Collaboratore di giustizia: senza scorta, il processo è nullo (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 30 novembre 2021, n. 44319).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Presidente –

Dott. PERROTTI Massimo – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina Anna Rosaria – Rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLA Sergio – Consigliere –

Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

DE BIASIO CLAUDIO, nato a Calvi Risorta il 2 settembre 19xx;

DIANA GIUSEPPE, nato a Casal di Principe il 15 aprile 19xx;

ORSI SERGIO, nato a Casal di Principe il 5 giugno 19xx;

VALENTE GIUSEPPE, nato a Mondragone il 12 settembre 19xx;

avverso la sentenza emessa il 30 ottobre 2019 dalla Corte d’appello di Napoli.

Visti gli atti, la sentenza e i ricorsi;

udita nell’udienza del 15 giugno 2021 la relazione fatta dal Consigliere Dott.ssa Giuseppina Anna Rosaria Pacilli;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale in persona del Dott. Giulio Romano, che ha chiesto di annullare con rinvio la sentenza impugnata nei confronti di De Biasio Claudio e di rigettare i ricorsi degli altri;

udito l’avv. Raffaella (OMISSIS), in sostituzione dell’avv. Massimo (OMISSIS), difensore di B.N.L. s.p.a., che ha chiesto la conferma della sentenza impugnata, depositando conclusioni scritte e nota spese;

udito l’avv. Marco (OMISSIS), difensore di Diana Giuseppe, anche in sostituzione dell’avv. Antonio (OMISSIS), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso del suo assistito.

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza del 6 luglio 2012 la Corte d’appello di Napoli – per quanto ancora rileva in questa sede – ha confermato le condanne di DIANA GIUSEPPE, ORSI SERGIO e VALENTE GIUSEPPE, come deliberate dal locale Giudice dell’udienza preliminare in data 23 marzo 2009 in relazione ai reati di corruzione, truffa pluriaggravata, falso, estorsione aggravata, partecipazione ad associazione di tipo mafioso e concorso esterno nella medesima, attribuzione fittizia di beni immobili allo scopo di occultarne la reale titolarità.

Nei confronti di DIANA GIUSEPPE, in accoglimento dell’appello del Pubblico ministero, ha anche ritenuto sussistente la circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991, quanto al delitto di estorsione.

Ha poi deliberato la colpevolezza dell’imputato DE BIASIO CLAUDIO, assolto in primo grado, limitatamente ai reati di cui ai capi 3, 4, 5, 6, con l’esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991.

Avverso tale sentenza sono stati proposti ricorsi per cassazione dagli imputati, decisi – previa separazione, per ragioni processuali, della posizione di DIANA GIUSEPPE e di un altro ricorrente – con due pronunce.

Con la prima, datata 17 luglio 2014, la Sesta Sezione di questa Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di VALENTE GIUSEPPE in ordine ai reati di cui ai capi 4) e 5), con esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 della L. n. 203/1991, nonché in ordine al reato di cui al capo 6) e nei confronti di ORSI SERGIO in ordine ai reati di cui ai capi 4), 5), 6), 11), 12) perché estinti per prescrizione; ha confermato le relative statuizioni civili e condannato in solido i predetti ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalla costituita parte civile B.N.L. s.p.a.

Ha annullato, altresì, nei confronti di ORSI SERGIO in ordine alla confisca e rinviato per la rideterminazione della pena inflitta ai predetti imputati e per il nuovo giudizio sulla confisca, applicata ad ORSI, ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli.

Ha rigettato nel resto i ricorsi.

Ha annullato la stessa sentenza nei confronti di DE BIASIO CLAUDIO relativamente al reato di cui al capo 3) e rinviato per nuovo giudizio sul capo ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli; ha annullato la stessa sentenza senza rinvio in ordine ai reati di cui ai capi 4), 5) e 6), perché estinti per prescrizione, e limitatamente alle statuizioni civili ha rinviato per nuovo giudizio alla predetta Sezione della Corte d’appello di Napoli.

Con la seconda sentenza, pronunciata il 23 giugno 2015, la Sesta Sezione ha annullato la sentenza impugnata nei confronti di DIANA GIUSEPPE limitatamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. 203/1991 e alla disposta confisca e ha rinviato ad altra Sezione della Corte d’Appello di Napoli per la rideterminazione della pena principale e per nuovo giudizio in punto di confisca.

Ha rigettato il ricorso di DIANA GIUSEPPE nel resto.

Giudicando a seguito di rinvio, la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 30 ottobre 2019, ha assolto DE BIASIO CLAUDIO dal reato di cui al capo 3), perché il fatto non sussiste, e l’ha condannato al risarcimento del danno patito da B.N.L. s.p.a., riferito unicamente ai reati di cui ai capi 4), 5) e 6), da liquidarsi in separata sede.

