Cassazione: l’avvocato, nel ricorso, deve usare parole comprensibili alla Corte, pena l’annullamento (Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, Sentenza 28 maggio 2020, n. 9996).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4337-2018 proposto da:

MIGNANELLI MONICA, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ELIO ROSSI;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO G.N.T. DI ROSSI GRAZIANO & C. SAS, ROSSI GRAZIANO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 6678/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 28/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO ROSSETTI.

FATTI DI CAUSA

1. L’esposizione dei fatti di causa sarà limitata alle sole circostanze ancora rilevanti in questa sede.

Nel 2009 Monica Mignanelli, avvocato, chiese ed ottenne dal Tribunale di Cassino un decreto ingiuntivo nei confronti di Graziano Rossi, sia in proprio che quale amministratore della società GNT di Rossi & C s.a.s., decreto avente ad oggetto il pagamento di compensi professionali.

Graziano Rossi propose opposizione al decreto ingiuntivo. Il ricorso non indica né le ragioni dell’opposizione, né le difese avverso di esse svolte in primo grado, limitandosi a riferire che le une e le altre debbono “aversi qui per trascritte” (così il ricorso, p. 4, 5, 8).

Nel corso del giudizio di opposizione l’opponente venne dichiarato fallito, ed il giudizio interrotto. Il processo di opposizione al decreto ingiuntivo venne riassunto dalla curatela fallimentare.

2. Con sentenza 7.10.2013 il Tribunale di Cassino dichiarò improcedibile la domanda proposta in via monitoria da Monica Mignanelli nei confronti del fallimento, e revocò il decreto ingiuntivo.

3. La Corte d’appello di Roma, adìta da Monica Mignanelli, con sentenza 19.10.2017 dichiarò inammissibile l’appello per genericità, ex art. 342 c.p.c..

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da Monica Mignanelli con ricorso fondato su undici motivi.

Le parti intimate non si sono difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Tutti i motivi di ricorso, ad eccezione del nono, sono inammissibili per due indipendenti ragioni.

1.1. La prima ragione è la irresolubile farraginosità dell’esposizione dei fatti processuali e delle censure.

Il ricorso oggi in esame, infatti:

a) tace circostanze rilevanti, quali le ragioni poste a fondamento dell’opposizione a decreto ingiuntivo, quelle di contrasto all’opposizione, ed i motivi di appello, in violazione del precetto di cui all’art. 366, n. 3, c.p.c.;

b) contiene riferimenti a fatti o circostanze introdotti nella narrazione, ma inesplicati:

– b’) così a p. 3, ove si fa cenno al “citato errore materiale”, di cui si ignora la natura;

– b”) così a p. 4, ove si dichiarano “da aversi qui per trascritte” le ragioni poste dall’opponente a fondamento dell’opposizione;

– b”) così, ancora, a p. 4, ove si fa riferimento “al presente preverbale” (lemma, quest’ultimo, ignoto a questa Corte);

– b'”) così a p. 5, ove si fa riferimento “alla costante giuri Jprudena di legittimità che qui si abbia per integralmente trascritti’;

– b”) così, ancora, a p. 5, ove si fa riferimento a quanto dichiarato da “l’avv. Gabriele Leone nell’atto di citazione con querela di falso”, vicenda altrimenti ignota;

c) contiene riferimenti ridondanti a fatti e circostanze del tutto irrilevanti ai fini del decidere (le modalità dell’esecuzione iniziata sulla base del decreto opposto; la scansione delle udienze fissate dal giudice di primo grado; il numero identificativo delle raccomandate inviate al cliente).

Un ricorso così concepito appare incoerente nei contenuti ed oscuro nella forma.

Ma coerenza di contenuti e chiarezza di forma costituiscono l’imprescindibile presupposto perché un ricorso per cassazione possa essere esaminato e deciso.

