Carica filmati pornografici su sito di file sharing: è diffamazione aggravata (Corte di Cassazione penale, sez. V, sentenza 28.05.2015, n. 22933).

Chi carica immagini o video lesivi dell’altrui reputazione su un sito di file sharing commette il reato di diffamazione stante la volontà consapevole del soggetto volta a diffondere e divulgare i suddetti file.

E’ quanto stabilito dalla Quinta Sezione Penale della Cassazione con la sentenza 28 maggio 2015, n. 22933.

La fattispecie, inoltre, risulta aggravata dall’aver commesso il fatto tramite la rete telematica e, quindi, mercé uno strumento di grande pubblicità.

Nel caso di specie, il reo ha divulgato immagini di carattere pornografico, rubricate indicando nome e cognome di uno dei soggetti raffigurati, caricandole su un sito di condivisione e rendendole disponibili a tutti i frequentatori della rete.

La condivisione di immagini a contenuto equivoco e recanti il nominativo delle parti coinvolte integra a tutti gli effetti la condotta di diffamazione. Di essa risponde chi, comunicando con più persone, offende la reputazione di un individuo assente.

La pubblicizzazione delle immagini suddette, falsamente attribuite ad una persona che invece ne era estranea, integra la “comunicazione a più persone” richiesta dalla norma. La divulgazione, per essere penalmente rilevante, deve avvenire con almeno due persone: è di tutta evidenza che la rete web offra una piattaforma divulgativa assai vasta.

Inoltre, la diffamazione può avvenire con qualsiasi mezzo, compreso quello telematico. Anzi, ai sensi dell’art. 595 c. 3 c.c., l’impiego di questo strumento integra una circostanza aggravante stante la vasta platea di soggetti raggiungibili.

La Corte, nel suo processo delibativo, ricostruisce la vicenda e segna una significativa distinzione tra l’attività di scaricare e quella di condividere file. Nella vicenda che ci occupa, infatti, il reo aveva effettuato prima il download delle immagini incriminate tramite la retepeer to peer e solo dopo averle rinominate aveva provveduto all’upload.

Orbene, secondo i giudici, scaricare dalla rete immagini o video pornografici e salvarli sul proprio computer non integra la diffamazione, in quanto manca la prova della volontà di divulgarli; al contrario, la successiva diffusione degli stessi sul web rappresenta una condotta idonea a realizzare il delitto in discorso.

Infatti, l’elemento soggettivo in tema di diffamazione consiste nella mera rappresentazione e volontà di offendere l’altrui reputazione: si tratta di dolo generico che non richiede l’animus diffamandi.

Nel caso affrontato dalla sentenza in commento, il reo (in realtà si tratta di una donna) aveva creato delle directory pubbliche aventi contenuto pornografico ed intitolate con il nome di una ragazza di minore età. Inoltre, non paga, aveva comunicato tramite sms ad un’amica il suo intento diffamatorio.

La Suprema Corte, pertanto, ha ritenuto acclarato l’elemento soggettivo del reato consistente nella volontà di gettare discredito in capo alla minore, anche in virtù del citato messaggio telefonico, ed ha confermato la sentenza di appello.

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.E. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 589/2011 CORTE APPELLO di CALTANISSETTA, del 19/11/2013;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 27/01/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI;

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Dott. Francesco SALZANO, ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio in ordine alla concessione delle attenuanti generiche. Ha poi rettificato le conclusioni, chiedendo l’annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato, ferme restando le statuizioni civili;

Per la parte civile, l’avv. Salvatore MACRI’ ha evidenziato che nel giudizio di appello vi sono stati dei rinvii delle udienze con sospensione del termine di prescrizione; ha quindi chiesto il rigetto del ricorso con la conferma della sentenza impugnata;

Per la ricorrente, l’avv. Carmelo Fabrizio FERRARA ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 19 novembre 2013 la Corte di Appello di Caltanisetta ha confermato la pronunzia di primo grado del Tribunale monocratico di Gela, con la quale F.E. era stata dichiarata colpevole del reato di diffamazione, per aver offeso la reputazione di D.G.G., di anni 17, divulgando immagini pornografiche di due persone, due di sesso maschile e una di sesso femminile, quest’ultima identificata mediante la scritta (OMISSIS), mediante la immissione del file contenente tali immagini sul sito eDonkey, di libero accesso, e così comunicando con più persone. Con l’aggravante di avere commesso il fatto mediante la rete telematica e quindi con un mezzo di estesa pubblicità.