Ha confermato le statuizioni civili della sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 luglio 2012 limitatamente ai capi 4), 5) e 6).

Ha rideterminato la pena nei confronti di VALENTE GIUSEPPE.

Ha rideterminato la pena nei confronti di DIANA GIUSEPPE e ha revocato la confisca delle quote sociali, disponendone la restituzione agli aventi diritto. Ha confermato per il resto la misura ablatoria.

Ha rideterminato la pena nei confronti di ORSI SERGIO e ha revocato la confisca dei beni in sequestro limitatamente ai capi 4), 5), 6), 11) e 12), disponendo la restituzione all’avente diritto.

Ha confermato per il resto la misura ablatoria.

Ha condannato DIANA GIUSEPPE, ORSI SERGIO e VALENTE GIUSEPPE alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile B.N.L. s.p.a.

Avverso quest’ultima sentenza d’appello i difensori degli imputati hanno proposto ricorsi per cassazione, fondati su motivi che saranno esposti nella parte relativa alle ragioni della decisione.

All’odierna udienza è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all’esito, le parti presenti hanno concluso come da epigrafe e questa Corte, riunita in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo, pubblicato mediante lettura in udienza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso proposto da ORSI SERGIO deve essere rigettato mentre quello presentato da DIANA GIUSEPPE è fondato limitatamente alla disposta confisca e i residui ricorsi sono fondati per le ragioni di seguito illustrate.

2. RICORSO DI ORSI SERGIO

2.1 Il difensore di ORSI SERGIO ha dedotto violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine alla disposta confisca ex art. 640 quater e 322 ter c.p., per avere la Corte d’appello, in violazione dell’art. 627, comma 3, c.p.p., omesso di affrontare il tema della non automatica corrispondenza tra la consumazione del reato di truffa e il concreto conseguimento del profitto.

Mentre la Sesta Sezione della Corte di cassazione avrebbe sollecitato una motivazione dalla quale emergesse se, a fronte dell’esistenza di un diritto di credito, vi fosse stata un’implementazione del patrimonio del ricorrente, la Corte d’appello si sarebbe limitata ad affermare che vi era stata la cessione del credito e avrebbe così ritenuto sussistente il profitto, senza verificare se il credito fosse stato concretamente incassato.

2.2 Le doglianze sono infondate.

La Corte di cassazione, nella sentenza rescindente, aveva statuito che la motivazione della Corte d’appello in ordine alla confisca era sostanzialmente assertiva (non sussistendo automatica corrispondenza tra la consumazione della truffa e il concreto profitto ottenuto).

Inoltre, occorreva tener conto della prescrizione dei reati di cui ai capi 4) e 5), la cui incidenza sulla quantificazione spettava al Giudice del merito valutare.

La Corte territoriale, nella sentenza in disamina, ha innanzitutto ricordato che la truffa, perpetrata da Orsi Sergio e dagli altri imputati, era stata realizzata con plurime alienazioni di quote sociali della Eco4 s.p.a. (che era stata costituita dal Consorzio e da società private, riconducibili agli Orsi) al Consorzio CE4, in cui il corrispettivo era costituito dalla cessione del credito, originariamente vantata dal Consorzio nei confronti del Commissariato di Governo, oggetto di un contratto di factoring con la Internazional Factors Italia s.p.a. di Milano.

Con tale operazione il Consorzio CE4 aveva acquistato la parte privata pressoché totale di Eco4 s.p.a al prezzo esorbitante di euro 9.100.000,00; prezzo che ha trasferito ai venditori con conseguente corrispondente decremento patrimoniale, essendosi privata della relativa somma, appartenente al suo patrimonio in quanto facente parte del rapporto creditizio di 24.742.839,36 con il Commissariato di Governo, con conseguente danno per l’Erario.

I venditori, a loro volta, in luogo delle azioni vendute, sono divenuti titolari di un diritto di credito della suddetta somma succedendo, ex latere accipientis, nel contratto di factoring.

La Internazional Factors Italia s.p.a. aveva conferito al Consorzio sino a quel momento solo l’importo di euro 4.900.000,00.