E ciò non solo per il nostro ordinamento, ma in tutte le legislazioni degli ordinamenti economicamente avanzati: basterà ricordare a tal riguardo, excelpta multorum, l’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo (d. lgs. 2.7.2010 n. 104), il quale impone alle parti di redigere gli atti “in maniera chiara e sintetica”; il par. 14, lettera “A”, della Guida per gli avvocati” approvata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ove si prescrive che il ricorso dinanzi ad essa debba essere redatto in modo tale che “una semplice lettura deve consentire alla Corte di cogliere i punti essenziali di fatto e di diritto”; o la Ride 8, lettera (a), n. 2, delle Federal Rules of civil Procedures statunitensi, la quale impone al ricorrente “una breve e semplice esposizione della domanda” (regola applicata così rigorosamente, in quell’ordinamento, che nel caso Stanard v. Nygren, 19.9.2011, n. 09- 1487, la Corte d’appello del VIII Circuito U.S.A. ritenne inammissibile per lack of punctuation un ricorso nel quale almeno 23 frasi contenevano 100 o più parole, ritenuto “troppo confuso per stabilire i fatti allegati” dal ricorrente).

1.2. In secondo luogo, i motivi di ricorso diversi dal nono sono altresì inammissibili perché, per quanto è dato comprendere dalla confusa esposizione dei fatti già rilevata, essi sono estranei alla ratio decidendi sottesa dalla sentenza impugnata.

La Corte d’appello di Roma ha dichiarato l’appello di Monica Mignanelli inammissibili per genericità, sicché solo di questa statuizione si può in questa sede discutere se sia corretta o scorretta.

La ricorrente, invece, disquisisce sulla validità della procura di controparte (primo e secondo motivo); sulla procedibilità del giudizio nei confronti del fallito (terzo motivo); sulla regolarità dell’istruttoria svolta in primo grado (quarto motivo); sulla regolare riassunzione del giudizio di primo grado (quinto motivo); sulla regolarità della notifica non si sa bene di quale atto (sesto e ottavo motivo); sulla valutazione delle prove (settimo e decimo motivo); sul rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto pronunciato (undicesimo motivo).

Le censure suddette nulla hanno a che vedere con il contenuto decisorio della sentenza impugnata, e sono pertanto inammissibili.

2. Col nono motivo la ricorrente lamenta “la violazione dell’articolo 360, n. 3, c.p.c.” in relazione all’articolo 342 c.p.c..

L’illustrazione del motivo, che occupa meno di un foglio, è così concepita:

-) nelle prime diciassette righe viene trascritto il contenuto dell’articolo 342 c.p.c., ed alcune affermazioni generali circa la natura dell’appello;

-) alle righe 18 e 19 si afferma che “l’avvocato Monica Mignanelli ha prodotto ex novo i documenti già depositati per accertare la fondatezza’ (non si sa di cosa);

-) dal ventiduesimo al ventiseiesimo rigo si dichiara di voler censurare la sentenza d’appello perché “ove fosse stata riscontrata l’insussistenza della aspecificità dei motivi, avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità”;

-) l’illustrazione del motivo si conclude con l’affermazione che la Corte d’appello avrebbe omesso di “rilevare e accertare il credito già richiesto prima del fallimento”.

2.1. Orbene, anche ad ammettere che un testo col contenuto sopra riassunto possa qualificarsi come “motivo di ricorso per cassazione”, del che fortemente questo Collegio dubita, quel che rileva è che la censura è inammissibile ai sensi dell’articolo 366, n. 6, c.p.c.

La ricorrente infatti si duole del giudizio di genericità del gravame formulato dalla Corte d’appello, ma né riassume, ne trascrive, i termini in cui il proprio atto d’appello era stato formulato.

Tuttavia denunciare l’erroneità del giudizio di genericità dell’appello è un motivo di ricorso che, per usare le parole della legge, “si fonda” sull’atto della cui erronea qualificazione la ricorrente si duole, e cioè l’atto d’appello.

Quando il ricorso si fonda su atti processuali, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366, comma primo, n. 6, c.p.c.).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex rilultis, Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Di questi tre oneri, richiesti come s’è detto a pena di inammissibilità, la ricorrente non ne ha assolto alcuno.

3. Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata.

4. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

P.q.m.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di Monica Mignanelli di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione della Corte di cassazione, in data 28 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020.

SENTENZA – copia non ufficiale -.