2. Propone ricorso l’imputata, con atto sottoscritto dal suo difensore, deducendo i seguenti quattro motivi.

2.1 Violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c, per erronea applicazione della legge penale (art. 595 c.p.) e per vizio di motivazione. Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto configurabile nel caso di specie il reato di cui all’art. 595 c.p., non avendo i giudici di merito analizzato la differenza tra “condivisione” e “divulgazione” di materiale pornografico.

Secondo la ricorrente la Corte territoriale ha implicitamente ritenuto che la sola condotta di essersi procurata i file pornografici mediante l’utilizzazione del programma di condivisione Emule integri il reato di diffamazione, e ciò per la ragione che tale programma (come altri similari) ha la caratteristica di mettere automaticamente in condivisione i file man mano che singole parti degli stessi vengono scaricati. Sostiene, quindi, che non sarebbe ravvisabile il reato di diffamazione nè quello di divulgazione di materiale pedopornografico, per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i file illeciti sono stati procurati attraverso un programma di condivisione tipo eMule.

Contesta, peraltro, la sussistenza dell’elemento soggettivo, non essendovi la prova di una volontà diretta a divulgare o diffondere il file.

La Corte avrebbe con motivazione apodittica ritenuto sussistente tale volontà dalla circostanza che l’imputata aveva inviato un sms ad un’amica, nonchè dall’ulteriore circostanza che nel telefono cellulare era stata ritrovata una foto ritraente un articolo di giornale che faceva riferimento ad un video hard di una ragazza di (OMISSIS).

Nella sentenza non si è tenuto conto – secondo la ricorrente – del fatto che la Polizia Postale aveva riferito con riferimento a lei, che “questo compartimento non ha potuto accertare se quest’ultimo abbia immesso per primo il materiale diffamatorio oggetto delle indagini”. La Corte di Appello ha invece riportato nella sua motivazione una circostanza diversa ovvero che “era difficile individuare il soggetto che per primo aveva immesso sulla rete internet il file in modo da diffamare la denunciante”.

Deduce infine la ricorrente che la comunicazione in via confidenziale e riservata ad una sola persona, ossia a B.M.C., fa sì che la condotta contestata all’imputata perda il suo carattere criminoso.

2.2. Con il secondo motivo sono stati dedotti violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla valutazione della prova indiziaria. La ricorrente censura ancora una volta la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che sia stata lei a immettere sul web il file, traendo la convinzione da elementi indiziari non valutati correttamente.

2.3. Con il terzo motivo sono stati dedotti violazione di legge e vizio di motivazione per omessa pronunzia sia su quanto dedotto nella memoria difensiva depositata in data 6 giugno 2012, sia su quanto dedotto nelle note tecniche depositate all’udienza del 19 novembre 2013.

2.4. Con il quarto motivo è stato dedotto il vizio di motivazione per omessa pronuncia sulla richiesta di riapertura dell’istruttoria e sulla mancata concessione delle attenuanti generiche.

La ricorrente si duole della mancata motivazione sulla richiesta di una perizia informatica da attuarsi con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale.

Censura altresì la sentenza per omessa motivazione sull’altro motivo di appello con il quale era stato richiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche.

Motivi della decisione

Il ricorso va rigettato.