Tanto premesso, la Corte d’appello ha rimarcato che nell’ambito delle operazioni commerciali il diritto di credito costituisce, attraverso la cessione dello stesso a titolo oneroso, un ordinario sistema di pagamento del prezzo e, nel caso in esame, quindi, non solo si era verificata la consumazione del reato di truffa (come osservato dalla Sesta Sezione di questa Corte, che, in sintesi, ha affermato che la cessione del credito aveva determinato un concreto, efficace ed operativo effetto economico, con le conseguenze economiche sue proprie, posto che in relazione ad essa e alle implicazioni giuridiche che, con ogni immediatezza ed efficacia, essa aveva comportato, la B.N.L. s.p.a. acconsentì al fido ed agli sconti) ma si era realizzato anche un concreto profitto, posto che il credito ceduto era esigibile e certo, oltre che vantato nei confronti del Commissariato di Governo, soggetto di sicura affidabilità.

Siffatte argomentazioni resistono ai rilievi censori, formulati dal ricorrente.

Premesso che, in tema di confisca, il “profitto” del reato è costituito dal vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dalla commissione dell’illecito (in questi termini: Sez. U., n. 31617 del 26.6.2015, Rv. 264436; Sez. F, n. 44315 del 12/9/2013, Rv. 258636), giova ricordare che, come già affermato da questa Corte (Sez. 6, n. 35748 del 17 giugno 2010, Rv 247913), dalla lettura della sentenza delle Sezioni unite n. 26654 del 27 marzo 2008 (Rv 239924) emerge in maniera evidente come il principio, in essa affermato, che nega l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, in quanto utilità non ancora effettivamente conseguite, si riferisce soltanto al sequestro (e alla confisca) per equivalente, essendo tale esclusione giustificata in relazione alla circostanza che, in siffatta ipotesi, il destinatario della misura cautelare si vedrebbe “privato di un bene già a sua disposizione in ragione di un’utilità non ancora concretamente realizzata”.

Questa situazione non viene a determinarsi, invece, nel caso di sequestro diretto del credito, a condizione che, oltre ad essere considerato come profitto del reato, si tratti di un credito certo, liquido ed esigibile.

Infatti, solo un credito, che abbia tali caratteristiche, potrebbe essere considerato alla pari di un incremento patrimoniale ovvero di un vantaggio direttamente e immediatamente derivante da reato.

Mancando tali caratteri si tratterebbe di un’utilità futura e incerta, che mai assumerebbe i connotati e la natura di profitto, come sopra inteso.

Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche, ribadite in successive pronunce di questa Corte (Sez. 5, n. 7718 del 14 febbraio 2009, Rv 242568; Sez. 5, n. 3238 del 14 dicembre 2011, Rv. 251721), deve affermarsi che i Giudici del merito hanno correttamente ritenuto sussistente il profitto, rilevante a fini di confisca.

Nel caso in esame, infatti, il credito, di diretta e immediata derivazione dal reato di truffa, aveva le caratteristiche della certezza, liquidità ed esigibilità, essendo vantato nei confronti del Commissariato del Governo, ossia di un soggetto di sicura affidabilità.

Del resto, il credito stesso aveva consentito di ottenere dalla B.N.L. s.p.a. il fido e gli sconti.

Ne consegue che il ricorso, proposto da ORSI SERGIO, deve essere rigettato.

3. RICORSO DI VALENTE GIUSEPPE

3.1 Il difensore di VALENTE GIUSEPPE ha dedotto i seguenti motivi:

1) inosservanza ed erronea applicazione delle norme processuali, per non avere la Corte d’appello rinviato l’udienza del 18 gennaio 2019, pur avendo il difensore rappresentato che non era stato predisposto il servizio di scorta dell’imputato, sottoposto al programma di protezione.

All’udienza precedente del 30 novembre 2018 il ricorrente avrebbe chiesto il rinvio per legittimo impedimento e, ad ogni modo, pur avendo comunicato alla scorta di volere partecipare all’udienza del 18 gennaio 2019, ciò non sarebbe avvenuto, in quanto sarebbe mancata la comunicazione dell’autorità giudiziaria;

2) vizi della motivazione in ordine al mancato rinvio dell’udienza del 18 gennaio 2019, atteso che la Corte territoriale avrebbe fatto riferimento a un’udienza (3 dicembre 2018) mai celebrata nel procedimento in questione e non avrebbe fatto alcuna menzione delle effettive ragioni per cui si sarebbe dovuto disporre il rinvio, ossia l’equiparazione dell’imputato, sottoposto al programma di protezione, a quello detenuto.

3.2 Entrambi i motivi, che possono essere trattati congiuntamente, afferendo entrambi alla medesima questione, sono fondati.

Questa Corte (Sez. 1, n. 31691 del 10/06/2010, Rv. 248012) ha affermato che non può essere considerato “detenuto” il collaboratore di giustizia che, ammesso al programma di protezione previsto dall’art. 11 D.L. 15.1.1991 n. 8, sia trasferito in “luogo protetto”.

