del randagismo”).

Ai sensi della norma richiamata, sono i comuni, singoli od associati, a dovere, tra l’altro assicurare “b) (…) il ricovero, la custodia ed il mantenimento dei cani nelle strutture, sotto il controllo sanitario dei servizi veterinari delle aziende USL (…)”, in collegamento con le altre competenze riservate agli enti territoriali, tra cui quella di costruzione di nuovi canili e risanamento di quelli esistenti.

La norma va interpretata nel senso che spetta ai comuni, non solo la custodia, ma anche la cattura dei cani vaganti e randagi, dal momento che questa costituisce il presupposto del ricovero nelle apposite strutture comunali.

4.2. Peraltro, l’impianto normativo regionale non può essere inteso, nel suo complesso, così come lo intende la ricorrente, come se alla ASL siano attribuiti soltanto generici compiti di controllo sanitario della popolazione canina.

L’art. 3 (“Competenze dei servizi veterinari delle aziende USL”) si compone infatti di un primo comma che, nelle lettere da a) ad i), elenca effettivamente i compiti, richiamati in ricorso, di gestione sanitaria e controllo dei canili pubblici, di tenuta dell’anagrafe canina, di vaccinazione, sterilizzazione e cura degli animali custoditi.

Tuttavia, il terzo comma prevede espressamente che, oltre ai detti compiti, spetti ai servizi veterinari delle aziende USL, tra l’altro “(…) a) il servizio di accalappiamento di cani vaganti, la relativa comunicazione al comune interessato e la consegna dei cani catturati o restituiti alle strutture di ricovero, previa effettuazione delle profilassi previste dal comma 1, lettere f) ed h) (…)”.

Questa competenza in relazione alla cattura e custodia dei cani vaganti o randagi non è in alcun modo condizionata – all’opposto di quanto sostenuto dalla ricorrente sin dai gradi di merito- al fatto che il comune od altri enti o privati cittadini segnalino l’esistenza di cani randagi da accalappiare (a differenza invece di quanto previsto dalla lettera b dello stesso articolo 3, comma terzo), sicché è corretta l’affermazione del giudice a quo secondo cui l’assunto difensivo della A.S.L. è privo di qualsivoglia riscontro normativo.

D’altronde, poiché non è in discussione che i servizi veterinari delle Aziende USL debbano collaborare, ai sensi della legge regionale, alla tenuta dei canili pubblici gestiti dai comuni, anche per le aziende USL è riscontrabile il fondamento della responsabilità di cui si è detto sopra, rinvenibile negli obblighi di cattura e, quindi, custodia dei cani privi di proprietario (risultante dall’anagrafe canina), la cui violazione è rilevante anche quanto ai profili civilistici.

Pertanto, ai sensi dei richiamati articoli 2, comma primo, lett. b) e 3, comma terzo, lett. a) della legge della Regione Lazio n. 34 del 21 ottobre 1997, sussiste la responsabilità solidale del Comune di Viterbo e dell’Azienda Unità Sanitaria Locale Viterbo – A.S.L. Viterbo per i danni causati a terzi da cani randagi, dei quali l’uno e l’altra non abbiano assicurato la cattura e la custodia.

5. In conclusione, il secondo motivo di ricorso va accolto soltanto quanto all’affermazione da parte del giudice d’appello dell’esclusione di qualsivoglia responsabilità in capo al Comune di Viterbo e la sentenza impugnata va cassata nei limiti di questo accoglimento.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma secondo, cod. proc. civ., rigettando l’appello incidentale del Comune di Viterbo, confermando perciò integralmente la sentenza del Giudice di Pace di Viterbo n. 767 del 9 luglio 2012 e ponendo a carico del Comune di Viterbo e della A.S.L. Viterbo qui ricorrente, in solido tra loro, le spese del grado di appello, così come già liquidate in favore di V.P. .

Le spese dei giudizi di appello e di legittimità vanno invece compensate, ai sensi dell’art. 92, comma secondo, cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis, considerata la data, del 30 marzo 2011, dell’atto introduttivo) nei rapporti tra A.S.L. ricorrente e Comune di Viterbo, in considerazione delle incertezze interpretative connesse ai diversi contenuti della legislazione regionale in materia, nonché della mancanza di precedenti giurisprudenziali di legittimità relativi alla legge della Regione Lazio n. 34 del 21 ottobre 1997.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione nei confronti di V.P. , poiché questi non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M. 

La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. 

Accoglie il secondo motivo per quanto di ragione e cassa la sentenza impugnata nei limiti di questo accoglimento.

Decidendo nel merito, rigetta l’appello incidentale del Comune di Viterbo e condanna quest’ultimo, in solido con la A.S.L. qui ricorrente, al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, già liquidate, in favore del V. , nell’importo di Euro 1.200,00.

Compensa le spese del giudizio di appello e del presente giudizio di legittimità tra ricorrente e Comune di Viterbo; dichiara non luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità nei confronti di V.P..