1. In primo luogo va rilevato che sebbene la data di commissione del reato sia indicata in quella del 10 dicembre 2006, risulta dagli atti che nel giudizio di appello vi siano stati tre rinvii disposti su richiesta dei difensori e in ragione della loro adesione ad astensioni proclamate da organismi del settore.

Ne deriva che il termine prescrizionale ha subito plurime sospensioni, per cui alla data della presente sentenza il reato non è ancora estinto ex art. 157 c.p..

2. Infondati sono i primi tre motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè censurano tutti la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto configurabile il reato di cui all’art. 595 c.p..

Secondo la ricorrente la Corte territoriale ha implicitamente ritenuto che la sola condotta di essersi procurata i file pornografici mediante l’utilizzazione del programma di condivisione eMule integri il reato di diffamazione, e ciò per la ragione che tale programma (come altri similari) ha la caratteristica di mettere automaticamente in condivisione i file man mano che singole parti degli stessi vengono scaricati. Sostiene, quindi, che non sarebbe ravvisabile il reato di diffamazione nè quello di divulgazione di materiale pedopornografico, per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i file illeciti sono stati procurati attraverso un programma di condivisione tipo eMule.

Contesta, peraltro, la sussistenza dell’elemento soggettivo, perchè non vi sarebbe la prova di una volontà diretta a divulgare o diffondere il file.

2.1. E’ necessario premettere quanto risulta accertato dai giudici di merito, con la precisazione che a questa Corte è inibita una diversa lettura dei fatti, così come implicitamente sembra sostenere la ricorrente.

Nè va trascurato nel caso in esame che la sentenza impugnata in punto di responsabilità ha confermato quella di primo grado, sicchè vanno ribaditi i principi secondo i quali, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi a una “doppia pronuncia conforme” e cioè a una doppia pronuncia (in primo e in secondo grado) di eguale segno (vuoi di condanna, vuoi di assoluzione), l’eventuale vizio di travisamento può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Rv. 258438).

Nella sentenza di primo grado e in quella impugnata in questa sede, che per la ricostruzione della vicenda ha fatto legittimamente rinvio alla prima, si evidenzia che gli esiti dell’istruttoria dibattimentale hanno consentito di “affermare che l’odierna imputata, che si rivelava un’abile utilizzatrice dei sistemi informatici, utilizzava i software di file – sharing eMule e bearshare che consentono di scaricare e divulgare files di varia natura con tutti gli utenti connessi alla rete P2P, scaricando e contestualmente divulgando a tutti i frequentatori della rete materiale di carattere pornografico, tra cui il video….riguardante D.G., con la quale in precedenza aveva intrattenuto rapporti di amicizia, mediante l’immissione dei relativi files sul sito eDonkey.

Quest’attività di condivisione di cartelle telematiche, di per sè, ci consente di ritenere la F. la divulgatrice per finalità diffamatorie del materiale pornografico riguardante la D. – peraltro rivelatosi falso e suggestivo non riprendendo la persona offesa ma solo una ragazza vagamente somigliante – e ci permette di ritenere dimostrata la sua condotta illecita, atteso che l’inserimento del file relativo alle immagini pornografiche intitolate (OMISSIS) permette a tutti i frequentatori dello stesso sito di condivisione telematica di accedere a tali immagini e di eventuali frequentatori della rete telematica che accettassero le condizioni di accesso al sito in questione, propagandole sull’intera rete telematica…” (pag. 6 della sentenza di primo grado).

E che la F. abbia non solo scaricato ma volutamente condiviso il file contenente le immagini falsamente ritraenti la D. è provato, secondo i giudici di merito, dagli accertamenti irripetibili svolti dalla Polizia Postale, che aveva rilevato l’ubicazione in cartelle di sistema delle immagini. “In particolare la foto già rilevata nelle pregresse attività investigative ( (OMISSIS).jpg) e la foto denominata (OMISSIS) whit (OMISSIS).jpg, la quale risulta stata creata in data (OMISSIS) ma rinominata diverse volte e spostata in varie cartelle del sistema dell’utente” (pagg. 7-8 della sentenza di primo grado).