Ciò per l’evidente ragione che egli non perde la libertà personale in forza di un provvedimento coercitivo, quale, ad es., quello applicativo di una pena detentiva o di una misura cautelare detentiva, ma subisce limitazioni della propria libertà di domicilio o di circolazione in base a un programma, liberamente accettato e sottoscritto, predisposto a salvaguardia della sua incolumità.

Tale programma, così come attualmente disciplinato anche per effetto della legge n. 45 del 2001, per un verso delinea una serie di misure di vigilanza e tutela, di assistenza personale ed economica, di reinserimento sociale e lavorativo; per altro verso, prevede obblighi in capo all’interessato, il quale “si impegna personalmente a osservare le norme di sicurezza prescritte e collaborare attivamente all’esecuzione delle misure”, pena anche la revoca o la modifica del programma.

In particolare, come indicato all’art. 8 del D.L. n. 8/1991, il programma speciale di protezione comprende:

a) il trasferimento delle persone non detenute in luoghi protetti;

b) misure di vigilanza e di tutela da eseguire a cura degli organi di polizia territorialmente competenti;

c) accorgimenti tecnici di sicurezza per quanto riguarda le abitazioni o gli immobili di pertinenza degli interessati, che potranno consistere anche in strumenti di video-sorveglianza e di teleallarme;

d) misure necessarie per i trasferimenti in comuni diversi da quelli sede della località protetta;

e) modalità particolari di custodia in istituti penitenziari ovvero di esecuzione di traduzioni e piantonamenti, secondo quanto stabilito dall’Amministrazione penitenziaria in attuazione delle disposizioni vigenti;

f) speciali modalità di tenuta della documentazione e delle comunicazioni al servizio informatico;

g) misure di assistenza personale ed economica;

h) utilizzazione di documenti di copertura, per assicurare la sicurezza, la riservatezza e il reinserimento sociale degli interessati. Il Servizio centrale di protezione provvede, tramite dirette intese con il Centro elaborazione dati di cui all’articolo 8 della legge n. 121/1981, ad attivare procedure di controllo sull’utilizzazione dei documenti di copertura rilasciati ai collaboratori di giustizia, salvaguardando la riservatezza delle informazioni;

i) cambiamento delle generalità a norma del decreto legislativo 29 marzo 1993, n. 119, e successive modificazioni;

j) misure atte a favorire il reinserimento sociale del collaboratore o del testimone di giustizia e delle altre persone sottoposte a protezione;

k) misure straordinarie, anche di carattere economico, eventualmente necessarie.

Trattasi, all’evidenza, di una serie di misure dirette a garantire l’incolumità di soggetti esposti a pericolo a causa della scelta di collaborare con l’autorità giudiziaria; soggetti che, a loro volta, subiscono limitazioni della propria libertà e che, proprio in ragione della peculiarità del loro status, sono destinatari di particolari discipline normative, quale, ad es., quella in tema di notificazione degli atti, da effettuarsi presso il Servizio Centrale di Protezione del Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, dal momento che l’interessato, all’atto della sottoscrizione del programma, elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede il predetto Servizio.

A tal riguardo la giurisprudenza di legittimità ha affermato che è nulla la notifica all’imputato, sottoposto a programma di protezione, effettuata in luogo diverso dal domicilio per legge individuato presso il Servizio Centrale di Protezione del Ministero dell’Interno (Sez. 3, n. 35712 del 5/5/2011, Dianese, Rv 251230; n. 27222 del 2013, Rv. 256282 cit.) e, di conseguenza, che è valida la notifica alla stessa categoria di soggetti regolarmente effettuata presso il Servizio Centrale di Protezione (Sez. 2, n, 36892 del 28/06/2011, Presta, Rv. 251123, Sez. 4, n. 5850 del 06/04/2000, Maretta, Rv 216799).

Si è rimarcato che, nel caso del collaboratore di giustizia, la speciale domiciliazione trova causa nell’esigenza di tutelarne sicurezza e riserbo, piuttosto che in ragioni di economia processuale, ma, nondimeno, è stato considerato che la collaborazione si fonda pur sempre su base volontaria, con la ragionevole presunzione della piena consapevolezza – da parte di chi intenda aderire a un programma di protezione – anche dei meccanismi rituali che quella scelta comporta.

Nell’ambito delle suddette misure, predisposte a tutela del collaboratore di giustizia, devono includersi anche quelle tese a garantire la sicurezza degli spostamenti necessari per la sua partecipazione alle udienze, ove egli assuma la veste di imputato.

