Carceri, nessuna violazione dei diritti umani se la cella supera i tre mq e il bagno ha la porta (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 6 marzo 2024, n. 9672).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

PRIMA SEZIONE PENALE

Composta da:

Dott. STEFANO MOGINI -Presidente-

Dott. TERESA LIUNI -Consigliere-

Dott. FRANCESCO ALIFFI -Consigliere-

Dott. EVA TOSCANI -Relatore-

Dott. CARMINE RUSSO -Consigliere-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(omissis) (omissis) nato a TORRE DEL GRECO il xx/xx/19xx;

avverso l’ordinanza del 01/02/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa EVA TOSCANI;

lette le conclusioni del PG, Dott.ssa SILVIA SALVADORI, che ha chiesto la declaratoria d’inammissibilità del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’ordinanza in preambolo il Tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il reclamo proposto da (omissis) (omissis) avverso il provvedimento, in data 21 marzo 2022, con il quale il Magistrato di sorveglianza aveva negato al ricorrente i rimedi risarcitori di cui all’art. ex art. 35-ter legge 26 luglio 1975, n. 354. (Ord. pen.) in relazione a periodi di detenzione patiti presso gli Istituti di pena di Asti, Roma Rebibbia, Napoli Secondigliano nonché quella sofferta, nei periodi specificamente indicati nel provvedimento impugnato, negli Istituti di pena di Napoli Poggioreale, Foggia e Ariano Irpino.

Per ciò che qui interessa, il Tribunale di sorveglianza ha motivato il rigetto del reclamo, in primo luogo confermando la correttezza dei criteri di computo dello spazio individuale in cella collettiva, concludendo che l’istante ha, nei periodi in contestazione, fruito di uno spazio superiore a tre metri quadrati, avuto riguardo a quanto risultante dalle relazioni trasmesse dagli Istituti penitenziari ed ai criteri indicati dalla giurisprudenza, in punto di computabilità dei letti a castello e degli arredi fissi, con esclusione di arredi quali bilancette, tavoli ed altri arredi.

In secondo luogo, quanto ai fattori degradanti la detenzione, ha osservato come – con riferimento alla dedotta presenza nella cella singola di un bagno alla turca – essendo l’uso di tale servizio non promiscuo e separato dal resto della cella con una porta amovibile, tale dato non integrasse profili d’insalubrità, ma un mero indicatore da valutarsi nel complesso delle condizioni detentive che riteneva, dunque, non contrarie all’art. 3 della convenzione EDU.

2. Avverso detta ordinanza ricorre (omissis), a mezzo del difensore di fiducia, deducendo, con un unico e articolato motivo, la violazione degli artt. 35-ter Ord. pen.

Deduce la sussistenza di tutte le condizioni per procedere al riconoscimento della detenzione non conforme e, senza avversare i criteri di calcolo dello spazio individuale da assicurare a ciascun detenuto, concentra le sue doglianze sulla mancata valutazione di ulteriori fattori negativi, diversi dal sovraffollamento, ma comunque idonei a configurare la violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’art. 3 della Convenzione EDU.

Segnatamente, lamenta l’erroneità della motivazione del provvedimento impugnato laddove trascura il rilievo di elementi obiettivi che – pur se non oggetto dell’originario reclamo – sono comunque transitati nel patrimonio conoscitivo del giudice specializzato attraverso le memorie; sotto questo profilo, censura il mancato rilievo attribuito alla limitata possibilità di fruizione delle docce e delle luci (i cui interruttori allocati fuori dalla cella erano gestiti dal personale della Polizia penitenziaria).

Ugualmente, lamenta – quanto alla detenzione presso il carcere di Poggioreale – la limitata possibilità di fruizione delle docce e l’esiguità del tempo da trascorrere all’esterno della cella. Infine si duole dell’illogicità della motivazione con la quale si è esclusa la rilevanza della presenza nella cella del bagno alla turca, non adeguatamente separato dal resto dell’ambiente, in evidente spregio dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 1 n. 13660 del 25.02.2022) in un caso del tutto sovrapponibile.