E un teste della Polizia postale ha spiegato le modalità con le quali la F. ha appositamente creato le cartelle di condivisione, confermando che i file di sistema, inequivocabilmente denominati con i riferimenti alla D., erano stati messi a disposizione della rete telematica dall’imputata, con la costituzione delle suddette cartelle che potevano essere condivise da parte di tutti i potenziali frequentatori della rete.

E’ stato, peraltro, accertato che alcune delle immagini, contenute sui file di sistema rinvenuti sul disco rigido del computer della F., erano presenti anche nel telefono cellulare della donna e che una delle immagini trovate nel computer era stata scattata da un cellulare dello stesso tipo di quello in possesso dell’imputata (pag.

9 della sentenza di primo grado). La Polizia postale ha ulteriormente accertato che la F., con numerosi short messages System (sms) inviati a una amica, aveva divulgato notizie riguardanti le immagini riferite alla D. e presenti in rete. Significativo per i giudici di merito è il messaggio inviato il 4 gennaio 2007 nel quale la F. aveva scritto: “dobbiamo scrivere la sua storia e la mettiamo su internet tipo melissa p.”; e in un altro sms la F. aveva mostrato l’intento di coinvolgere pure la madre della D. ( C.D.), scrivendo: “ci vulissi na foto da sig. D.”.

2.2. Tale articolata ricostruzione dei fatti, recepita correttamente dalla Corte territoriale, consente di confutare le doglianze difensive in base alle quali non sarebbero sussistenti gli elementi oggettivo e soggettivo del reato contestato alla F..

Invero, in primo luogo è evidente che l’imputata non si è limitata a scaricare e a “condividere” le immagini pornografiche in questione, ma ha svolto tutta un’attività finalizzata alla divulgazione delle suddette immagini, attribuendole falsamente alla D.. Come si è visto, infatti, le immagini risultano create in data 2 settembre 2006, ma sono state rinominate più volte e spostate dalla F. in varie cartelle condivise su eDonkey. La presenza di alcune delle suddette immagini sul cellulare della F. e i messaggi inviati alla amica, poi, sono un ulteriore elemento a sostegno della tesi accusatoria, che ha rappresentato un ruolo attivo e consapevole nella divulgazione con finalità diffamatorie delle stesse immagini.

Non è rilevabile, quindi, alcun vizio di motivazione della sentenza impugnata, che correttamente ha valorizzato tutti gli elementi di prova sopra indicati anche al fine di ritenere configurato il dolo necessario ad integrare l’elemento psicologico del reato contestato.

Il fatto che l’imputata abbia agito allo scopo di condividere, divulgandole e pubblicizzandole, le immagini con altri, proprio per screditare la D. ed addirittura la madre di costei, è sufficiente ad integrare tutti gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 595 c.p..

Nel caso in esame, come si è visto, non si può affermare – come fa la difesa dell’imputata – che la F., utilizzando il programma eMule, si sia limitata a scaricare le immagini e a condividerle proprio in ragione delle caratteristiche del suddetto programma.

E’ noto che eMule sia uno dei più efficienti programmi di condivisione (file sharing) e che esso è compatibile con eDonkey, migliorando, peraltro, in maniera determinante alcune caratteristiche: aggiornamento automatico dei server, facilità nel trovare file rari ed ottimizzazione del rapporto upload/download.

Ma proprio per questo eMule e eDonkey conservano traccia di quanto si è dato agli altri (sotto forma di crediti automatici) e conferisco una priorità nello scaricare.

Ecco perchè la Polizia postale, nel caso in esame, ha accertato non solo che le immagini in questione sono state scaricate dalla F., ma che la stessa le ha rinominate e a sua volta spostate in varie cartelle del sistema dell’utente, ponendo così in essere una condotta di illegittima divulgazione, giacchè ha falsamente indicato la D. come la ragazza protagonista del video.