E’ di tutta evidenza, infatti, che solo la sicurezza degli spostamenti può consentirgli di esercitare il fondamentale diritto di difesa, altrimenti sacrificato se egli dovesse organizzarsi in autonomia per raggiungere la sede dell’ufficio giudiziario.

Questa interpretazione, proprio perché garantisce la partecipazione al giudizio dell’imputato collaboratore di giustizia, è conforme ai principi del giusto processo e del contraddittorio, sanciti dall’art. 111 Cost., il quale riconosce la piena espansione del diritto di autodifesa e l’esercizio di facoltà, che solo la presenza dell’imputato nel processo è in grado di assicurare.

La partecipazione dell’imputato al “suo” processo è infatti condizione indefettibile per il regolare esercizio della giurisdizione, in quanto, nell’ottica di un processo a carattere accusatorio, essa afferisce al fondamentale diritto di autodifesa, rinunziabile, ma non delegabile e non confiscabile.

D’altra parte, il diritto-dovere del giudice di sentire personalmente l’imputato e il diritto di quest’ultimo di essere ascoltato dal giudice, che dovrà giudicarlo, rientrano nei principi generali di immediatezza e di oralità, ai quali si informa l’attuale sistema processuale.

L’anzidetta interpretazione trova anche conferma nelle norme e principi posti dall’art. 6, comma 3, lett. c), d), e), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nell’art. 14, comma 3, lett. d), e), f), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 881.

I primi, infatti, nel prevedere il diritto di ogni accusato di difendersi personalmente, di esaminare o far esaminare i testimoni e di farsi assistere gratuitamente da un interprete, implicano necessariamente la presenza dell’imputato; il suddetto art. 14 riconosce esplicitamente il diritto di ogni individuo, accusato di un reato, di essere presente al processo, oltre che di difendersi personalmente o mediante un difensore di sua scelta, di interrogare e fare interrogare testimoni, di farsi assistere gratuitamente da un interprete.

3.2.1 Alla luce di quanto precede e, quindi, in ragione delle peculiarità dello status del collaboratore di giustizia è evidente che, nel caso in esame, non può condividersi l’affermazione della Corte territoriale, che ha negato il rinvio dell’udienza del 18 gennaio 2019, pur avendo il difensore rappresentato che non era stato predisposto il servizio di scorta dell’imputato, sottoposto al programma di protezione.

Il Collegio del merito ha affermato che il collaboratore di giustizia non è assimilabile al detenuto e ha richiamato un precedente di questa Corte (Sez. 1, n. 31691 del 10/6/2010, Rv. 248012) relativo però a fattispecie non perfettamente sovrapponibile a quella in disamina, concernendo un collaboratore che aveva tardivamente fatto pervenire la certificazione medica, utile ad ottenere il rinvio dell’udienza per legittimo impedimento.

Nel caso in esame, invece, il ricorrente, collaboratore di giustizia, aveva partecipato a tutte le udienze e per quella del 30 novembre 2018 aveva chiesto tramite il Servizio centrale di protezione un rinvio per motivi di salute.

L’udienza del 30 novembre 2018 è stata rinviata per assenza del relatore e l’istanza del ricorrente, pervenuta dopo la conclusione dell’udienza, con nota del 3 dicembre 2018 è stata ritenuta non meritevole di accoglimento, essendosi rilevato che i motivi di salute, genericamente indicati, erano stati solo asseriti, senza allegazione di certificazione sanitaria.

All’udienza del 18 gennaio 2019, come già ricordato, il difensore aveva rappresentato che non era stato predisposto il servizio di scorta dell’imputato, sottoposto al programma di protezione, ma ciononostante la Corte territoriale non ha disposto il rinvio.

Alla luce di siffatte circostanze deve rilevarsi che l’imputato, presente a tutte le udienze precedenti quelle del 18 gennaio 2019 e del 30 novembre 2018, per la quale però aveva fatto pervenire un’istanza di rinvio, aveva espresso la volontà di partecipare al “suo” processo; volontà, quella della partecipazione al processo, che, in linea generale, non richiede una formale richiesta, potendo estrinsecarsi in qualunque modo, come precisato dal Massimo Consesso di legittimità (Sez. U., n. 4694 del 27/10/2011, Rv. 251272), secondo cui, nel giudizio d’appello avverso la sentenza pronunciata all’esito del rito abbreviato, la richiesta di partecipazione da parte dell’imputato impedito può essere tratta anche da “facta concludentia” da cui possa desumersi la sua inequivoca manifestazione di volontà di comparire all’udienza camerale.