3. Il Sostituto procuratore generale, Dott.ssa Silvia Salvadori, intervenuto con requisitoria scritta depositata in data 14 giugno 2023, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso deduce censure infondate.

2. Com’è noto, il sistema di tutela a favore dei detenuti è stato rafforzato concretizzandosi in due azioni, autonome e complementari, disciplinate, rispettivamente, agli artt. 35-bis e 35-ter Ord. Pen., che consentono al detenuto di essere sottratto in modo tempestivo ad una condizione detentiva contraria al senso di umanità – per effetto di un intervento di tipo preventivo-inibitorio, con possibilità di esecuzione coattiva, in base all’art.35-bis – e, dall’altro, di conseguire un ristoro per la violazione già subita, grazie alla tutela risarcitorio- compensativa di cui all’art. 35-ter (il riferimento è al decreto-legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito dalla legge del 21 febbraio 2014, n. 10 e al decreto- legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117).

L’essenziale caratteristica dell’art. 35-ter Ord. pen. consiste nell’aver introdotto rimedi di tipo compensativo/risarcitorio, con estensione dei poteri di verifica e di intervento del magistrato di sorveglianza, allo scopo di rafforzare gli strumenti tesi alla riaffermazione della «legalità della detenzione».

Si tratta, in sostanza, di misure che rappresentano un quid pluris rispetto al previgente sistema di tutela, essenzialmente incentrato sul potere del magistrato di sorveglianza di inibire la prosecuzione dell’attività contra legem, in ottemperanza al monito derivante dalla Corte EDU di introdurre ricorsi tali «che le violazioni dei diritti tratti dalla Convenzione possano essere riparate in maniera realmente effettiva» (così, Corte EDU, 8/01/2013, Torreggiani ed altri c. Italia, §98).

Il legislatore ha perimetrato il pregiudizio risarcibile ai sensi dell’art. 35-ter al fatto di aver subìto «condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

3. Ciò premesso, rileva la Corte come il Tribunale di sorveglianza abbia fatto buon governo dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale sul tema e ha mostrato di avere tenuto in considerazione tutti i lamentati motivi di disagio dedotti dall’interessato, ritenendoli – con motivazione non manifestamente illogica – non incidenti sulla decisione discrezionale ad essa spettante.

3.1. In primo luogo, ha correttamente posto in evidenza la circostanza, non avversata dal ricorrente, che il detenuto aveva sempre fruito di uno spazio superiore a tre mq.

A tal proposito va ricordato come, a seguito di quanto chiarito nella pronuncia della Grande Camera del 20/10/2016 nel procedimento Mursic c. Croazia, mentre la costrizione di un detenuto in uno spazio inferiore a tre metri quadrati in una cella collettiva determina una “forte presunzione” di violazione dell’art. 3 CEDU, uno spazio personale dentro la cella compreso fra i tre e i quattro metri quadrati può assumere rilievo nella prospettiva dell’art. 3 CEDU solo se l’esiguità della superficie si accompagna ad altri fattori di inadeguatezza del regime penitenziario (impossibilità di fare esercizio all’aria aperta, scarso accesso alla luce naturale e all’aria, insufficiente sistema di riscaldamento, omesso rispetto di basilari requisiti igienico-sanitari).

Infine, in presenza di uno spazio personale dentro la cella superiore a quattro metri quadrati, come quello che riguarda l’odierno ricorrente, ai fini dell’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU, assumono rilievo aspetti diversi da quello dello spazio.

Sicché, sotto tale profilo, il Tribunale non ha trascurato le deduzioni difensive, ma ha, di contro, valutato (p. 2 e 3 dell’ordinanza) le condizioni negative dedotte dal detenuto (limitata possibilità di uso delle docce, ridotta permanenza all’aria aperta, scarsa luminosità) e le ha reputate smentite dalle informazioni acquisite e, comunque, ha correttamente ritenuto che tali situazioni, ove esistenti, non si erano tradotte nella sottoposizione del condannato a un trattamento disumano e degradante.

Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, la condizione detentiva contraria all’art. 3 della CEDU, a differenza dell’ambito di applicazione dei rimedi preventivi di cui all’art. 35-bis, non è riconoscibile in presenza di una qualsiasi violazione dei diritti del soggetto detenuto, ma esclusivamente in caso di violazioni di tale entità da provocare ‘all’interessato un’afflizione che eccede l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione (tra le altre, Sez. 1, n. 20985 del 23/06/2020, Biondino, Rv. 279220; Sez.1 n. 43722 del 11/06/2015, Salierno; Sez. 1, n. 14258 del 23/01/2020, Inserra, Rv. 278898 secondo cui, «In tema di rimedi risarcitori ex art. 35-ter Ord. pen., non costituisce trattamento inumano o degradante, rilevante ai sensi dell’art. 3 della convenzione, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la situazione di “mero disagio” collegata a contesti di vita intramuraria poco confortevoli o alla necessità di subire, per periodi non prolungati, disagi non previsti, né prevedibili, la cui rimozione richiede tempi di intervento non sempre programmabili».

Ciò coerentemente con il criterio della così detta soglia minima di gravità, costantemente utilizzato dalla Corte EDU per selezionare le condotte messe al bando ai sensi dell’art. 3 della Convenzione.

Gravità non riconoscibile nella situazione complessivamente denunciata dal ricorrente.

3.2. Quanto allo specifico tema della presenza, all’interno della cella, di un bagno-doccia alla turca, il Collegio intende dare continuità al principio di diritto espresso da questa Corte (Sez. 1, n. 15308 del 23/01/2019, Kondi, non mass.) secondo cui «il periodo detentivo trascorso anche in camera detentiva singola, senza limitazioni di spazio vitale rilevanti, può rappresentare un concreto indicatore di trattamento degradante, da valutarsi nel complessivo contesto delle condizioni detentive».

E, in tale contesto, si è chiarito che l’assenza di un’effettiva e completa separazione tra il locale-bagno e il resto della camera detentiva «è fattore potenzialmente produttivo di un trattamento inumano o degradante – sia in camera detentiva singola (per questioni di decoro ed igiene, oltre che per la probabilità di osservazione dall’esterno di quanto accade nello spazio che dovrebbe essere riservato), sia in camera detentiva collettiva, se ed in quanto a tale condizione sfavorevole si associno altri aspetti negativi della complessiva condizione vissuta dal soggetto recluso» e che «non può, pertanto, omettersi la verifica del complesso delle condizioni detentive – ai fini di cui all’art. 35-ter ord. pen – lì dove risulti accertata, come nel caso in esame, l’esistenza del bagno “a vista” in camera detentiva singola» (Sez. 1, Kondi, cit.).

Ebbene, nel caso di specie, il Tribunale ha espresso le ragioni per le quali non si è ritenuto tale elemento di intollerabile afflittività, chiarendo che il bagno- doccia era separato dal resto della cella da una porta, sebbene amovibile, che – considerata unitamente all’ uso esclusivo del bagno da parte del ricorrente – escludeva la lesione del diritto alla riservatezza, così come quello alla salubrità dell’ambiente, il cui corretto mantenimento non era compromesso da fattori esterni.

Conclusivamente, nel caso in esame, tutti i concorrenti aspetti segnalati dal ricorrente hanno costituito oggetto di ponderata valutazione da parte del Tribunale che ha fornito una motivazione che non risulta illogica e che appare fondata su una compiuta ricognizione di tutte le circostanze rilevanti.

La diversa opinione esposta, sul tema, dal ricorrente non introduce profili di critica tali da determinare la riconoscibilità di un vizio motivazionale o d’incompletezza rilevante dell’istruttoria.

4. Dalle considerazioni svolte discende il rigetto del ricorso e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso, il 19 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.