Cessione del quinto, no a trattenute a carico del lavoratore per i costi amministrativi (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 7 agosto 2024, n. 22362).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANTONIO MANNA                                  – Presidente –

Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI   – Rel.  Consigliere –

Dott. MARGHERITA MARIA LEONE                 – Consigliere –

Dott. ANTONELLA PAGETTA                            – Consigliere –

Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO         – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 25021-2021 proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (OMISSIS) (OMISSIS) 37, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS);

-ricorrente-

contro

(OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS), tutti domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS) (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS);

-controricorrenti-

avverso la sentenza n. 371/2021 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/03/2021 R.G.N. 837/2020;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2024 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS);

udito l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS).

FATTO

1. Con sentenza 25 marzo 2021, la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello di (OMISSIS) (OMISSIS) s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, di accertamento dell’illegittimità delle trattenute dallo stipendio dei dipendenti indicati in epigrafe, a titolo di costi di gestione amministrativi funzionali alla cessione del quinto del loro stipendio, quale debitrice ceduta e di relativa condanna alla restituzione di tali somme (con la consequenziale reiezione della sua speculare domanda riconvenzionale).

2. Come già il Tribunale, essa ha ritenuto siffatta attività amministrativa alla stregua di ordinaria operazione di gestione del rapporto, relativa a un diritto potestativo dei lavoratori, dovendo il datore di lavoro dotarsi di un ufficio amministrativo idoneo alla gestione del personale e di farsi carico di ogni operazione allo scopo necessaria (quali, in particolare: gestione delle ferie, delle malattie, degli infortuni, dei permessi, delle anticipazioni di T.f.r.); neppure avendo la società allegato, né tanto meno provato la maggiore gravosità delle prestazioni rese dagli impiegati addetti, rispetto alla propria organizzazione aziendale, a giustificazione del rimborso di costi aggiuntivi intollerabili o sproporzionati.

3. Con atto notificato il 27 settembre 2021, la società ha proposto ricorso per cassazione con un unico motivo, cui i lavoratori hanno resistito con unico controricorso.

4. Per la rilevanza nomofilattica della questione posta, la causa, inizialmente fissata in adunanza camerale, è stata rinviata all’odierna pubblica udienza.

5. Il P.G. ha comunicato le sue conclusioni scritte, nel senso del rigetto del ricorso.

6. Entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con un unico motivo, la ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 c.c., in relazione agli artt.1196 e 1175 c.c., per non avere la Corte territoriale considerato lo sdoppiamento degli atti di adempimento di un’obbligazione debitoria sorta unitaria, quale la corresponsione al lavoratore della retribuzione mensile, cui siano stati aggiunti quelli derivanti dalla cessione parziale dell’obbligazione, comportante una maggiore gravosità di costi, non rientranti nelle normali operazioni connesse al rapporto di lavoro, pertanto non di competenza esclusiva datoriale, in quanto dipendenti da una libera scelta del lavoratore per esigenze personali.

Essa ha poi chiarito la riferibilità della propria prestazione aggiuntiva, non già al rapporto di lavoro, quanto al credito (costituito da una parte della retribuzione corrisposta) oggetto di cessione, a norma dell’art. 1260 c.c. a titolo gratuito ovvero oneroso, non esigente il consenso del debitore ceduto (tenuto, ai sensi dell’art. 1175 c.c., all’esecuzione di tutte le prestazioni strumentali o accessorie necessarie alla soddisfazione completa dell’interesse del creditore), sul presupposto incontestato dell’assoluta ininfluenza, per il medesimo debitore ceduto, dell’adempimento verso il proprio creditore o verso il terzo (qui parzialmente) cessionario del credito: nel caso di specie, non essendo invece la nuova obbligazione indifferente, per la duplicazione delle attività amministrative di contabilizzazione e di gestione dettagliatamente allegate.

2. Il ricorso è infondato.

3. La sentenza impugnata ha richiamato, a sostegno del proprio incedere argomentativo, un precedente arresto di questa Corte non esattamente sovrapponibile al caso di specie, giacché si riferisce alla diversa ipotesi del rifiuto datoriale di operare la trattenuta della quota sindacale sulla retribuzione di un dipendente iscritto all’organizzazione, implicante il diverso profilo di garanzia dell’esercizio, da parte del lavoratore, della sua autonomia e libertà sindacale, costitutivamente radicato nell’ambito delle tutele e dei diritti propri del rapporto di lavoro (a norma degli artt. 35 e 39 Cost.), con riflessi anche di antisindacalità del comportamento datoriale (Cass. 4 ottobre 2019, n. 24877, con richiamo, in motivazione, a precedenti conformi: Cass. S.U. 21 dicembre 2005, n. 28269; Cass. 2 agosto 2012, n. 13886, in particolare relativi all’abrogazione, con il referendum del 1995, del secondo comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori e dal susseguente d.p.r. 313/1995, non determinante un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, ma soltanto del suo obbligo: ben potendo pertanto i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata e attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato, richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato medesimo).