Deve altresì ricordarsi che le Sezioni unite di questa Corte – con riguardo alla situazione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa sopravvenuta – hanno affermato (notizia di decisione del 30 settembre 2021) che la restrizione dell’imputato agli arresti domiciliari integra un impedimento legittimo a comparire che impone al giudice di rinviare a una nuova udienza e disporne la traduzione.

Siffatto principio si pone in continuità con quanto ritenuto in precedenti pronunce (ex multis: Sez. 5, n. 37658 del 20 novembre 2020, Rv 280139), secondo cui non può celebrarsi il giudizio in assenza anche quando risulti che l’imputato avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico, a differenza di quanto accade per il difensore alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento.

Il principio può estendersi al collaboratore di giustizia, atteso che anch’egli, al pari del detenuto o del soggetto sottoposto a misure limitative della libertà, non può muoversi autonomamente, pena l’esposizione a pericolo della sua incolumità.

Può allora affermarsi che, in presenza della manifestazione di volontà del ricorrente di partecipare al processo e in considerazione del suo status, noto alla Corte territoriale, quest’ultima, come del resto già avvenuto per le altre udienze, avrebbe dovuto disporre l’attivazione del servizio scorta al fine di consentire la partecipazione dell’imputato all’udienza del 18 gennaio 2019, altrimenti impedita.

3.2.2 La mancata attivazione del Servizio scorta ha determinato l’assenza dell’imputato con conseguente nullità del processo e della sentenza impugnata.

Potendosi equiparare, infatti, per le ragioni innanzi dette, la posizione del collaboratore a quella del detenuto o del soggetto sottoposto a misure limitative della libertà, deve rilevarsi che la mancata attivazione del servizio di protezione è assimilabile alla mancata traduzione all’udienza camerale dell’imputato detenuto.

Questa Corte ha affermato che la mancata traduzione all’udienza camerale dell’imputato detenuto, che abbia richiesto di partecipare, determina, ai sensi degli art. 178 cod. proc. pen., lett. c), e art. 179 cod. proc. pen., una nullità assoluta e insanabile, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento.

Tale conclusione si fonda sul principio, enunciato (in riferimento al procedimento di riesame ma applicabile in via generale), da queste Sezioni Unite con la sentenza del 22.11.1995, n. 40, Carlutti, Rv. 203771, e poi costantemente seguito (ex multis: Sez. 2, n. 32666 del 20.9.2006, Travascia, Rv. 235315; Sez. 6, n. 10319 del 22.1.2008, Di Benedetto, Rv. 239084), secondo cui nell’ipotesi di indagato o imputato detenuto, la cui partecipazione all’udienza camerale è subordinata ad una positiva manifestazione di volontà in tal senso, l’ordine di traduzione e la sua esecuzione costituiscono, insieme con l’avviso dell’udienza camerale e la sua notificazione, atti indefettibili della procedura diretta alla regolare costituzione del contraddittorio.

Si impone, pertanto, nei confronti di VALENTE GIUSEPPE l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo giudizio.

4. RICORSO DI DE BIASIO CLAUDIO.

4.1 II difensore di DE BIASIO CLAUDIO ha dedotto violazione di legge e mancanza di motivazione, per essersi la Corte d’appello, in violazione dell’art. 627, comma 3, c.p.p., limitata ad affermare che la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi 4), 5) e 6) comportava la conferma delle statuizioni civili della sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 luglio 2012, non considerando sia che la sentenza rescindente avrebbe indicato di valutare la sussistenza della responsabilità civile derivante dalle condotte di cui ai capi prescritti sia che la prima sentenza d’appello non avrebbe condannato il ricorrente a risarcire alcun danno nei confronti di B.N.L. s.p.a.

4.2 Le doglianze sono meritevoli di accoglimento.

Al fine dell’agevole comprensione della fondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata, è utile ricordare le decisioni assunte nei confronti del ricorrente nel corso di tutto il giudizio.

La sentenza di primo grado aveva assolto DE BIASIO CLAUDIO da tutti i reati ascrittigli.

A seguito di ricorso del Pubblico ministero la Corte d’appello aveva condannato l’imputato per i reati di cui ai capi 3), 4), 5) e 6), condannandolo anche alle refusione delle spese del grado in favore della parte civile B.N.L. s.p.a.

La Sesta Sezione di questa Corte, nella sentenza rescindente, aveva annullato con rinvio relativamente al reato di cui al capo 3); aveva annullato la sentenza impugnata senza rinvio in ordine ai reati di cui ai capi 4), 5) e 6), perché estinti per prescrizione, ed aveva rinviato per nuovo giudizio limitatamente alle statuizioni civili.

