Art. 326 Codice Penale. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 19 settembre 2019, n. 38680).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGO Geppino – Presidente –

Dott. ALMA Marco Maria – Consigliere –

Dott. SGADARI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TUTINELLI Vincenzo – Consigliere –

Dott. MONACO Marco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto nell’interesse di:

B.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 13/12/2017 della CORTE APPELLO di LECCE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Marco Maria MONACO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. MARINELLI Felicetta che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito l’avv. RAFFAELE MISSERE che insiste nell’accoglimento dei motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

La CORTE d’APPELLO di Lecce, con sentenza del 13/12/2017, quale giudice del rinvio a seguito della sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, in data 14/4/2016, parzialmente riformando la sentenza pronunciata dal TRIBUNALE di BRINDISI in data 28/11/2012, dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al reato di cui all’art. 319 quater c.p. di cui al capo a), assolveva l’imputato in ordine al reato di cui all’art. 314 c.p. di cui al capo c), e, rideterminata la pena, confermava nel resto la condanna nei confronti di B.G. in relazione al reato di cui all’art. 326 c.p. di cui al capo f).

1. B.G. veniva rinviato a giudizio in relazione alle ipotesi di reato di: concussione, poi riqualificato ai sensi dell’art. 319 quater c.p., capi a) e b); peculato, capo c); violata consegna da parte di militare, capo d); e tre diverse ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio, capi e), f) e g).

All’esito del processo di primo grado il Tribunale dichiarava l’imputato responsabile dei reati di cui al capo a), limitatamente al fatto in danno di R.E., dei reati di cui ai capi c) e d), unificati dal vincolo della continuazione e di cui al capo f) e lo assolveva da tutte le residue imputazioni.

Avverso la sentenza presentava appello la difesa dell’imputato che la Corte territoriale respingeva.

Avverso la sentenza l’imputato presentava ricorso che la Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, con la sentenza n. 26043/16, accoglieva disponendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla dichiarazione di responsabilità per i reati di cui ai capi a), c) ed f).

In specifico.

Quanto alla induzione di cui all’art. 319 quater c.p., la Corte chiedeva al giudice di appello di integrare la motivazione in ordine alla corrispondenza temporale tra il prestito di denaro e la c.d. “vicenda dell’esposto” e, poi, in merito alla individuazione dell’interesse concreto ovvero del vantaggio che sarebbe derivato dalla condotta posta in essere.

Quanto al reato di peculato, invece, la Corte annullava ritenendo il difetto di motivazione in relazione alla necessità di considerare se in effetti vi fossero “le condizioni di apprezzabile interruzione del servizio e uso privato del mezzo”.

Quanto alla violazione del segreto d’ufficio, infine, la Corte chiedeva al giudice di rinvio di motivare in merito alla natura delle notizie rivelate e se queste fossero o meno inerenti all’ufficio ovvero al servizio al quale il B. era addetto.

La Corte territoriale, in qualità di giudice del rinvio, ritenuto che il termine di prescrizione era interamente decorso, in assenza dei presupposti di cui all’art. 129 c.p.p., dichiarava la prescrizione del reato di cui all’art. 319 quater c.p., assolveva il ricorrente del reato di cui al capo c), il peculato, perchè il fatto non sussiste e confermava la dichiarazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 326 c.p., rideterminando la pena.

2. Avverso la sentenza propone ricorso l’imputato che, a mezzo del difensore, deduce i seguenti motivi.

2.1. Vizio di motivazione quanto alla dichiarazione di prescrizione ed alla mancata applicazione dell’art. 129 c.p.p. La difesa rileva che la Corte territoriale avrebbe omesso di procedere alla valutazione richiesta dalla corte di Cassazione nella sentenza di rinvio e, così operando, avrebbe violato l’art. 129 c.p.p..

La circostanza che i termini di prescrizione fossero già interamente decorsi, infatti, non consentiva di eludere quanto richiesto nella sentenza di annullamento che, in sostanza, indicava il criterio cui fare riferimento anche al fine di valutare o meno l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2.