4. Nondimeno, malgrado la diversità della vicenda, la citata Cass. 4 ottobre 2019, n. 24877, ha comunque negato che il datore di lavoro possa pretendere il rimborso dei costi del servizio aggiuntivo, a meno che non ne provi l’insostenibilità in rapporto alla propria organizzazione aziendale, potendo l’eccessiva gravosità della prestazione giustificare l’inadempimento del debitore ceduto (datore di lavoro), solo ove il creditore (lavoratore) non collabori a modificare le modalità della prestazione in modo da realizzare un “equo contemperamento degli interessi” (Cass. S.U. 21 dicembre 2005, n. 28269).

Sempre nell’ipotesi di “trattenute sindacali”, è stato, d’altro canto, escluso che l’insostenibilità dell’onere possa risultare semplicemente dall’elevato numero di dipendenti dell’azienda, dovendosi viceversa operare una valutazione di proporzionalità tra la gravosità dell’onere e l’entità dell’organizzazione aziendale, tenuto conto che un’impresa con un elevato numero di dipendenti ha, di norma, una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione (Cass. 2 agosto 2012, n. 13886, con affermazione del principio, ai sensi dell’art. 360-bis, n. 1 c.p.c.).

5. Ciò premesso, si muova dal rilievo che la cessione del quinto si colloca indubbiamente nell’alveo della cessione del credito, per la cui validità non occorre (secondo indirizzo costante, benché remoto: Cass. 29 luglio 1964, n. 2155; Cass. 20 novembre 1975, n. 3887) il consenso del debitore ceduto, cui la cessione medesima è opponibile purché egli ne sia a conoscenza (nella vicenda in esame che la società ricorrente ne fosse a conoscenza è circostanza pacifica inter partes).

Ora, poiché interesse primario del debitore ceduto è quello di liberarsi del proprio obbligo, per lui è normalmente irrilevante chi sia il soggetto destinatario del pagamento (cioè il cessionario del credito): nondimeno detta cessione potrebbe, in ipotesi, aggravare oltre misura la posizione del datore di lavoro debitore ceduto (tenuto conto della quantità delle cessioni e dell’entità degli oneri, in relazione all’organizzazione d’impresa).

Per questo la modificazione soggettiva del creditore non deve risultare, in concreto, eccessivamente gravosa per il debitore ceduto, ossia deve rispettare i limiti di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), limiti che – come osservato anche dal P.G. nella propria requisitoria scritta – riguardano non la validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma soltanto il profilo del pagamento (art. 1196 c.c.), ossia dell’adempimento (Cass. 13 settembre 2021, n. 24640).

6. Non può dirsi che, nel caso in oggetto, tali limiti siano stati oltrepassati, ove solo si pensi che la cessione del credito costituisce strumento di finanziamento del lavoratore per accedere al mercato dei beni e dei servizi (in funzione, se si vuole, sostanzialmente assimilabile al credito al consumo, regolato dagli artt. 121 ss. d.lgs. 385/1993, T.U. in materia bancaria e creditizia e pertanto garantita da un’informazione comprensibile, chiara e trasparente, ai sensi degli artt. 6 ss. d.lgs. 205/2006, Codice del consumo), così consentendogli, mediante la sottoscrizione di contratti di finanziamento rateale, la soddisfazione di esigenze anche diverse.

Esse non sono assolutamente estranee al rapporto di lavoro o in relazione soltanto occasionale con esso quale mera fonte di provvista economica, ma sono radicate in esso, benché non siano strettamente funzionali alla modulazione del rapporto di lavoro (come accade, invece, per le operazioni di contabilizzazione di ferie, malattie, infortuni, permessi, anticipazioni di T.f.r., alla cui registrazione e gestione anche il datore di lavoro nutre un interesse diretto, convergente con quello del lavoratore).

E ciò, per effetto del riconoscimento normativo di un diritto potestativo del lavoratore ad ottenere finanziamenti mediante la cessione fino a un quinto dello stipendio.