In sede di rinvio, la Corte d’appello, dopo avere assolto l’imputato per il reato di cui al capo 3), si è limitata ad affermare che la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati di cui ai capi 4), 5) e 6) comportava la conferma delle statuizioni civili della sentenza della Corte d’appello di Napoli del 6 luglio 2012 (che aveva condannato l’imputato anche per il reato di cui al capo 3).

E’ di tutta evidenza che, in violazione dell’art. 627 c.p.p., la Corte territoriale non ha compiuto la rivisitazione richiesta dal Giudice della legittimità, tanto più necessaria in considerazione dell’intervenuta assoluzione dell’imputato dal reato di cui al capo 3).

Peraltro, la Corte d’appello, con la sentenza in disamina, ha condannato l’imputato al risarcimento del danno nei confronti di B.N.L. s.p.a., da liquidarsi in separato giudizio, ma la precedente sentenza di secondo grado non si era pronunciata sul danno subito dalla predetta parte civile.

La rivisitazione, richiesta dalla Corte di cassazione, non poteva, quindi, estendersi alla pronuncia sul danno anzidetto, ponendosi in evidente contrasto con il divieto di reformatio in peíus.

Ne discende che la sentenza impugnata deve essere annullata nella parte relativa alle statuizioni civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

5. RICORSO DI DIANA GIUSEPPE

5.1 Il difensore di DIANA GIUSEPPE ha dedotto i seguenti motivi:

1) erronea applicazione dell’art. 597 c.p.p. in ordine alla mancata riduzione di pena conseguente all’annullamento senza rinvio della circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991. Il giudice di primo grado era partito da una pena base di anni 5 per l’estorsione aggravata ai sensi del capoverso dell’art. 629 c.p.; a seguito dell’appello del Pubblico ministero, la Corte d’appello aveva riconosciuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 231/1991 ed era partito da una pena base comunque di 5 anni: il che significherebbe che, senza l’aggravante menzionata, la pena sarebbe stata inferiore a 5 anni.

A seguito della sentenza della Corte di cassazione, che aveva annullato l’aggravante de qua, la Corte d’appello sarebbe dovuta partire da una pena inferiore a 5 anni;

2) violazione degli artt. 627 c.p.p. e dell’art. 240, comma 1, c.p.p. in tema di confisca facoltativa dei beni immobili, intestati alla Masseria Pucci s.p.a., nonché illogicità della motivazione sul punto.

La Sesta Sezione di questa Corte, dopo avere precisato che la confisca era stata disposta ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p. come il prodotto del reato di intestazione fittizia, avrebbe affermato che nella sentenza impugnata difettava la motivazione sulle ragioni per cui si dovesse esercitare il potere discrezionale e sul perché i beni confiscati fossero stati ritenuti prodotto del reato.

Secondo il ricorrente, la Corte d’appello, nella sentenza di rinvio, avrebbe ripetuto la stessa motivazione già ritenuta viziata dalla Corte di cassazione, avendo rilevato che i beni sarebbero prodotto del reato, in quanto oggetto essi stessi del reato di intestazione fittizia.

La Corte di cassazione aveva ricordato con riferimento alle quote sociali che la misura ablativa era consentita nei limiti dell’incremento di valore nascente dall’intervenuta intestazione ma tale principio non sarebbe stato applicato dalla Corte territoriale con riguardo agli immobili intestati alla Masseria Pucci.

La Corte d’appello non avrebbe indicato il nesso di strumentalità con il reato e, se la strumentalità dovesse essere intesa in senso soggettivistico, non avrebbe considerato che l’imputato era stato assolto dal reato di associazione di stampo mafioso ed era stata esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 legge n. 231/1991.

La confisca disposta non potrebbe evitare attività elusive della reale riconducibilità all’imputato dei beni immobili intestati alla Masseria Pucci s.p.a., perché sul tema, oltre alle ammissioni di Diana Giuseppe, vi sarebbe una sentenza definitiva del giudice penale, che li riconduce alla disponibilità del Diana.

Né la confisca potrebbe evitare che beni di provenienza illecita possano essere sottratti a legittimi provvedimenti ablatori, atteso che proprio la provenienza lecita di tali immobili sarebbe stata accertata in questo procedimento.

5.2 II primo motivo è manifestamente infondato.

Il giudice di primo grado – quanto alla pena detentiva, oggetto delle doglianze del ricorrente – era partito da una pena base di anni 5 per l’estorsione aggravata ai sensi del capoverso dell’art. 629 c.p., esclusa l’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991; a seguito dell’appello del Pubblico ministero, la Corte d’appello aveva riconosciuto la sussistenza dell’aggravante di cui al menzionato art. 7 e, partito da una pena base di 5 anni, aumentata per la continuazione interna ad anni cinque e mesi 6 di reclusione, aveva aumentato tale pena ad anni 7 e mesi 4 di reclusione per l’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991.

Contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, nella prima sentenza della Corte territoriale la pena base era stata determinata in anni 5 di reclusione, che non includeva l’aumento per l’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991, successivamente invece effettuato.

Nella sentenza impugnata la pena base è stata fissata in anni 5 di reclusione, con la conseguenza che nessuna violazione del divieto di reformatio in peius si è verificata.

5.3 Il secondo motivo è fondato.

La Sesta sezione, nella sentenza rescindente n. 936 del 2014, aveva affermato che la confisca era stata disposta ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., essendosi fatto riferimento al prodotto del reato di intestazione fittizia, ma difettava la motivazione sulle ragioni per cui si dovesse esercitare il potere discrezionale e sul perché i beni confiscati fossero stati ritenuti prodotto del reato.

Nella sentenza impugnata la Corte d’appello, dopo avere ricordato che la cessione di immobili alla Masseria Pucci s.p.a. era fittizia e ciò era confermato dall’avvenuto passaggio in giudicato sul punto della sentenza di secondo grado, ha affermato che la disponibilità dei predetti immobili da parte di Diana Giuseppe “inverava il pericolo di sottrazione e dispersione dei beni dell’imputato”, “disposto ordinariamente a dare luogo a fittizie intestazioni di beni al fine di sottrarli a legittimi provvedimenti ablatori”.

Il Collegio del merito ha aggiunto che il vincolo pertinenziale sussisteva in quanto l’azione delittuosa era caduta proprio sugli immobili oggetto di confisca e che il prodotto del reato era costituito dal diritto di proprietà.

Siffatta motivazione appare carente quanto all’indicazione delle ragioni per cui gli immobili dovessero ritenersi prodotto del reato.

Posto che questa Corte è ferma nel ritenere che, in tema di confisca, il “profitto” del reato, contrapponendosi al “prodotto” e al “prezzo” del reato, è costituito dal vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dalla commissione dell’illecito mentre il prodotto del reato rappresenta il risultato empirico, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato (Sez. F, n. 44315 del 12/9/2013, Rv. 258636), deve rilevarsi che la Corte d’appello non ha adeguatamente spiegato le ragioni per cui ha ritenuto che oggetto della disposta confisca fosse proprio il prodotto del reato, da intendersi nel senso precisato dal Giudice della legittimità.

Deve aggiungersi che la Sesta Sezione ha ricordato che la confisca facoltativa di cui all’art. 240, comma 1, c.p. è in principio compatibile con quella c.d. “allargata” di cui all’art. 12 sexies L. n. 356/1992 (quale risulta a seguito dell’entrata in vigore della L. 501/1994), poiché la condanna per il reato di trasferimento fraudolento di valori legittima l’applicazione di quest’ultima misura anche a prescindere dall’accertamento di un nesso eziologico tra il reato e i beni oggetto di ablazione, allorché si sia in presenza della sproporzione del valore del complesso patrimoniale di cui il soggetto sia titolare, anche per interposta persona, rispetto al reddito da lui dichiarato o all’attività da lui svolta.

La menzionata Sezione ha affermato che la sentenza impugnata risultava carente circa la giustificazione dell’esercizio del proprio potere discrezionale, con ciò evidenziando la necessità dell’indicazione delle ragioni per cui fosse stata applicata la confisca facoltativa a fronte della possibilità di adottare la confisca obbligatoria di cui all’art. 12 sexies L. n. 356/1992, obbligatoriamente prevista anche in relazione al reato di cui all’art. 12 quinquies L. n. 356/1992.

Tale rilievo è rimasto insoddisfatto, avendo la Corte del merito spiegato invece le ragioni per cui la res, ove lasciata nella disponibilità del condannato, potrebbe costituire per quest’ultimo un incentivo a commettere ulteriori reati.

Si impone quindi l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto.

6. Il rigetto del ricorso, proposto da ORSI SERGIO, comporta, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese del grado in favore della parte civile B.N.L. s.p.a., che si liquidano in euro 3.510,00 oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di DE BIASIO CLAUDIO e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di VALENTE GIUSEPPE e quanto a DIANA GIUSEPPE limitatamente alla disposta confisca con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso di Diana Giuseppe.

Rigetta il ricorso di Orsi Sergio, che condanna al pagamento delle spese processuali e alla refusione delle spese del grado in favore della parte civile B.N.L. spa, liquidate in euro 3.510,00 oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, udienza del 15 giugno 2021.

Depositata in Cancelleria, oggi 30 novembre 2021.

SENTENZA – copia non ufficiale -.