Essendo questi i fatti risultanti dalla sentenza impugnata, non si posso aver dubbi che la F. abbia agito col dolo di diffondere i file scaricati.

Certamente non è ravvisabile il reato di diffamazione per il solo motivo (e sulla base della sola prova) che i file siano procurati attraverso un programma di condivisione tipo eMule, essendo necessaria anche la prova di una volontà consapevole del soggetto diretta a divulgare o diffondere il file; nel caso di specie, però, tale prova è stata acquisita, giacchè la F., dopo aver completamente scaricato le immagini pornografiche in questione, le ha volontariamente inserite in cartelle contenenti i file destinati alla condivisione, perfino rinominando le immagini con specifici riferimenti alla ignara D..

Nella sentenza impugnata e in quella di primo grado è stata resa congrua e logica motivazione su questi elementi essenziali per la qualificazione giuridica del fatto come reato di cui all’art. 595 c.p., e si è data compiuta risposta a tutte le deduzioni della difesa dell’imputata.

3. Manifestamente infondate sono le doglianze di cui al quarto motivo, con il quale è stato dedotto il vizio di motivazione per omessa pronuncia sulla richiesta di riapertura dell’istruttoria e sulla mancata concessione delle attenuanti generiche.

3.1. La ricorrente si duole della mancata motivazione sulla richiesta di una perizia informatica da attuarsi con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale.

Risulta nell’atto di appello che la F. aveva richiesto “la riapertura del dibattimento, al fine di provvedere alla nomina di un perito informatico, che possa meglio chiarire la differenza tra immissione e condivisione, nonchè individuare (laddove sia possibile, posto che la Polizia postale di Catania non vi è riuscita) il soggetto che ha immesso le immagini in contestazione sulla rete”.

E’ evidente la genericità della richiesta ed è ancor più evidente la sua superfluità alla luce di quanto rappresentato dai giudici di merito in ordine alle risultanze processuali, sopra specificamente riportate.

Va, a tal proposito, rammentato che, in tema di giudizio di appello, la rinnovazione del dibattimento, postulando una deroga alla presunzione di completezza dell’indagine istruttoria svolta in primo grado, ha caratteristica di istituto eccezionale, nel senso che ad essa può farsi ricorso quando appaia assolutamente indispensabile, cioè nel solo caso in cui il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. 5, n. 7569 del 21/04/1999, Rv. 213637; Sez. 4, n. 5550 del 13/01/1981, Rv. 149209).

Nè può trascurarsi nel caso di specie che le valutazioni dei giudici di merito in ordine alla prova sono state fatte sulla base di rilievi irripetibili della Polizia postale, dovendo a tal proposito evidenziarsi che nel dibattimento del giudizio di appello la rinnovazione di accertamenti peritali può essere disposta soltanto se il giudice ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (La S.C. ha precisato che, in caso di rigetto della relativa richiesta, la valutazione del giudice di appello, se logicamente e congruamente motivata, è incensurabile in cassazione, in quanto costituente giudizio di fatto) (Sez. 2, n. 36630 del 15/05/2013, Rv. 257062).

3.2. Inammissibile è anche la censura della sentenza per omessa motivazione sul mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Va a tal proposito evidenziato che analogo motivo sul trattamento sanzionatorio è stato dedotto del tutto genericamente in appello, sicchè legittimamente la Corte territoriale non lo ha vagliato.

Il difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi generici, proposti in concorso con altri motivi specifici, non può formare oggetto di ricorso per Cassazione, poichè i motivi generici restano viziati da inammissibilità originaria anche quando la decisione del giudice dell’impugnazione non pronuncia in concreto tale sanzione. (Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014, Rv. 262700; Sez. 2, n. 49007 del 16/09/2014, Rv. 261423).

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell’imputata anche al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano nella misura qui di seguito indicata in dispositivo.

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al rimborso di quelle sostenute dalla parte civile, liquidate in Euro 2000,00, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2015.