Sotto tale profilo nel provvedimento impugnato non si terrebbe in alcun conto della totale ed evidente carenza di corrispondenza temporale tra il prestito e la vicenda dell’esposto e della mancanza di qualsivoglia interesse concreto per l’indotto o di vantaggio, anche futuro.

2.2. Vizio di motivazione quanto alla dichiarazione di responsabilità per il reato di cui al capo c).

2.3. Vizio di motivazione quanto alla conferma della condanna per il reato di cui al capo f). In ordine alla violazione del segreto d’ufficio la difesa rileva che la Corte territoriale sarebbe pervenuta ad una conclusione priva di coerenza logica con quanto emerso nel corso del dibattimento.

2.3.1. In ultimo la difesa evidenzia che i termini della prescrizione del reato di cui all’art. 326 c.p., anche tenendo conto delle sospensioni, così come rilevato dalla Corte territoriale per il reato di cui al capo a), erano interamente decorsi prima della pronuncia della sentenza di appello e pertanto anche tale reato avrebbe dovuto essere dichiarato prescritto.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato nei termini che seguono.

1. Il primo motivo, nel quale si deduce il vizio di motivazione in relazione all’errata applicazione dell’art. 129 c.p.p., è infondato.

In presenza di una causa estintiva del reato il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione “ex” art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile.

La “evidenza” richiesta dall’art. 129 c.p.p., comma 2, presuppone, infatti, la manifestazione di una verità processuale così chiara, manifesta ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia (Sez. 2, n. 9174 del 19/02/2008, Palladini, Rv. 239552).

Sotto tale profilo, pertanto, la motivazione della Corte territoriale sul punto, sebbene sintetica, appare nella sostanza adeguata.

2. Il secondo motivo, che si riferisce ad un capo di imputazione per il quale il ricorrente è stato assolto all’esito del giudizio di rinvio, evidentemente frutto di un refuso di stampa, non è consentito.

3. Il terzo motivo è, quanto all’errore nel quale sarebbe incorsa la Corte territoriale omettendo di dichiarare l’estinzione del reato di cui al capo f), il cui temine di prescrizione era interamente decorso prima della pronuncia della sentenza di appello, fondato.

In tale situazione -ai sensi dell’art. 129 c.p.p., ed esclusa la possibilità di pronunciare una diversa e più favorevole sentenza- si impone di dichiarare l’estinzione del reato di cui al capo f) per intervenuta prescrizione (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, D.L. n., Rv 217266; Sez. 3, n. 31415 del 15/1/2016, Ganzer, Rv 267518; Sez. 2, n. 28848 del 8/5/2013, Ciaffoni, Rv 256463; Sez. 4, n. 18641 del 20/1/2004, Tricorni, Rv 228349).

Alla dichiarazione di estinzione del reato di cui al capo f) segue l’eliminazione della pena di mesi nove di reclusione, così come quantificata nel dispositivo dal giudice di primo grado, la cui pronuncia è stata confermata sul punto dalla Corte territoriale.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al capo sub f) perchè il reato è estinto per prescrizione ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso. Dispone la correzione dell’errore materiale contenuto nel dispositivo della sentenza impugnata nel senso che laddove è scritto “capo d”, deve leggersi ed intendersi “capo f”.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2019.

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326. Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio. (1)

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio (2), le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.

Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni (3).

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(1) Vedi la L. 10 maggio 1978, n. 170, sui procedimenti d’accusa, l’art. 12, L. 1 aprile 1981, n. 121, sull’Amministrazione della pubblica sicurezza, l’art. 21, L. 22 maggio 1978, n. 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza, e l’art. 36, L. 3 agosto 2007, n. 124, sulla disciplina del segreto di Stato.

(2) Vedi la L. 10 maggio 1978, n. 170, sui procedimenti d’accusa, l’art. 12, L. 1 aprile 1981, n. 121, sull’Amministrazione della pubblica sicurezza, e l’art. 21, L. 22 maggio 1978, n. 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza.

(3) Articolo così sostituito dall’art. 15, L. 26 aprile 1990, n. 86, in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione. Il delitto previsto in questo articolo, consumato o tentato, è attribuito al tribunale in composizione collegiale, ai sensi dell’art. 33-bis del codice di procedura penale, a decorrere dalla sua entrata in vigore.