La possibilità, originariamente prevista per i dipendenti pubblici in virtù dell’art. 5 d.p.r. 180/1950 (Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni), di contrarre finanziamenti ratealmente estinguibili con cessione di quote dello stipendio o del salario (detto art. 5 stabilisce, infatti, al primo comma: “Gli impiegati e salariati dipendenti dello Stato e dagli altri enti, aziende ed imprese indicati nell’art. 1 possono contrarre prestiti da estinguersi con cessione di quote dello stipendio o del salario fino al quinto dell’ammontare di tali emolumenti valutato al netto di ritenute e per periodi non superiori a dieci anni, secondo le disposizioni stabilite dai titoli II e III del presente testo unico”) è stata poi estesa, a seguito di modifiche normative successive, anche ai pensionati ed ai dipendenti privati, oltre che, entro certi limiti, ai lavoratori parasubordinati, mediante un programma di rimborso del finanziamento attuato usualmente attraverso lo strumento della cessione del credito di natura lavoristica.

Occorre allora, ribadendo i principi di diritto suenunciati, valutare la gravosità dell’onere datoriale, da commisurare alle dimensioni dell’impresa, che esige la dotazione, per un elevato numero di dipendenti, di una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione.

La doverosità di tale dotazione va valutata tenendo conto dell’aggiunta (ad opera dell’art. 375 d.lgs. 14/2019 e succ. modd., Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza) al primo comma dell’art. 2086 c.c. (con sostituzione della sua rubrica con quella di “Gestione dell’impresa”) di un secondo comma, nel senso che tale dotazione è divenuta un obbligo di legge, avendo “l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva,… il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa … ”.

Occorre altresì eventualmente contemperare l’aggravio del datore di lavoro, qualora risulti insopportabile, con la sua attenuazione per effetto di una limitazione o compensazione, nel rispetto del canone citato di correttezza e buona fede, anche mediante la sollecitazione di entrambe le parti del rapporto bilaterale di cessione ad una correzione di tale situazione, non potendosi neppure escludere che il negozio di cessione possa assumere una struttura trilaterale al fine di meglio modulare l’adempimento ovvero regolare le spese per il pagamento.

In tal senso, questa Corte ha ritenuto valido il patto concluso, mediante sottoscrizione del modulo di accreditamento, con il quale l’istituto finanziatore, accreditato ma non convenzionato, si obblighi, accettandone il relativo regolamento (nel caso di specie, approvato dall’Inps), a sostenere gli oneri di gestione delle cessioni sostenuti dall’istituto di previdenza, in quanto la disposizione dell’art. 1196 c.c., che pone le spese del pagamento a carico del debitore, così come può essere derogata da un accordo tra debitore e creditore, allo stesso modo può essere derogata da un accordo tra debitore ceduto e finanziatore cessionario del credito (Cass. 13 settembre 2021, n. 24640, cit., in motivazione). Ma, anche a prescindere da ogni eventuale questione di validità d’un siffatto accordo, nel caso in esame ne è mancata persino l’allegazione.

6.1. In tale prospettiva, nel caso di specie, a fronte della necessità di allegare e provare, con fatti positivi, la maggior gravosità delle prestazioni comportate dal servizio di contabilizzazione e di gestione amministrativa, funzionale alla cessione del quinto dello stipendio degli impiegati rispetto alla propria organizzazione aziendale, tale da determinare costi ingiusti, intollerabili o sproporzionati, meritevoli quindi di essere ristorati (pur segnalata dalla Corte territoriale: al quarto capoverso di pg. 5 della sentenza), la società ricorrente si è, tuttavia, limitata a reiterare la dettagliata elencazione delle attività, dei tempi di evasione da parte del personale in esse impiegato e dei relativi costi, comportati dal servizio aggiuntivo di contabilizzazione e gestione della cessione del quinto dei dipendenti (ai p.ti da 14 a 17 di pgg. da 5 a 7 del ricorso).

Di essa la Corte d’appello ha parimenti dato atto, sottolineandone peraltro l’insufficienza (sempre al quarto capoverso di pg. 5 della sentenza), senza che però la società ricorrente abbia affrontato il nodo problematico cruciale segnalato.

7. Pertanto il ricorso deve essere rigettato, con regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza, con distrazione ai difensori antistatari, secondo la loro richiesta e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge, con distrazione in favore dei difensori antistatari.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il 4 luglio 2024

Il Presidente

(dott. Antonio Manna)

Il Consigliere est.

(dott. Adriano Patti)

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.